Cass. pen., sez. I 31-10-2007 (10-10-2007), n. 40237 Premeditazione – Estensione al concorrente nel reato – Pluralità di chiamate – Riscontro reciproco

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Catania – per quanto qui di interesse – ha confermato la condanna a venti anni di reclusione, pena accessoria e misura di sicurezza, inflitta il 26.5.2005 dal G.I.P. del Tribunale della sede a C.A. per concorso nell’omicidio premeditato di P.G., e, in continuazione, nella detenzione e porto illegali di arma comune da sparo e munizioni e nella ricettazione di un’autovettura, con attenuanti generiche equivalenti (reati tutti aggravati anche ai sensi del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito con modifiche nella L. 12 luglio 1991, n. 203). La Corte territoriale ha rilevato che plurime e convergenti dichiarazioni collaborative avevano collegato il delitto, avvenuto in una rivendita di alimentari la sera del (OMISSIS), all’uccisione, risalente a due giorni prima, di B.M.. Costui e i fratelli Co. ed I. – all’epoca detenuto – erano esponenti di rilievo del gruppo malavitoso dei "Carateddu", alleato del clan Cappello, al pari dell’altro gruppo dei "Cursoti milanesi". Fra i due sodalizi si erano però verificati gravi dissapori, culminati nell’atteggiamento ostile e sprezzante di P.R., esponente dei "Cursoti milanesi", nei confronti del condetenuto B.I. in occasione della morte del fratello. Il B. aveva quindi disposto una immediata rappresaglia "trasversale", e la sua volontà poteva essere pervenuta agli associati in libertà tramite colloqui con i familiari; in particolare, secondo quanto riferito dal collaboratore Pa.Gi., dopo un colloquio avuto con la moglie il mattino del (OMISSIS) aveva commentato, in presenza di P. R., pure impegnato in colloqui, di avere ricevuto "delle polpette", espressione nel gergo malavitoso locale riferibile ad un omicidio. La ricostruzione della vicenda in questi termini – del resto non specificamente contestata dalla difesa – era stata indipendentemente riportata da più fonti ( D.G.C., D.G., L.F.G. e T.S.) in momenti non sospetti, quando ancora non vi era stata alcuna divulgazione degli esiti delle indagini. I primi tre collaboratori avevano fatto riferimento ad un gruppo di fuoco, all’uso di un’autovettura (precedentemente rubata dal D.) e indicato il C. fra i partecipanti alla spedizione, mentre il T. aveva avuto notizia dell’azione di due sole persone – Pa. e Sa. – le quali si erano servite di un ciclomotore. Tale versione, secondo il giudice di appello, non esclude positivamente un concorso del C.; viene incidentalmente notato che la fonte di conoscenza del T. è costituita da vicini e parenti della vittima. Gli altri collaboratori, sebbene "de relato", sono ritenuti attendibili per l’assenza di ragioni di ostilità verso l’incolpato, la costanza, coerenza e convergenza delle rispettive versioni sugli aspetti essenziali della vicenda, le fonti di conoscenza costituite da personaggi inseriti con ruolo di rilievo nel gruppo criminale. Le loro rivelazioni avevano trovato ampia conferma nelle sopravvenute dichiarazioni di L.A., nonchè in quelle di Pa. e S.C., sentiti in contraddittorio nel giudizio di appello; questi ultimi avevano aggiunto rilevanti particolari, come quello – riscontrato – del colloquio fra il B. e la moglie (e contemporaneamente fra P.R. e suoi familiari) nell’imminenza del delitto. Quanto al L., questi rivestiva la funzione di "reggente" di zona del clan Cappello, come assodato da giudicato, e, su richiesta dei "Cursoti milanesi", atteso il rischio di uno scontro cruento fra i due gruppi alleati, aveva condotto insieme all’altro reggente – Cu.Gi. – un’inchiesta dalla quale era emerso lo svolgimento dei fatti nei termini di cui sopra; in particolare, il C. e gli altri componenti del "commando" si erano giustificati affermando di avere eseguito ordini impartiti da B.I.. Cu. aveva quindi riferito a Ca.Sa., capo dell’intera organizzazione, e questi aveva proibito, nell’interesse generale, qualsiasi ulteriore rappresaglia. Non era quindi rilevante il fatto che, dopo tale intimazione, i fratelli P. avessero ostentato buoni rapporti con gli esecutori del delitto, scagionandoli nel corso del giudizio e, addirittura, prospettando in favore del C. un alibi da questi mai dedotto (si sarebbe trovato, al momento del delitto, in compagnia di un loro parente acquisito di cui non hanno indicato il cognome). Nè rileva che i testimoni presenti al fatto abbiano notato un solo "killer" e non più persone; al di la di una verosimile omertà, essi riferiscono di avere avuto una visione parziale dell’ambiente del delitto (uno aveva notato soltanto una sagoma scura, l’altro era chino dietro il bancone e non in grado di vedere la scena); del resto, le modalità esecutive accertate sono pienamente compatibili con un solo sparatore, supportato a distanza da complici in funzione di vedetta e di copertura, com’è di regola negli agguati di mafia. Irrilevante è ritenuta un’incertezza nell’indicazione del tipo della vettura impiegata dagli esecutori (Y 10 o Lancia Y), nè la mancanza di denunce di furto di un’auto con quelle caratteristiche nell’imminenza del delitto è considerata significativa, ben potendo il veicolo essere stato prelevato in precedenza da D. – fornitore del gruppo – ed utilizzato a seguito della sopravvenuta decisione di agire contro P. G..
La Corte territoriale ha altresì ravvisato entrambe le aggravanti contestate per l’omicidio. Il metodo e la finalità mafiosa derivano dal movente, riconducibile all’esigenza di affermazione e vendetta dei "Carateddu", e dall’utilizzazione – in forza del vincolo gerarchico – della struttura organizzativa del gruppo malavitoso.
Quanto alla premeditazione, il fatto scatenante, sullo sfondo di preesistenti rancori, è ricondotto alla reazione di B. I. alla ostentata indifferenza di P.R. per il lutto che lo aveva colpito ed alla mancata espressione di condoglianze, elementi apparsi al mandante indicativi di responsabilità per l’uccisione del congiunto (in realtà ascrivibile ad altro sodalizio mafioso, secondo l’esito delle indagini successivamente svolte dai vertici associativi e riferite dai collaboratori). Tanto premesso, si ritengono ravvisabili gli estremi dell’aggravante, poichè il proposito criminoso era rimasto fermo per un tempo (dal (OMISSIS) – omicidio di B.M. – al (OMISSIS)) sufficiente a più matura riflessione ed a consentire alle controspinte psicologiche di operare. La premeditazione del mandante, in quanto nota agli esecutori designati, comportava in costoro, con l’adesione al disegno delittuoso, anche la condivisione dell’altrui dolo con le caratteristiche di particolare intensità che giustificano l’aggravante.
Ricorre per Cassazione il difensore, denunciando con un primo motivo la violazione dell’art. 533 c.p.p., comma 1, nel testo sostituito dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, che, introducendo il criterio del "ragionevole dubbio", non consente valutazioni probabilistiche, tanto più se fondate, come nella fattispecie, su dichiarazioni "de relato" in sostanza riconducibili ad una sola fonte ( L.) e smentite da altri contrastanti elementi; al proposito evidenzia che il Tribunale di Catania, costituito ex art. 309 c.p.p., aveva a suo tempo – con decisione non impugnata – sancito l’insussistenza di gravi indizi di reità. Con altri due motivi censura – sotto i profili dell’inosservanza di norme processuali e dell’incongrua motivazione – la mancata valutazione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni collaborative e la loro forzata e frammentaria utilizzazione ai fini della dimostrazione della convergenza, senza peraltro indicare idonei riscontri individualizzanti e trascurando gli elementi di contrasto offerti dai testi oculari, dai familiari della vittima e dal collaboratore T.. Nè poteva essere ritenuta la responsabilità senza avere precisamente individuato il ruolo che il C. aveva avuto nell’esecuzione del delitto.
Un’ultima ragione di doglianza riguarda – sotto il profilo della carente motivazione – le circostanze aggravanti. Quanto alla premeditazione, le risultanze apprezzate dalla Corte territoriale consentono, in ipotesi, di far risalire la comunicazione del mandato omicida al pomeriggio del (OMISSIS), e quindi a così breve distanza di tempo dall’esecuzione da non consentire di configurare l’aggravante. Nè poteva ravvisarsi una situazione apprezzabile ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, atteso il movente esclusivamente personale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato. Quanto al preliminare rilievo in esso contenuto, va ribadito che con la regola per cui il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli "al di là di ogni ragionevole dubbio" (L. n. 46 del 2006, art. 5, modificativo dell’art. 533 c.p.p., comma 1), il legislatore ha formalizzato un principio già acquisito in tema di condizioni per la condanna, stante la preesistente disposizione dell’art. 530 c.p.p., comma 2, secondo la quale in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova l’imputato va assolto (Cass., Sez. 1, 11.5/14.6.2006, Ganci e altro; 28.6/13.9.2006, Volpon; Sez. 2, 21.4/7.6.2006, Serino ed altro); come la giurisprudenza aveva già in precedenza evidenziato, il giudizio di colpevolezza deve cioè essere l’unico possibile alla stregua degli elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dettati dall’esperienza umana (cfr., ad es., Cass., Sez. 1, 24.6/8.10.1992, Re, in tema di ragionamento indiziario; Sez. Un. 10.7/11.9.2002, Francese, in riferimento al nesso di causalità).
Tanto premesso, va osservato che il "ragionevole dubbio" non può essere fatto discendere dalla citata pronuncia del Tribunale del riesame, che avrebbe ritenuto l’insussistenza di gravi indizi a carico dell’imputato. Anzitutto, trattasi di decisione emessa allo stato delle indagini, che non tiene conto delle successive acquisizioni e in particolare, nel caso di specie, dei rilevanti elementi di conferma all’accusa emersi nel giudizio di appello (dichiarazioni di S. e Pa., certificazioni relative ai colloqui). In ogni caso, il rapporto fra il procedimento "de libertate" e il giudizio di merito è governato dal principio per cui la decisione di merito, emessa all’esito della compiuta acquisizione delle prove in contraddittorio e del loro globale esame, assorbe e supera la valutazione del giudice dell’incidente cautelare (cfr.
Corte Cost. 7/15.3.1996 n. 71).
Quanto alla ritenuta attendibilità soggettiva ed intrinseca dei collaboratori, la sentenza impugnata ne ha dato esaustiva giustificazione, con riferimento sia alla originalità, spontaneità e mancanza di concertazione dei singoli contributi, sia alla sostanziale coerenza, convergenza e mancanza di punti di effettivo contrasto; ha anche rilevato che il L. personalmente, e la fonte di conoscenza cui altri hanno attinto ( Cu.), per la posizione verticistica nell’ambito del gruppo sovraordinato non possono essere qualificati meri referenti "de relato", ma sono diretti portatori di un patrimonio conoscitivo concernente le vicende interne del sodalizio che deriva da informazioni relative a fatti di rilevanza strategica, attinte interrogando sottoposti in un contesto in cui non è concepibile – pena pesanti ritorsioni – che si riferisca il falso al superiore gerarchico. A ciò va aggiunto che il D., secondo quanto riportato dalla sentenza impugnata (pag. 14 – 16), oltre ad avere fatto le prime rivelazioni in epoca assai prossima al delitto non si limita ad una semplice indicazione di reità, ma assume la veste di chiamante in correità, in quanto ammette di avere rubato l’autovettura usata dagli esecutori per incarico, fra gli altri, del C. e di averla poi lasciata, la sera dell’omicidio, in un luogo convenuto, essendo stato informato dello scopo per cui sarebbe stata usata (di qui la qualifica, attribuitagli nel capo di imputazione, di concorrente nel reato). Le obiezioni avanzate con il ricorso riguardano aspetti del tutto secondari o non pertinenti alla posizione del ricorrente, oppure si rifanno alle dichiarazioni del T. che, rese a due anni di distanza dal fatto sulla base di notizie attinte nell’ambiente dei "Cursoti milanesi" cui apparteneva la vittima, sono necessariamente parziali, se pure non condizionate da reticenza della fonte a seguito del perentorio ordine del capo dell’organizzazione di dimenticare l’accaduto. Nè in proposito – come pure riguardo all’attendibilità di S. e Pa. – possono essere introdotti ulteriori elementi a dire del ricorrente desumibili dagli atti o da diversi procedimenti, che non sono specificamente indicati e riportati.
Quanto agli altri dichiaranti, riguardo al D.G. il ricorrente omette di menzionare la sua missiva del 21.2.1998 diretta al P.M. (citata a pag. 17 della sentenza) contenente la specifica indicazione (secondo quanto appreso dal Cu.) degli esecutori, fra i quali A. "(OMISSIS)" ( C.); per il L.F., si sostiene che le sue dichiarazioni non sarebbero costanti nè affidabili, in quanto sarebbe stato emarginato dal gruppo dopo la sua scarcerazione nel (OMISSIS) e, addirittura, si sarebbe progettato di eliminarlo:
circostanze di fatto incontrollabili in mancanza di specifici riferimenti agli atti, e comunque non tali da avvalorare la tesi difensiva se, come asserito, fu proprio il Cu. (indicato dal collaboratore come sua fonte di conoscenza) a proteggerlo.
Altre questioni sollevate – come l’impossibilità di un diretto mandato del detenuto B. al C., i rapporti apparentemente cordiali da quest’ultimo mantenuti con i parenti della vittima, le dichiarazioni favorevoli da costoro rese, la rilevanza delle circostanze riferite dai testi presenti sul luogo – sono la mera riproduzione di argomenti già trattati dalla sentenza impugnata, senza alcuno spunto critico sulle conclusioni al proposito motivatamente espresse dalla Corte territoriale. Non va infine omessa la considerazione che l’alibi del ricorrente, da lui mai prospettato e tardivamente suggerito dagli affiliati al "clan" della vittima, per tali sue singolari caratteristiche avvalora, semmai, la ricostruzione della vicenda secondo la quale il delitto fu "perdonato" d’ordine del Ca., capo supremo dei gruppi confederati.
In conclusione, quindi, le critiche formulate con il ricorso non valgono a smentire la coerenza logica e la corretta applicazione delle regole di giudizio sancite dall’art. 192 c.p.p., comma 3, da parte del giudice "a quo", che si è attenuto al criterio per cui più attendibili indicazioni di reità – specie se, come nel caso in esame, qualificate da specifiche informazioni interne al contesto malavitoso o dalla personale partecipazione ad attività preparatorie – sono idonee a fornirsi reciproco sostegno in quanto colleghino l’incolpato al fatto, anche se relative a distinti frammenti dell’attività criminosa (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. 1, 21.11.2006/19.1.2007, P.G. in proc. Missi). Nè il giudizio di responsabilità è precluso dalla rappresentata circostanza che le parziali conoscenze dei dichiaranti, non presenti alla materiale esecuzione del delitto, confluiscono sulla partecipazione al gruppo incaricato dell’azione omicida, ma non anche sullo specifico ruolo di autore dei colpi mortali; infatti, sia che il soggetto fosse lo sparatore, sia che abbia avuto semplici funzioni di supporto, è comunque configurato un contributo concorsuale, come definito nel capo d’imputazione.
In ordine alle censure concernenti le aggravanti, come evidenziato dalla sentenza impugnata è chiaro l’uso di modalità mafiose, poichè il delitto è stato realizzato utilizzando la struttura "militare" del gruppo malavitoso e valendosi dell’omertà dell’ambiente; del pari sussiste la finalità di vendetta e affermazione nei confronti dei rivali, che non è personale del mandante, ma comune al sodalizio organizzato su base familiare; il contesto di faida tra famiglie mafiose integra di per sè la circostanza di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
Quanto alla premeditazione, è noto che la configurazione di detta aggravante (indicativa di particolare intensità del dolo) richiede due elementi: uno, ideologico o psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile; l’altro, cronologico, rappresentato dal trascorrere – fra l’insorgenza e l’attuazione di tale proposito – di un intervallo di tempo apprezzabile, la cui consistenza minima non può essere in astratto rigidamente determinata ma deve risultare in concreto sufficiente a far riflettere l’agente sulla decisione presa ed a consentire il prevalere dei motivi inibitori su quelli a delinquere (cfr., ad es., Cass., Sez. 1, 13.6/3.10.1997, Ogliari;
29.10.1998/14.4.1999, Ventra; 18/24.6.2003, Di Matteo ed altro). Nel caso di specie gli estremi richiesti sono stati ragionevolmente ravvisati, poichè il fatto scatenante risale al 23.1.1997 e, tenuto conto dell’individuazione dell’obbiettivo e della trasmissione del mandato, è chiara la persistenza del proposito delittuoso fino al momento (sera del (OMISSIS)) della sua attuazione, dunque per un lasso di tempo apprezzabile e sufficiente a consentire l’azione delle controspinte all’impulso criminogeno. Il ricorrente obbietta che, quanto agli esecutori, il tempo intercorso fra la ricezione dell’ordine e la sua attuazione è stato assai più contenuto, e non consentirebbe di configurare a loro carico la circostanza in questione. Non tiene però conto del principio giurisprudenziale citato dalla sentenza impugnata, secondo il quale nell’ipotesi di concorso di persone nel reato – anche dopo la modifica dell’art. 118 c.p. ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19 – deve ritenersi che, pur se non è sufficiente, perchè l’aggravante della premeditazione possa comunicarsi al concorrente nel reato, la mera conoscibilità da parte di costui, la conoscenza effettiva legittimi l’estensione dell’aggravante stessa: infatti, se il concorrente, pur non avendo direttamente premeditato l’omicidio, tuttavia ad esso partecipa nella piena consapevolezza, maturata prima dell’esaurirsi del proprio volontario apporto alla realizzazione dell’evento criminoso, dell’altrui premeditazione, la sua volontà adesiva al progetto investe e fa propria la particolare intensità dell’altrui dolo, sicchè la relativa aggravante va riferita anche a lui (Cass., Sez. 1, 17.5/17.6.1994, P.M. in proc. Caparrotta; 28.4/25.6.1997, Matrone ed altri; 24.1/6.4.2006, Bagarella ed altri). D’altra parte, le modalità stesse dell’agguato sono ragionevolmente ritenute indicative di condivisione della condizione psicologica del soggetto per ordine del quale gli esecutori hanno agito.
Questa Corte è peraltro tenuta a rilevare d’ufficio, a norma dell’art. 129 c.p.p., che fra i reati uniti in continuazione è compresa la contravvenzione di concorso in detenzione abusiva di munizioni comuni (art. 697 c.p.), di cui va dichiarata l’estinzione perchè prescritta, con conseguente eliminazione della relativa aliquota di pena che, in difetto di specifica determinazione da parte dei giudici di merito, va congruamente determinata in mesi due di reclusione.
Il ricorso va nel resto respinto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Prima Penale, annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui all’art. 697 c.p., perchè estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena, determinata in mesi due di reclusione.
Rigetta nel resto il ricorso

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