CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – SENTENZA 17 febbraio 2011, n.3905 ASSEGNO DI DIVORZIO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente i ricorsi vengono riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c. in quanto sono stati proposti avverso la medesima decisione.

Col primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 166 e 167 c.p.c. e della L. n. 898 del 1970, art. 4, nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2 comma 3 bis, nonchè degli artt. 157 e 184 bis c.p.c., Pone la questione di diritto se sia ammissibile la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta nonostante la riscontrata violazione del termine previsto per la sua costituzione, stabilito ex lege in venti giorni liberi prima dell’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore. Ascrive alla Corte territoriale errore di diritto per aver dato rilievo alla circostanza che tra la data di deposito dell’ordinanza presidenziale e l’udienza di comparizione fosse intercorso un termine inferiore a quello legale, pur in presenza di preclusione operante ope legis. Sostiene che la decadenza in cui era incorsa la convenuta sarebbe stata superabile solo con richiesta di rimessione in termini ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c., che non venne tuttavia formulata.

Chiede con conclusivo quesito di diritto se nel giudizio di divorzio è inammissibile la domanda riconvenzionale formulata nella comparsa di risposta depositata entro un termine inferiore a quello di venti giorni precedenti l’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore e se, nel caso in cui il termine assegnato dal Presidente del Tribunale sia insufficiente, la parte che intende costituirsi debba chiedere la rimessione in termini. La resistente replica al motivo deducendone l’infondatezza. L’insussistenza del termine a comparire non può determinare violazione del termine per la regolare costituzione in giudizio. Diversamente opinando, si negherebbe il diritto del convenuto alla proposizione di domanda riconvenzionale con conseguente violazione del principio del contraddittorio. Il motivo è infondato.

E’ pacifico in punto di fatto che il Presidente del Tribunale, con l’ordinanza pronunciata il 31 gennaio 2002, depositata il 5 febbraio e comunicata al solo S. il 4 – 5 febbraio successivo, nel fissare nel giorno 19 febbraio l’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore non tenne conto del necessario intervallo di venti giorni liberi che avrebbe dovuto precedere detta udienza secondo quanto disposto dalla L. n. 898 del 1970, art. 4 comma 6, modificata dalla L. n. 74 del 1987. E’ incontroverso in jure per giurisprudenza consolidata che, in forza delle modifiche apportate alla L. n. 898 del 1970, art. 4, dalla L. n. 74 del 1987, art. 8, l’udienza di prima comparizione rilevante ai sensi dell’art. 180 c.p.c., e degli artt. 166 e 167 c.p.c., è quella fissata innanzi al giudice istruttore designato all’esito della fase presidenziale – Cass. nn. 4903/2004 e 2625/2006; 2625/2006 -. La regolarità della costituzione della parte convenuta deve essere perciò verificata in relazione a questa udienza, mediante scrutinio che deve essere condotto alla stregua delle regole del codice di rito. Il convenuto che non dispone del termine libero di venti giorni precedenti questa udienza prescritto per il deposito della sua comparsa di costituzione contenente anche eventuale domanda riconvenzionale è perciò facultato ma non certo tenuto a chiedere al giudice istruttore la fissazione del termine a difesa, che, se richiesto, deve essergli concesso, in quanto non gli è preclusa la possibilità di optare per la rinuncia al termine se intende comunque accettare il contraddittorio difendendosi nel merito. In quest’ultima ipotesi non è legittimato a dedurre preclusioni o decadenze la parte che ha introdotto il giudizio, che dalla violazione di quel termine non ha tratto pregiudizio alcuno, restando fermi per essa i termini ordinari per formulare la sua replica. E’ jus reception – Cass. n. 3335/2002 e 12129/2004, 13128/2010, 7536/2009; 7536/2009 – che l’assegnazione di termine inferiore a quello prescritto dall’art. 163 bis c.p.c., inficia l’atto introduttivo del giudizio procurandone la nullità, che resta però sanata, e con effetto ex tunc, se il convenuto costituendosi opti per una delle indicate alternative, ovvero se il giudice che rilevi il vizio assegni d’ufficio all’attore termine per la rinnovazione dell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 291 c.p.c. Questo assetto regola anche il giudizio in esame in cui il rispetto del termine a comparire è affidato non già alla parte che ha introdotto il giudizio ma al Presidente del Tribunale che, celebrata l’udienza di comparizione innanzi a sè, fissa quella di comparizione innanzi al giudice istruttore. Non osta alla sua applicazione l’impossibilità giuridica di ascrivere vizio di nullità all’ordinanza presidenziale, che induce l’odierno ricorrente a prospettare suggestivamente ma non ragionevolmente l’ipotesi di decadenza della convenuta dalla facoltà di costituirsi e spiegare domanda riconvenzionale. Non sussiste decadenza se la parte tenuta ad una determinata attività processuale entro un certo limite temporale non dispone del termine utile previsto ex lege per il suo compimento per ragioni ad essa non ascrivibili, ma semplicemente perchè quel termine non le è stato neppure concesso. La funzione dell’arco temporale di cui si discute è correlata alla tutela del contraddittorio, e dunque il convenuto che da quella violazione riceve pregiudizio è la sola parte legittimata a dolersene chiedendo al giudice di fissare nuovo termine conforme a quello di legge, ovvero a rinunciarvi se ritiene di essere comunque in grado di spiegare adeguatamente le proprie ragioni di difesa.

La decisione impugnata si colloca nel solco di questa ricostruzione esegetica. E’ perciò immune da critica. Al quesito di diritto formulato nel motivo deve pertanto rispondersi affermando che non incorre in decadenza il convenuto che, nel giudizio di divorzio, si costituisce entro un termine inferiore a quello di venti giorni precedenti l’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore se l’intervallo temporale tra la data di deposito dell’ordinanza presidenziale di fissazione di questa udienza e la data dell’udienza stessa sia inferiore al suddetto termine dilatorio. In quanto unica parte pregiudicata da quella violazione, il solo convenuto è legittimato a dolersene ovvero a rinunciare al termine se ritiene di essere comunque in grado di spiegare adeguatamente le proprie ragioni di difesa.

2.- Col secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., e vizio d’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo, rappresentato dal riconoscimento del diritto della D.R. all’assegno divorzile.

L’errore di diritto denunciato si anniderebbe nell’apprezzamento, ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, del tenore di vita della coppia riferito alle condizioni economiche esistenti all’epoca del matrimonio e non al momento della pronuncia di divorzio. Tale errata impostazione avrebbe indotto la Corte territoriale ad arretrare la sua indagine ricostruttiva, cristallizzandola peraltro all’anno 1993, il solo in cui il reddito percepito da esso ricorrente, unico sostegno della famiglia, registrò incremento, senza prendere in considerazione i periodi successivi in cui subì notevole contrazione, pacifica nonchè documentalmente provata, fino a ridursi negli ultimi due anni di matrimonio – 1994 – 1995 – ai rispettivi importi indicati, ed ulteriormente peggiorando dopo la separazione. Il vizio di motivazione risiederebbe nell’affermazione assiomatica della notevole capacità reddituale del ricorrente, in contrasto con i dati probatori acquisiti, non bilanciata dalle partecipazioni societarie cui il giudice del gravame ha attribuito significativo rilievo probatorio. L’attribuzione dell’assegno divorzile in favore della D.R. non sarebbe insomma sostenuta dalla verifica dell’effettiva condizione economica dei coniugi, rimasta priva della prova, incombente sulla predetta convenuta, surrogata con illegittimo ricorso al notorio acquisito alla comune esperienza.

La motivazione della Corte d’appello si fonderebbe sull’inversione dell’onere della prova in palese contrasto con il dato normativo, che subordina l’obbligo di pagamento dell’assegno divorzile in favore del coniuge più debole alla carenza in capo allo stesso di mezzi sufficienti a garantirgli il medesimo tenore di vita goduto in pendenza di matrimonio, e comunque all’impossibilità del coniuge richiedente di procurarsi tali mezzi. La D.R. non ha provato d’essersi adoperata per cercare un lavoro, e la Corte territoriale avrebbe asserito in senso tautologico l’impossibilità di procurarselo in modo confacente alle sue condizioni socio-economiche, prescindendo dalla necessaria verifica delle concrete possibilità di inserimento in adeguato ambito lavorativo, ritenendo aprioristicamente sottopagato il lavoro di interprete e traduttrice che ella, secondo il suo livello culturale, avrebbe potuto espletare.

Ha disatteso, nonostante la sua rilevanza, la dichiarazione di autosufficienza, resa dalla D.R. in sede di separazione, ritenendo, seppur in assenza di prova, il peggioramento delle sue condizioni economiche. Ha affermato, senza suffragio probatorio, che il reddito percepito da esso ricorrente era superiore a quello dichiarato, in quanto godeva di discreto patrimonio immobiliare di cui era tuttavia rimasta indimostrata la redditività. Ha ignorato il proprio impegno a trasferire alla moglie l’usufrutto di un appartamento in (OMISSIS) da cui è ricavabile un reddito mensile di Euro 2.300,00.

Il complesso conclusivo quesito di diritto chiede se:

1 – l’insorgenza del diritto ad assegno divorzile debba essere valutata senza tener conto del peggioramento, in costanza del matrimonio e dopo la separazione, delle condizioni economiche del coniuge a carico del quale è posto;

2.- se grava sul coniuge richiedente l’onere della prova del tenore di vita in costanza di matrimonio e delle capacità reddituali dell’altro coniuge;

3.- se l’incapacità del coniuge richiedente a procurarsi mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita debba essere valutata in concreto;

4.- se precluda l’assegno di divorzio il trasferimento di usufrutto di un immobile con conseguente rinuncia all’assegno di mantenimento concordati in sede di separazione;

5.- se il valore economico del detto diritto reale e la dichiarazione di autosufficienza resa in sede di separazione incidano sul quantum debeatur.

In ordine al vizio di motivazione il fatto controverso è indicato nelle dichiarazioni dei redditi successive all’anno 1994 e nel rilievo probatorio attribuito alle partecipazioni societarie.

La resistente deduce infondatezza anche di questo motivo rilevando la correttezza in astratto del percorso logico che sorregge la decisione impugnata, nonchè l’esaustività del suo tessuto argomentativo laddove espone i dati concreti fatti oggetto di apprezzamento, e la sintesi che la Corte territoriale ne ha tratto.

Il motivo non può essere accolto.

In serrata consecuzione logica, premessa l’esigenza di verificare la sussistenza di entrambi i presupposti per il riconoscimento del diritto della D.R. all’assegno di divorzio, vale a dire mancanza di mezzi adeguati ed impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, che ruotano intorno alla nozione di tenore di vita goduto in costanza di matrimonio desunto dalle rispettive potenzialità, ovverosia dall’ammontare delle risorse tratte dai rispettivi redditi e disponibilità patrimoniali, il giudice del gravame ha apprezzato nel merito i dati probatori rilevanti al fine di accertare la capacità economica dei coniugi. Ha verificato che lo S., ingegnere ben inserito nel mondo lavorativo, percepì nel ’93 un reddito annuo di L. 134.959.000 e gode di numerose partecipazioni a società cooperative edilizie quasi tutte presiedute dal padre Avv. S.C., proprietario di immobili prestigiosi; la D.R. è invece priva di reddito proprio e perciò non è in grado di mantenere il precedente tenore di vita, assicurato dalle sole risorse patrimoniali del marito. Le sue possibilità lavorative si collocano nella sfera dell’attività d’interprete o traduttrice, consona al suo livello culturale ma scarsamente remunerativa. Prive di rilievo, in questo quadro fattuale, sono la rinuncia all’assegno di mantenimento da parte della donna in sede di separazione e le altre pattuizioni intervenute in tale sede. La censura indirizzata avverso questo articolato percorso argomentativo è infondata laddove prospetta errore di diritto.

Il riconoscimento del diritto all’assegno da parte della D.R., quanto all’an debeatur, si basa sulla verifica dell’adeguatezza dei mezzi della stessa alla conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e dell’impossibilità di procurarseli, fondata su valutazione comparativa della situazione reddituale e patrimoniale della famiglia tra la condizione attuale e quella in cui il nucleo versava durante il matrimonio. Il tenore di vita, fulcro dell’indagine, doveva essere ed è stato correttamente considerato quale quello che poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base delle aspettative maturate nel corso del rapporto, secondo quanto affermato da costante orientamento di questa Corte.

Nell’ottica della finalità assistenziale tipica dell’istituto dell’assegno in argomento, di evitare l’alterazione di quel tenore di vita per il solo effetto del divorzio, la Corte territoriale ha ponderato le reciproche condizioni economiche dei coniugi valutando la condizione familiare precedente alla luce delle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dell’ammontare complessivo dei loro redditi e delle disponibilità patrimoniali – per tutte Cass. n. 4764/2007, n. 15610/2007 -, considerandole correttamente in senso oggettivo nelle componenti reddituale e patrimoniale, giungendo alla conclusione che quel tenore di vita dipendeva dalla sola condizione economica e patrimoniale complessiva dello S., data l’assoluta carenza di proprie personali risorse della richiedente. Ne ha tratto il convincimento che quest’ultima fosse più debole ed avesse perciò diritto all’assegno divorzile, senza omettere di considerarne, necessariamente in astratto data l’assenza di effettivi dati fattuali di riscontro, le potenzialità lavorative che evidentemente hanno inciso sulla misura dell’assegno divorzile in senso riduttivo, sì che risultano inammissibili le doglianze del ricorrente che non ha interesse a dolersene, nè ha peraltro dimostrato, come era suo onere, il rifiuto da parte della richiedente di concrete ed effettive opportunità di lavoro migliori rispetto a quelle ritenute ipotizzabili da parte del giudice del gravame (cfr.

Cass. n. 27775/2008). Quanto all’entità del contributo ritenuto adeguato al tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale e alle capacità economiche dello S., la decisione impugnata risulta parimenti corretta. L’anzidetta condizione non prescindeva da altre componenti idonee a formarne un quadro sinottico completo ed in tale prospettiva la Corte territoriale ha dunque giustamente preso in considerazione il tipo d’attività e di qualificazione professionale del predetto, la sua collocazione sociale e familiare, le potenzialità connesse all’esercizio di quell’attività, a l’entità oggettiva degli immobili di cui egli risultava proprietario, nonchè le sue numerose partecipazioni societarie, elementi tutti valutabili in aggiunta alle risultanze delle dichiarazioni dei redditi prodotte che, attesa la loro funzione tipicamente fiscale, non avevano valore vincolante(potendo piuttosto essere valutate discrezionalmente, e quindi disattese alla luce delle altre risultanze probatorie – Cass. n. 9876/2006;9876/2006; n. 18241/2006 -. Su di essa non incidevano gli accordi di separazione nel loro complesso, segnatamente la rinuncia della donna all’assegno di mantenimento – Cass. n. 21245/2010. La verifica, ai fini dell’assegno divorzile, doveva infatti arrestarsi alle attuali condizioni economiche delle parti ed al pregresso tenore di vita coniugale alla luce della L. n. 898 del 1970, art. 5, e successive modifiche, in relazione al quale l’assetto economico concordato in sede di separazione funge da utile elemento di apprezzamento solo nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi – Cass. n. 1758/2008 – e n. 22500/2006 -. All’esito, senza dover necessariamente dare giustificazione di tutti i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 citato, era in potere del giudice del merito dare prevalenza, secondo il suo prudente apprezzamento, a quello basato sulle condizioni economiche delle parti, valorizzando, sulla base del principio di acquisizione, tutti i dati del compendio probatorio allegati dallo S. per sottrarsi all’obbligo del pagamento, e dalla D.R. per ottemperare all’onere su di essa incombente di dedurre e dimostrare, in ordine all’an debeatur il tenore di vita ed il deterioramento conseguito per effetto del divorzio, ed in ordine al quantum le circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice alla luce dei criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5.

La determinazione della misura dell’assegno sintetizza il risultato di questa complessa ed articolata indagine, rappresentando tendenzialmente quanto, a giudizio della Corte di merito, è apparso idoneo ad assicurare alla richiedente il tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Tale scelta decisionale, impostata sulla corretta applicazione della disposizione che regola la materia, è immune da errore di diritto ed in tale prospettiva il motivo è infondato.

La censura in esso espressa è invece inammissibile laddove prospetta il vizio di motivazione, siccome mira ad una rivisitazione di questa scelta e delle ragioni che l’hanno giustificata nel merito che palesemente sorretta da puntuale e logico tessuto motivazionale, si sottrae al chiesto sindacato.

3.- Col terzo motivo il ricorrente deduce violazione della L. n. 898 del 1970, art. 6, modificato dalla L. n. 74 del 1987, ed ancora vizio di motivazione.

L’errore di diritto della Corte di merito, relativo alla maggiorazione dell’importo del contributo di mantenimento della figlia I. consiste nell’aver accolto la domanda non suffragata da prova, di cui era onerata la D.R., circa le capacità patrimoniali della suddetta richiedente ed il tenore di vita che la minore avrebbe goduto in costanza del matrimonio dei genitori.

Il vizio di motivazione si annida nell’affermata inattendibilità delle dichiarazioni dei redditi negli anni più recenti e nell’irrilevanza della nascita dei due figli nati da relazione con altra donna.

La resistente deduce infondatezza anche di questo motivo.

Il motivo espone censura in parte infondata. in parte inammissibile.

La decisione impugnata presta espressa adesione ad insegnamento giurisprudenziale che, in relazione alla questione controversa, pone l’esigenza d’accertare in sede giurisdizionale la capacità economica dei genitori con riguardo a tutte le componenti patrimoniali e reddituali – Cass. n. – 6872/1999; 6872/1999 – attribuendo valore solo indiziario e non esaustivo alle risultanze delle dichiarazioni fiscali – Cass. nn. 4067/1997; 4067/1997; 9806/2003; 9806/2003;12183/1992 -. In questo solco la Corte territoriale, ritenendo di non poter desumere con certezza dalle denunce dei, redditi prodotte dal padre della minore la sua reale situazione patrimoniale per le specifiche ragioni indicate (quanto all’anno 2004 egli aveva dichiarato un reddito inferiore a quello dichiarato dalla ex moglie, percettrice del solo assegno di divorzio, tentando quindi di spiegare il paradosso dichiarando d’aver ricavato la somma di Euro 110.000,00 dalla vendita di un cespite di cui era comproprietario), l’ha ritenuta accertata aliunde, valorizzando le stesse circostanze già esaminate ai fini, dell’attribuzione e quantificazione dell’assegno di divorzio, vieppiù sviscerate in dettaglio, tenuto conto anche del cessare dell’obbligo assunto dal nonno della bambina di contribuire al suo mantenimento con assegno mensile di L. 1.500.000, di cui si era tenuto conto in sede di determinazione del contributo.

Il motivo è infondato laddove denuncia l’errore di diritto in quanto, secondo esegesi della L. n. 898 del 1970, art.6, comma 9, letto in combinato disposto con l’art. 155 c.c., comma 6, che si condivide e s’intende ribadire senza necessità di rivisitazione, in deroga alla rigida ripartizione dell’onus probandi, il giudice dispone di ampio potere istruttorio, giustificato dalla finalità pubblicistica dell’istituto, che gli consente di ancorare le sue determinazioni ad adeguata verifica delle condizioni patrimoniali dei genitori e delle esigenze di vita dei figli prescindendo dalla prova addotta dalla parte istante, ed attingendo, sulla base del già richiamato principio di acquisizione, a tutti i dati comunque facenti parte del bagaglio istruttorio – Cass. nn. 15065/2000, 27391/2005, 18627/2006 -.

L’enunciato ha trovato nella decisione impugnata effettiva e corretta applicazione. Ancora infondata è la censura di omessa considerazione della costituzione da parte del ricorrente di un nuovo nucleo familiare allietato dalla nascita di altri due figli. Tale condizione non può escludere il diritto della figlia I. al mantenimento che le garantisca il tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della sua famiglia analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza.

La sua incidenza sulla misura del contributo è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, che non è sindacabile in questa sede.

Nel resto il motivo indirizza critica nel merito alla determinazione dell’assegno di mantenimento sollecitando scrutinio sulla valutazione dei fatti esaminati dalla Corte territoriale ed è perciò inammissibile. Alla luce di quanto premesso, il ricorso deve perciò essere respinto.

Il ricorso incidentale della D.R. denuncia violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, e successiva modifica. Lamenta errata riduzione dell’assegno divorzile, giustificata in contraddizione con l’affermato elevato tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, e valorizzando astratte e non concrete potenzialità lavorative di essa istante.

Il conclusivo quesito di diritto chiede quale sia la corretta interpretazione della norma in rubrica, e se nel determinare l’assegno in questione si debba tener conto della concreta capacità del richiedente di procurarsi un livello di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.

Il ricorrente deduce inammissibilità e comunque infondatezza del motivo.

Il motivo è inammissibile. Il quesito di diritto risulta privo di specificità. Non assolve infatti alla funzione sua propria di far comprendere sulla base della sua sola lettura, intesa come sintesi logico-giuridica della questione controversa, l’errore di diritto che si ascrive al giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione della ricorrente, la regola da applicare. E’ in conclusione solo apparente e non risponde "all’esigenza di cooperazione all’espletamento della suddetta funzione nomofilattica della S.C., posta con chiarezza dalla prescrizione di cui al citato art. 366 bis c.p.c.", risolvendosi nella sola istanza d’accertamento della denunciata violazione di legge, che non consente di individuare il principio di diritto diverso da quello posto a fondamento della sentenza impugnata, la cui auspicata adozione da parte di questa C.S. sarebbe idonea a determinare una decisione di segno diverso sulla base di regula iuris alternativamente individuata – Cass. n. 4044/2009; 4044/2009 e n. 8463/2009; 8463/2009.

Le spese del presente giudizio, in ragione della reciproca soccombenza delle parti, vengono compensate per la metà, con condanna del ricorrente principale al pagamento del residuo,liquidato come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale. Compensa per la metà le spese del presente giudizio e condanna il ricorrente principale al pagamento del residuo liquidato in misura già ridotta in Euro 1.500,00 oltre Euro 100,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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