Cass. pen., sez. VI 24-10-2007 (10-10-2007), n. 39397 Impiegato di sportello – Appropriazione di somme riscosse per conto dell’amministrazione finanziaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

RITENUTO IN FATTO
1. T.M. ricorre contro la sentenza in epigrafe indicata che ha confermato la decisione di primo grado, resa all’esito del giudizio abbreviato, con la quale egli fu dichiarato responsabile del delitto di peculato perchè, quale direttore di sportello incaricato di un pubblico servizio presso la Banca popolare di Novara, filiale di (OMISSIS), si appropriava di somme di danaro ricevute per pagamenti dell’IVA che, in ragione del servizio pubblico, avrebbe dovuto versare all’Erario.
2. Ad avviso della Corte d’appello, la ricostruzione della vicenda è stata correttamente operata dal giudice di primo grado, sotto il profilo fattuale e giuridico. Incontrovertibile l’appropriazione della somme di danaro e corretta la sua qualificazione giuridica come peculato, in quanto T. ha ricevuto il danaro – in ragione del pubblico servizio esercitato quale direttore di sportello dell’Istituto di credito incaricato per l’incasso delle imposte – dal contribuente I.F. e poi, anzichè versarlo all’Erario, lo ha trattenuto per sè mediante l’accredito su due conti correnti bancari intestati a proprio nome.
3. Il ricorrente, con un primo motivo, deduce la violazione di legge, in quanto il fatto avrebbe dovuto essere qualificato appropriazione indebita. T., quale dipendente dell’istituto di credito incaricato per l’incasso della somma non rivestiva la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, poichè il suo compito era solo quello di verificare la corrispondenza dell’importo versato dal contribuente a quello indicato nel modulo ad hoc dallo stesso compilato. Mentre, egli non aveva alcun ulteriore potere di controllo nei confronti del contribuente, mancando una delega per l’Istituto di credito all’esercizio dei poteri dell’amministrazione finanziaria.
Il mancato versamento all’Erario delle somme ricevute a titolo di pagamento d’imposta espone quale debitore non soltanto il contribuente, ma anche l’istituto di credito che ha provveduto all’incasso. Ne discende l’erroneità della qualifica di pubblico ufficiale del dipendente della banca.
Con un secondo motivo, deduce la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, in quanto il giudice d’appello ha acriticamente fatto propria la conclusione cui era giunto il giudice di primo grado circa la qualifica di pubblico ufficiale del dipendente dell’istituto di credito delegato all’incasso per conto dell’Erario, senza verificare le funzioni in concreto svolte dal dipendente privo di ogni potere proprio del pubblico ufficiale. Altrettanto erronea la ulteriore affermazione del giudice d’appello secondo cui la "natura pubblica" del danaro, incassato e sottratto alla pubblica amministrazione, confermava la configurazione del delitto di peculato, senza considerare le ragioni per le quali con l’impugnazione si insisteva per la qualificazione giuridica di appropriazione indebita.
3. Tale è la sintesi ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, dei termini delle questioni poste.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le questioni giuridiche sono state correttamente risolte dal giudice d’appello che ha confermato, con appropriati argomenti, le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado.
Come noto, l’art. 357 c.p., nel testo sostituito dalla L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 17 e L. 2 febbraio 1992, n. 181, art. 4, ricollega esplicitamente la qualifica di pubblico ufficiale non tanto al rapporto di dipendenza tra il soggetto e la pubblica amministrazione, ma ai caratteri propri dell’attività in concreto esercitata dal soggetto agente e oggettivamente considerata. Di tale attività devono essere presi in esame i singoli momenti in cui essa si attua, disgiuntamente previsti dal legislatore nel comma 2 della norma citata, con riferimento all’esistenza di un contributo determinante dell’agente alla formazione ed alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, all’esistenza di poteri autoritativi o certificativi (Sez. un. 27 marzo 1992, dep. 11 luglio 1992, n. 7958).
In altri termini, per aversi la figura del pubblico ufficiale è sufficiente la titolarità di una potestà autoritativa ovvero certificativa, non dovendosi la pubblica funzione esprimere in potestà autoritativa e certificativa necessariamente congiunte.
I poteri certificativi dell’istituto di credito incaricato dell’incasso di danaro per conto dell’amministrazione finanziaria, in concreto esercitati dal dipendente preposto allo sportello di cassa, propri di ogni pubblico ufficiale, si rinvengono negli atti che la legge gli impone di redigere per dar conto, previa verifica delle indicazioni contenute nel modulo ad hoc predisposto per il versamento dell’imposta, dell’avvenuto pagamento della somma di danaro dovuta dal contribuente. Quietanza che assume valore di atto certificativo del versamento e delle ragioni per le quali il contribuente lo ha effettuato.
Mette conto rilevare che, questa Corte si è già espressa nel senso, condiviso dal Collegio, che l’attività degli istituti di credito, normalmente esulante dall’ambito pubblicistico, vi è invece sottoposta per quelle funzioni collaterali svolte in campo monetario, valutario, fiscale e finanziario, in sostituzione di enti non economici nella veste di banche agenti o delegate, con la spettanza della qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio ai relativi operatori. Nella concreta fattispecie, identica a quella oggetto del presente giudizio, è stata ritenuta configurare svolgimento di funzione pubblica l’attività, delegata a un istituto di credito dall’amministrazione finanziaria, connessa al versamento dell’IVA, con conseguente attribuzione della qualità di pubblico ufficiale a un dipendente con mansione di cassiere, implicante il concorso del medesimo nella formazione e manifestazione della volontà dell’azienda bancaria nello svolgimento della predetta funzione (Sez. 6, 17 gennaio 1997, dep. 14 aprile 1997, n. 3882, rv.
208875).
2. Affermata la natura pubblica della funzione in concreto esercitata dal dipendente bancario e così la sua qualità di pubblico, è incontrovertibile che l’appropriazione di somme, spettanti all’amministrazione finanziarie e ricevute dal cassiere dell’istituto di credito in ragione del suo ufficio, non può che integrare il delitto di peculato. Tali somme, sebbene non appartengono ancora alla pubblica amministrazione, sono ricevute dall’istituto di credito, e in particolare dall’impiegato preposto al servizio di sportello, in ragione del suo ufficio e con vincolo di destinazione in favore dell’amministrazione finanziaria.
E’ oramai diritto vivente che, a seguito della L. n. 86 del 1990 l’elemento oggettivo del reato di peculato è, in ogni caso, costituito dall’appropriazione, la quale si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente. Sul piano dell’elemento soggettivo si realizza il mutamento dell’atteggiamento psichico dell’agente nel senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri succede quella di possedere per conto proprio. Ai fini della configurazione del reato non rileva la natura pubblica o privata del soggetto titolare dei beni oggetto dell’illecita appropriazione, essendo richieste l’altruità del danaro o della cosa mobile nonchè la disponibilità giuridica o la mera detenzione materiale dei beni predetti per ragioni dell’ufficio o servizio pubblico esercitato (Sez. 6, 5 marzo 1993, dep. 17 maggio 1993, n. 650; Sez. 5, 26 gennaio 1999, dep. 30 marzo 1999, n. 467; Sez. 6, 12 dicembre 2000, dep. 18 gennaio 2001, n. 381; Sez. 6, 7 gennaio 2003, dep. 4 marzo 2003, n. 9933).
In conclusione, il richiamo all’"altruità", introdotto con la novella del 1990, va intesa nel senso che il peculato si configura nel caso di appropriazione di danaro o di altra cosa mobile, ricevuti dal soggetto agente in ragione della pubblica funzione esercitata perchè in tal modo si determina un "vincolo di destinazione" dei predetti beni, chiunque ne sia il proprietario o sia titolare su di essi di altro diritto.
Ciò comporta che la questione posta in rilievo dalla difesa del ricorrente, circa la giuridica esposizione nei confronti dell’Erario dell’istituto di credito e del contribuente, è ininfluente ai fini della configurabilità del delitto di peculato per appropriazione indebita di somme con "vincolo di destinazione": l’impiegato preposto allo sportello di cassa dell’istituto di credito – una volta incassate le somme e certificato di averle ricevute dal contribuente – avrebbe dovuto versare, mediante le procedure stabilite, all’amministrazione finanziaria e non appropriarsene mediante l’accredito su propri conti bancari.
Pertanto, è configurabile il reato di peculato, e non quello di appropriazione indebita, quando, come nella specie, l’impiegato di sportello si appropria di una somma di danaro, ricevuta per conto dell’amministrazione finanziaria a titolo di pagamento di imposte.
3. Il ricorso è, dunque, infondato e, a norma dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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