Cass. civ., sez. Unite 10-07-2006, n. 15610GIURISDIZIONE CIVILE – GIURISDIZIONE ORDINARIA E AMMINISTRATIVA – DETERMINAZIONE E CRITERI – Impianti radiotelevisivi locali – Controversie fra privati sul preuso di frequenze

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Michele C., con ricorso 17 giugno 1999, chiese al tribunale di Roma che fosse dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lui contratto con Maria D. S. il 4 giugno 1958. Nel contraddittorio fra le parti il tribunale accolse la domanda, respingendo quelle della convenuta, che aveva chiesto un assegno di divorzio e l’assegnazione della casa coniugale. La sentenza fu appellata dalla D. S. e la Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 12 giugno 2003, notificata il 6 febbraio 2004, riconobbe alla D. S. un assegno divorzile di euro 1000,00 mensili, rigettando la domanda di assegnazione della casa coniugale. Avverso la sentenza il C. ha proposto ricorso a questa Corte, con atto notificato in data 23 marzo 2004 alla D. S. , formulando tre motivi d’impugnazione. La parte intimata resiste con controricorso notificato in data 3 maggio 2004. Entrambe la parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso si denunciano la violazione dell?art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dalla legge n. 743 del 1987, nonché vizi motivazionali. Si deduce al riguardo che la sentenza impugnata, pur avendo affermato la natura assistenziale dell’assegno di divorzio e la necessità, perché esso sia riconosciuto al richiedente, che sia offerta la prova della impossidenza, da parte sua, di redditi idonei a garantirgli il tenore di vita goduto durante il matrimonio, lo ha liquidato affermando che la ex moglie richiedente aveva depositato documentazione fiscale inidonea a comprovare compiutamente la sua situazione reddituale, provando i suoi redditi da pensione, ma non la sua situazione immobiliare ed il ricavato di vendite immobiliari da lei effettuate.

L’assegno sarebbe stato liquidato, pertanto, senza la prova del tenore di vita in costanza di matrimonio, tenuto conto che la convivenza era cessata nel 1986, e senza che fosse confrontata la situazione reddituale delle parti, con una motivazione meramente apodittica, che non avrebbe tenuto conto, in particolare, del reddito potenziale della villa dell’Olgiata, trasformata dalla odierna resistente in casa di villeggiatura.

Si deduca in proposito che, al momento della sentenza di divorzio la ex moglie aveva la proprietà del 50% di due immobili (villa all’Olgiata e casa coniugale), di euro 30.000,00 riscossi quale Tfr, la disponibilità delle somme ricavate con la vendita di altri due immobili, oltre ad una pensione di euro 1.300,00 mensili. Tali mezzi sarebbero stati superiori a quelli goduti durante la vita coniugale. Inoltre la Corte di appello avrebbe erroneamente rapportato il tenore di vita dei coniugi ai redditi lordi del ricorrente nel 2002.

Con il secondo motivo si denunciano la violazione del menzionato art. 5 della legge n. 898 del 1970 e dell’art. 2697 cod. civ., 115 e 116 c.p.c., nonché vizi motivazionali, ribadendo che l’assegno divorzile sarebbe stato liquidato senza che la richiedente avesse provato di non avere mezzi adeguati al proprio sostentamento ma risultando anzi che aveva una notevole capacità reddituale e senza che essa avesse prodotto adeguata documentazione sui propri redditi ad il proprio patrimonio, non prendendo in considerazione la documentazione in proposito prodotta da esso ricorrente, facendo indebitamente ricorso a criteri equitativi e tenendo conto dei redditi di esso ricorrente al momento del divorzio e non al momento della cessazione della convivenza matrimoniale. Si deduce, in particolare, in proposito, che i redditi di esso ricorrente, al momento del divorzio, non costituivano sviluppi dell’attività lavorativa da lui svolta durante il matrimonio, essendo egli andato in pensione ad essendo i successivi ulteriori redditi non collegabili alle aspettative reddituali prospettabili al tempo del matrimonio.

2. I due motivi vanno esaminati congiuntamente e rigettati perché infondati.

Secondo l?orientamento di questa Corte espresso dalla sentenza delle sezioni unite 29 novembre 1990, n. 11492, in tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74 che subordina l’attribuzione di un assegno di divorzio alla mancanza di "mezzi adeguati" l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando innanzitutto l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative esistenti nel corso del rapporto matrimoniale (da ultimo Cass. 28 febbraio 2007, n. 4764; 23 febbraio 2006, n. 4021; 16 maggio 2005, n. 10210; 7 maggio 2002, n. 6541; 15 ottobre 2003, n. 15383; 15 gennaio 1998, n. 317; 3 luglio 1997, n. 5986).

Secondo tale giurisprudenza l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerabile in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (ex plurimis Cass. 22 agosto 2006, n. 18241; 19 marzo 2003, n. 4040). Nella determinazione dell’assegno, il giudice può desumere induttivamente il tenore di vita dalla documentazione relativa ai redditi dei coniugi al momento della pronuncia di divorzio (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; 16 luglio 2004, n. 13169; 7 maggio 2002, n. 6541) – costituendo essi, insieme agli immobili direttamente goduti dai coniugi, il parametro per determinarlo (Cass. 16 maggio 2005, n. 10210) – sempre che non sia stato dedotto e dimostrato che essi non costituissero sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante la convivenza matrimoniale.

Nel caso di specie la Corte di appello ha desunto, sulla base di elementi presuntivi adeguati, che i coniugi godevano, nel corso del matrimonio,di un reddito molto alto, posto che nel 2001 l’odierno ricorrente, pur essendo nel frattempo andato in pensione, denunciava redditi per circa 250.000.000 di lire annue, mentre nel 2002 la resistente aveva percepito redditi per circa 20.000,00 euro annui, aveva la disponibilità di un appartamento in via Cassia e di una villa all’Olgiata, in Roma, e godeva di somme ricavate dalla vendita di altri beni immobili. Ha quindi quantificato con valutazione di stretto merito, incensurabile in questa sede – l’assegno nella misura di euro 1000,00 mensili, tenendo conto della differenza di redditi fra i coniugi, della durata ultratrentennale del matrimonio, delle ragioni della separazione (addebitata al marito), nonché del contributo dato alla conduzione familiare ad al patrimonio comune.

Trattasi di statuizioni conformi al dettato dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, nel testo vigente, tenuto conto che l’allegazione in questa sede che i redditi presi in considerazione dalla Corte di appello ai fini della liquidazione dell’assegno di divorzio non sarebbero riconducibili all’attività esplicata dal ricorrente durante la convivenza matrimoniale, non inficia la correttezza della quantificazione dell’assegno divorzile operata dalla Corte di appello, in quanto priva di puntuali riferimenti a documentazione e deduzioni in proposito nelle fasi di marito.

3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione degli artt. 91. e 92 c.p.c. per avere la Corte di appello compensato le spese del giudizio di appello, mentre avrebbe dovuto condannare la resistente al loro pagamento, ovvero compensarle solo in parte, stante la prevalente sua soccombenza.

Il motivo è infondato, essendo principio consolidato in materia di spese processuali che il giudice può disporne la compensazione anche senza fornire, al riguardo, alcuna motivazione, atteso che la valutazione dell’opportunità della compensazione, totale o parziale, delle stesse rientra nei suoi poteri discrezionali, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella della ricorrenza di giusti motivi. In particolare, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa o che siano addotte ragioni palesemente o macroscopicamente illogiche e tali da inficiare, per la loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale: circostanze che nel caso di specie non ricorrono (da ultimo Cass. 26 aprile 2005, n. 8623). Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida nella misura di euro duemilaseicento, di cui euro cento per spese vive.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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