Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezione Lavoro Sentenza n. 18144 del 2006 deposito del 10 agosto 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 19/10/2000 F.L. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Melfi la Società Automobilistica Tecnologie Avanzate s.p.a. (SATA) chiedendo che venisse dichiarata la illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli in data 4 luglio 2000, con reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno. Esponeva in ricorso che in data 29/06/2000 la società gli aveva contestato di aver avuto il precedente giorno 27, all’interno dello stabilimento, un diverbio con altro dipendente, tale L. A., che aveva colpito con un tubo di ferro cagionandogli lesioni personali. Sosteneva che tale fatto non rientrava nelle ipotesi per le quali l’art. 25 lett. B) del c.c.N.L. prevedeva la sanzione del licenziamento e riteneva pertanto sproporzionata la sanzione espulsiva, anche perchè in passato non aveva mai subito sanzioni disciplinari.

Nella resistenza della società, il Tribunale, espletata l’istruzione, con sentenza depositata il 20/06/2002 rigettava il ricorso.

A seguito di impugnazione del lavoratore, la Corte di Appello di Potenza, con la sentenza qui impugnata, in riforma della decisione del Giudice di primo grado, annullava il licenziamento, ordinava la reintegrazione dell’appellante e condannava la società al risarcimento del danno.

La Corte Territoriale osservava che l’art. 25 lett. B) del c.c.N.L. certamente consentiva al datore di lavoro di licenziare indipendente che, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, si fosse reso responsabile di azioni che costituiscono "delitto" a termini di legge; era infatti irrilevante che la norma contrattuale, a titolo solo esemplificativo, indicasse alcuni titoli di reato, fra i quali non era annoverato il delitto di lesioni personali.

La Corte riteneva tuttavia che nella specie la sanzione espulsiva fosse manifestamente sproporzionata rispetto alla mancanza addebitata al lavoratore. Infatti, la circostanza che il lavoratore si fosse reso responsabile di un fatto costituente delitto, non era di per sè sufficiente a determinarne automaticamente il licenziamento. Ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva nel licenziamento per giusta causa non si poteva prescindere dalla considerazione della condotta antecedente, concomitante e successiva dell’incolpato, della mancanza di precedenti disciplinari, delle modalità di commissione del fatto, dell’intensità del dolo o del grado della colpa. Riteneva la Corte che il Tribunale: non aveva considerato che il lavoratore non aveva mai commesso in passato alcuna infrazione; non aveva adeguatamente vagliato gli esiti della prova testimoniale, dalla quale era emerso che il lavoratore aveva reagito ad una provocazione, e quindi aveva agito in uno stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e senza alcuna premeditazione; non aveva considerato che il comportamento era connotato più dal dolo d’impeto che dal dolo di proposito e che era improbabile una futura reiterazione della condotta illecita; non aveva considerato che il fatto non aveva cagionato alcun danno all’azienda, nè aveva in alcun modo turbato l’attività aziendale.

In definitiva, la Corte riteneva che il fatto contestato al lavoratore non era tale da comportare una irreparabile interruzione dell’elemento fiduciario, per cui il licenziamento doveva ritenersi illegittimo.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. SATA ha proposto ricorso sostenuto da due motivi. L’intimato resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 1362 e segg., in relazione all’art. 25 lett. b) c.c.N.L. e vizi di motivazione. La ricorrente addebita alla Corte Territoriale di non aver considerato che il F. si era reso responsabile di un fatto previsto dalla legge penale come delitto e che la norma contrattuale espressamente prevede il licenziamento di un dipendente che sia reso autore di un delitto. Quindi è lo stesso c.c.N.L. di categoria a sanzionare la commissione di un delitto con la massima sanzione espulsiva, ritenendo tale comportamento tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Le parti sociali hanno considerato in re ipsa il nocumento per l’azienda qualora vengano commessi fatti di tale gravità da essere penalmente perseguiti come delitti. Sostiene infine la ricorrente che la Corte Territoriale, laddove ha affermato che il fatto contestato non aveva provocato alcun nocumento morale o materiale all’azienda, ha confuso le due distinte ipotesi alternative giustificative del licenziamento previste dal citato art. 25 lett. B), e cioè il grave nocumento morale e materiale cagionato all’azienda e la commissione di un delitto, ciascuna da sola sufficiente a giustificare il recesso.

Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione laddove la sentenza impugnata afferma che il lavoratore ha reagito ad una provocazione ed ha commesso il fatto senza alcuna premeditazione e laddove ha escluso ogni probabilità che il lavoratore reiteri in futuro simili fatti. La ricorrente al riguardo addebita alla Corte Territoriale omessa ed errata valutazione delle risultanze testimoniali, in particolare della i testimonianze di tale T., dalle quali è invece dato desumere che il F. ha agito con piena coscienza e determinazione.

Il due motivi di ricorso, che è opportuno esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

In tema di licenziamento per giusta causa, questa Corte ha ripetutamele affermato che la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il Giudice, atteso che la nozione di giusta causa è nozione legale e il Giudice deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione legale di giusta causa, di cui all’art. 2119 cod. civ., e se, in ossequio ai principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia tale da legittimare il recesso, tenuto anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (cfr. tra le tante Cass. n. 2906 del 2005, Cass. n. 16260 del 2004, Cass. n. 4435 del 2004, Cass. n. 17562 del 2002). Spetta quindi al Giudice valutare in concreto l’adeguatezza della sanzione irrogata, sulla base della ragionevolezza della sanzione della sua proporzionalità rispetto al fatto addebitato. Questo giudizio, involgendo apprezzamenti di fatto, è riservato al Giudice del merito, ed è censurabile in cassazione solo per violazione dei canoni ermeneutici di interpretazione del contratto o per vizi della motivazione (cfr. tra le tante Cass. n. 6823 del 2004, Cass. n. 8254 del 2004, Cass. n. 5013 del 2004, Cass. n. 9783 del 2003).

A questi principi, pienamente condivisi dal Collegio, si è correttamente attenuto il Giudice di appello, avendo quel Giudice ritenuto di non essere vincolato dalla previsione contrattuale e di dover accertare se in concreto sussistesse la giusta causa di licenziamento, avuto riguardo alla proporzionalità della sanzione irrogata rispetto al fatto contestato. Ciò premesso la Corte, valutata la gravità del fatto contestato anche in relazione allo, insussistenza di conseguenze patrimoniali e morali per l’azienda, e considerato il comportamento precedente e successivo dell’incolpato e l’intensità del dolo, ha ritenuto il recesso non proporzionato alla gravità del fatto addebitato.

Il giudizio negativo formulato dalla Corte Territoriale è censurato dalla ricorrente sia per violazione dei canoni di ermeneutica in relazione all’art. 25 del c.c.N.L., sia per vizi di motivazione, attinenti questi ultimi sia all’interpretazione della norma contrattuale che alla valutazione delle risultanze testimoniali.

Dette censure non sono condivisibili.

Le censure che la società muove alla sentenza impugnata sotto il profilo della violazione delle norme di ermeneutica nell’interpretazione dell’art. 25 del c.c.N.L. sono del tutto generiche, risolvendosi nel formale richiamo agli artt. 1362 e segg. cod.civ. senza alcuna specifica indicazione del principio o dei principi in concreto violati dal Giudice di appello nella interpretazione della norma contrattuale e senza alcuna specificazione dei motivi della decisività del preteso errore.

Peraltro, una volta escluso che le previsioni contrattuali di condotte illecite possano vincolare il Giudice in ordine alla sussistenza in concreto della giusta causa di licenziamento, la censura si rivela anche inconsistente nella parte in cui addebita alla Corte di Appello di aver erroneamente confuso le due ipotesi di illecito previste dalla norma, e cioè quella della commissione di delitto e quella del grave nocumento recato all’azienda. In realtà la Corte ha richiamato la mancanza di danno morale e materiale all’azienda come elemento di valutazione della non gravità del delitto commesso dal lavoratore e non come fatto illecito contestato al licenziato.

Quanto al preteso vizio di motivazione, la censure della società non tiene conto della costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui ove la censura riguardi il vizio di motivazione, essa deve investire il percorso logico seguito dal Giudice, deve indicare quali siano i vizi logici del ragionamento decisorio e non può risolversi nella mera prospettazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal Giudice del merito, poichè il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al Giudice di merito, ma esclusivamente la coerenza e la sufficienza della motivazione, non essendo consentito al Giudice di legittimità sostituire una propria interpretazione a quella accolta dal Giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n. 17749 del 2003, Cass. n. 6611 del 2003, Cass. n. 9091 del 2004, Cass. n. 7936 del 2005, Cass. n. 8718 del 2005).

In particolare, per quanto riguarda le prove, è appena il caso di ricordare che la valutazione delle risultanze delle prove testimoniali, come anche il giudizio sulla attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, involge apprezzamenti di fatto riservati al Giudice del merito, non censurabili in sede di legittimità se congruamente motivati, con la conseguenza che la parte che deduce dei vizi di motivazione della sentenza relativamente alla valutazione delle prove non può limitarsi a contrapporre una interpretazione delle prove a sè più favorevole rispetto a quella data dal Giudice, ma deve indicare i vizi logici e le contraddizioni della motivazione che non consentono l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. tra le tante Cass. n. 9716 del 2000, Cass. n. 6023 del 2000, Cass. n. 5231 del 2001).

Nella specie il Giudice del gravame, con congrua e coerente motivazione, ha dato della norma contrattuale e delle testimonianze raccolte una interpretazione che non contrasta con la lettera della norma contrattuale e che non è irragionevole sul piano logico, e che pertanto non è meritevole di censura.

Per contro le censure proposte dal ricorrente si risolvono nel suggerire una diversa interpretazione della norma contrattuale e delle testimonianze raccolte, più favorevole all’interessato, e sono di conseguenza inammissibili, in quanto sollecitano una diversa interpretazione della norma contrattuale ed il riesame del materiale probatorio, non consentiti al Giudice di legittimità.

In definitiva, il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di Cassazione, liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 19,00, per esborsi ed in Euro duemilacinquecento per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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