Cass. civ., sez. Lavoro 23-08-2006, n. 18377 LAVORO SUBORDINATO – CASSAZIONE- MOTIVI DEL RICORSO – DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE-Contestazione degli addebiti-Idoneità a giustificare il licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 19 luglio 1999 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma rigettava la domanda, proposta da Q.F., ex dipendente della s.p.a. Assitalia licenziato per giusta causa in data ?, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento suddetto con condanna della società convenuta alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Roma, con sentenza depositata in data 11 novembre 2003, rigettava l’appello proposto dal Q.. Riteneva in primo luogo infondata la tesi dell’appellante concernente il difetto di specificità della contestazione, e osservava poi che i fatti contestati non rientravano nella fattispecie previste dal codice disciplinare. I suddetti fatti individuavano invece un comportamento che, in quanto contrario ai doveri fondamentali del lavoratore, non presupponevano l’affissione del codice disciplinare. Riteneva poi infondata la tesi della tardività della contestazione. Nel merito osservava che l’attività istruttoria espletata, e in particolare la deposizione del teste incaricato di verificare le uscite del lavoratore, avevano dimostrato il fondamento dei fatti contestati.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso Q.F. affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia s.p.a..

All’udienza di discussioni il Procuratore del ricorrente ha depositato rinuncia al mandatario.

Motivi della decisione

Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, degli artt. 1362 cod. civ. e segg., in relazione al codice disciplinare emanato dal datore di lavoro con ordine di servizio n. 23/89 in data 29 novembre 1989, ai sensi dell’art. 15 del c.c.N.L. di categoria, dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 2106 cod. civ., nonchè vizio di motivazione.

Deduce in primo luogo che il Tribunale, dopo aver affermato che la contestazione dell’addebito al lavoratore aveva ad oggetto l’utilizzo di una tessera magnetica non appartenente ad alcun dipendente, ha ritenuto, sulla base di una motivazione palesemente insufficiente e contraddittoria, che tale fattispecie, in quanto idonea ad eludere i riscontri sulle entrate ed uscite dall’ufficio, contenesse un elemento di artifizio in più rispetto all’omessa timbratura, come pure rispetto all’ipotesi in cui venga timbrato il tesserino di altri o venga fatto timbrare ad altri il proprio tesserino. Da tale considerazione il Tribunale ha fatto discendere che la sanzione indicata nel codice disciplinare non costituiva un valido indice di riferimento e che trattandosi di un comportamento contrario ai doveri fondamentali del lavoratore non era necessaria l’affissione nel codice disciplinare atteso che il potere di licenziamento derivava soltanto dalla legge. Ad avviso del ricorrente tale conclusione costituisce il frutto di un errore di interpretazione del codice disciplinare che prevede il biasimo scritto per l’uso da parte e per conto di altri del tesserino personale di altro dipendente non ancora o non più presente. Rispetto al tale disposizione il Tribunale ha arbitrariamente e senza adeguata motivazione attribuito una gravità differente e maggiore al comportamento contestato concernente l’utilizzo di una tessera magnetica non appartenente ad alcun dipendente. Osserva inoltre che la conclusione secondo cui la gravità del comportamento consiste nel fatto che il lavoratore ha ingannato l’azienda non trova supporto nella lettera di contestazione nella quale non c’è alcun accenno a un’ipotesi di inganno come pure manca un riferimento alla violazione dei doveri fondamentali del lavoratore.

Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonchè vizio di motivazione. Deduce che il Tribunale, nell’attribuire al preteso comportamento del lavoratore una gravità superiore a quella dei comportamenti previsti nel codice disciplinare, ha ritenuto irrilevante la circostanza, pacifica tra le parti, della mancata affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti.

Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., nonchè vizio di motivazione osservando che il Tribunale ha, sulla base di una motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria, ritenuti inattendibili, tutti i testi di parte ricorrente i quali con deposizioni assolutamente circostanziate avevano posto in luce l’estraneità del dipendente rispetto ai fatti contestati. Deduce che l’insufficienza della motivazione riguarda, fra l’altro, anche le conclusioni sulla riferibilità al ricorrente della scorretta timbratura attribuitagli dal datore di lavoro. In particolare appare decisamente inconsistente la motivazione con riferimento alla ritenuta irrilevanza del fatto, documentalmente provato che, anche dopo il licenziamento del ricorrente, il badge recante il numero contestato era stato nuovamente usato. Osserva altresì che la sentenza impugnata non ha preso in considerazione l’ulteriore circostanza che l’Assitalia, a causa del cattivo funzionamento della macchina lettrice dei badges, aveva già mosso contestazioni analoghe ad altro personale dipendente.

Col quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e dell’art. 2119 cod. civ., nonchè vizio di motivazione. Deduce che il Tribunale avrebbe invertito l’onere della prova della sussistenza della giusta causa di licenziamento addossando tale onere sul lavoratore. Infatti non ha offerto alcuna motivazione su quanto dedotto dal lavoratore stesso in ordine alla sua mancata identificazione al momento degli accertamenti svolti dall’azienda.

Col quinto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 2119 cod. civ., nonchè vizio di motivazione per non avere il Tribunale ravvisato il difetto di immediatezza della contestazione disciplinare rispetto all’accertamento degli addebiti nonchè per avere ritenuto l’esistenza della giusta causa di licenziamento. In particolare, la contestazione degli addebiti era stata fatta dopo 21 giorni dal primo accertamento.

I primi due motivi, che devono essere esaminati congiuntamente, attesa la loro stretta connessione logica, sono infondati.

Il Tribunale, premesso che dal testo della lettera di contestazione si evince che il comportamento posto alla base del provvedimento espulsivo è costituito dall’uso pressochè quotidiano, da parte del dipendente, in sede di timbratura del cartellino in entrata ed in uscita, di una scheda magnetizzata diversa da quella personalizzata fornita dall’azienda, e tale da non consentire l’individuazione della persona, ha adeguatamente motivato sulle ragioni per cui i comportamenti oggetto della contestazione non rientrano fra le ipotesi disciplinate dal codice disciplinare che prevedono, da un lato, l’irregolare uso del tesserino personale, sanzionato con il rimprovero verbale, e, dall’altro, l’uso da parte e per conto di altri del tesserino personale di altro dipendente non ancora o non più presente, sanzionato con il biasimo scritto e con la sospensione dal servizio nel caso di recidiva. Ha osservato infatti il Giudice di merito che il comportamento contestato riguarda un’ipotesi diversa da quelle previste dal codice disciplinare che si riferiscono ad ipotesi di uso scorretto di tesserini comunque rilasciati dall’azienda. Nel caso in esame si è trattato invece, come risulta dalla lettera di contestazione sopra richiamata, dell’utilizzazione di una tessera magnetica non appartenente ad alcun dipendente, idonea ad eludere del tutto i riscontri sulle entrate e le uscite dall’ufficio; tale comportamento, secondo il Tribunale, contiene un elemento di artifizio ulteriore rispetto alle ipotesi previste dal codice disciplinare, atteso che con esso viene tratta in inganno l’azienda (non consentendo alcuna identificazione della persona che timbra) pur dando l’impressione a coloro che sono presenti all’atto della timbratura che tutto avvenga in modo perfettamente regolare.

Le suddette conclusioni, in quanto sorrette da motivazione logica e completa, resistono alle censure mosse dal ricorrente alla luce del consolidato orientamento di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 17 giugno 2005 n. 13067), secondo cui l’interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune (ma il principio si applica anche ad un atto unilaterale di contenuto negoziale, quale il codice disciplinare emanato dal datore di lavoro con un ordine di servizio) è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale; le censure basate sulle suddette violazioni devono essere tuttavia specifiche, con indicazione dei singoli canoni ermeneutici violati e delle ragioni della asserita violazione, mentre le censure riguardanti la motivazione devono riguardare l’obiettiva insufficienza di essa o la contraddittorietà del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, potendo il sindacato di legittimità riguardare esclusivamente la coerenza formale della motivazione, ovvero l’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, e non potendosi perciò ritenere idonea ad integrare valido motivo di ricorso per Cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal Giudice di merito che si risolva solamente nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte. Nel caso di specie, da un lato, non si rinviene alcuna contraddittorietà o carenza nel ragionamento del Tribunale, e, dall’altro, le censure sono sostanzialmente generiche, con particolare riferimento all’individuazione dei canoni di interpretazione che si assumono violati.

Dalle suddette conclusioni il Tribunale ha tratto in primo luogo la conseguenza che i comportamenti contestati costituiscono violazione di doveri fondamentali del lavoratore, per la sanzionabilità della quale non è necessaria la specifica previsione del codice disciplinare atteso che in tali casi il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge. In secondo luogo l’irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare. Tali conclusioni costituiscono corretta applicazione del principio più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 18 febbraio 1995 n. 1747; Cass. 18 giugno 1996 n. 5583) secondo cui deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare. Sotto altro profilo costituisce ius reception il principio per cui, per valutare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento non è necessaria l’esistenza di una corrispondente previsione del codice disciplinare atteso che in entrambe le suddette ipotesi il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dalla legge (cfr. Cass. 11 giugno 1988 n. 4010).

Sotto altro profilo deve ricordarsi che la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato al Giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e non inficiata da errori logici e giuridici (cfr., ex plurimis, Cass. 11 maggio 2005 n. 9884). Nella specie il Tribunale ha correttamente ritenuto che la rilevata differenza qualitativa fra il comportamento contestato e le ipotesi previste dal codice disciplinare giustifichi pienamente una autonoma (rispetto alle ipotesi prese in considerazione dal codice disciplinare) valutazione della gravità della condotta del lavoratore che, mediante l’uso di mezzi artificiosi (utilizzo di una tessera magnetica non appartenente ad alcun dipendente) era in grado di eludere i meccanismi di controllo di entrata ed uscita dall’ufficio. Coerentemente con le suddette premesse ha ritenuto che i fatti contestati fossero idonei a ledere il rapporto di fiducia fra le parti ed a giustificare il provvedimento espulsivo adottato.

Nessun vizio logico e nessuna violazione di legge è rinvenibile in tale ragionamento e pertanto i motivi di censura formulati sul punto devono ritenersi del tutto infondati.

Nè, infine può ipotizzarsi una violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, atteso che la sentenza impugnata, nel ritenere la sussistenza del requisito della specificità della contestazione, ha correttamente applicato i principi, del tutto consolidati affermati sul punto da questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 18 giugno 2002 n. 8853) secondo cui, premesso che la contestazione dell’addebito ha lo scopo di fornire al lavoratore la possibilità di difendersi, la specificità della contestazione sussiste quando sono fornite le indicazioni necessarie ad individuare nella sua materialità il fatto nel quale il datore di lavoro abbia ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari.

Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso deve preliminarmente osservarsi che, secondo il consolidato orientamento di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 28 luglio 2004 n. 14262), nel caso in cui, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l’incongruità o l’illogicità della sentenza impugnata per l’asserita mancata o erronea valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al Giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente oerroneamente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti. Deve pertanto considerarsi inammissibile il motivo in esame nella parte in cui si duole dell’omessa o erronea valutazione di deposizioni testimoniali delle quali, peraltro, omette di trascrivere il testo integrale. Lo stesso vale con riferimento alla censura concernente la mancata valutazione di documenti.

Per quanto concerne le altre censure contenute nel motivo di ricorso deve osservarsi che con le stesse il ricorrente tende a sottoporre inammissibilmente al Giudice di legittimità una nuova valutazione delle risultanze istruttorie. Ciò in contrasto con quanto pacificamente stabilito da questa Corte (cfr., in particolare, Cass. 12 agosto 2004 n. 15675) secondo cui il vizio di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica – in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio -, le argomentazioni svolte dal Giudice del merito, al quale esclusivamente spetta individuare le fonti del proprio convincimento, esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge.

Il motivo deve essere pertanto rigettato.

Ugualmente privo di pregio deve considerarsi il quarto motivo. Il Tribunale ha infatti ricostruito attentamente le risultanze istruttorie concernenti i comportamenti contestati ed è pervenuto alla conclusione della sussistenza della giusta causa del licenziamento sulla base di una analitica valutazione delle stesse.

Le censure contenute in tale motivo ripropongono inammissibilmente al Giudice di legittimità una nuova valutazione delle risultanze istruttorie.

Anche il quinto motivo deve essere ritenuto del tutto infondato. Ed infatti il principio di immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto ed alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per completare gli accertamenti necessari e per valutare adeguatamente la gravità dell’infrazione. In particolare, è stato precisato che il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore (cfr., ad esempio, Cass. 22 aprile 2000 n. 5308); inoltre, l’accertamento della sussistenza di una violazione del principio di immediatezza spetta al Giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità i se congruamente motivato (Cass. 7 luglio 2001 n. 9253). Nella specie, il Tribunale ha motivato in modo congruo le ragioni, per cui ha ritenuto che un ritardo di poco più di venti giorni fra il primo accertamento e la contestazione non costituisca una violazione del suddetto principio. Ha in particolare considerato giustificata la tesi dell’azienda di procedere ad un nuovo accertamento a distanza di giorni per verificare se si trattasse di comportamenti ripetuti e non casuali.

Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

Alla soccombenza consegue l’obbligo del pagamento delle spese di questo giudizio nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 65,00, oltre Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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