Cass. civ., sez. III 24-05-2006, n. 12372 IMPUGNAZIONI CIVILI – CASSAZIONE – MOTIVI DEL RICORSO – Sentenza – Di merito fondata su distinte ed autonome ragioni – Ricorso per cassazione articolato su più motivi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

In accoglimento del ricorso 22 aprile 1996 il presidente del tribunale di Parma ha ingiunto alla General Waters s.r.l. il pagamento della somma di Lire 88.304.240 in favore della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza.

Tale somma era reclamata dalla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza a fronte di una ricevuta bancaria accreditata salvo buon fine su un conto corrente della General Waters s.r.l. e non onorata dalla debitrice.

Con atto 18 giugno 1996 la General Waters s.r.l. ha proposto opposizione, innanzi al tribunale di Parma, avverso il descritto decreto, eccependo la nullità del decreto stesso perché emesso in assenza di una prova scritta e facendo, comunque, presente che la pretesa avversaria era infondata.

Costituitasi in giudizio la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza ha chiesto il rigetto della opposizione.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito tribunale con sentenza 990/1999, revocato il decreto opposto, ha condannato, comunque, l’opponente al pagamento della somma di Lire 88.304.240 oltre accessori.

Gravata tale pronunzia dalla General Waters s.r.l., nel contraddittorio della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza che ha chiesto il rigetto della impugnazione, la Corte di appello di Bologna con sentenza 29 gennaio-17 luglio 2002 in parziale accoglimento dell’appello ha rigettato la domanda proposta dalla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza con il ricorso per ingiunzione 22 aprile 1996 e condannato quest’ultima a restituire all’appellante tutte le somme eventualmente percepite in forza della provvisoria esecutorietà della sentenza nonché al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

Per la cassazione di tale pronunzia, notificata l’11 ottobre 2002, ha proposto ricorso, affidato a tre motivi e illustrato da memoria, con atto 5 dicembre 2002, la Intesa BCI Gestione Crediti s.p.a., quale procuratore della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza.

Resiste, con controricorso, la General Waters s.r.l.

Motivi della decisione

1. ÿ rimasto accertato in linea di fatto, in esito alla istruttoria espletata in sede di merito, che:

– il 28 maggio 1993 la General Waters ha presentato, per l’incasso, alla Cassa di Risparmio di Parma una fattura a carico della AFS General Waters Limited con sede in Inghilterra per Lire 88.304.240, da pagarsi entro il 30 settembre 1993;

– il 9 ottobre 1993 l’istituto ha accreditato, su conto corrente intestato alla General Waters, l’importo della fattura «salvo buon fine»;

– con telegramma 2 febbraio 1994 la Cassa di Risparmio di Parma (nelle more divenuta Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza) ha sospeso l’utilizzazione delle linee di credito già concesse alla General Waters;

– il 3 giugno 1994 il conto corrente in questione è stato chiuso e la Cassa, effettuati i necessari conteggi, ha corrisposto alla General Waters il saldo attivo, pari a Lire 7.956.092;

– l’11 ottobre 1995 la Cassa ha chiesto alla General Waters la restituzione della somma (Lire 88.304.240) a suo tempo accreditata, atteso che si era avvalsa, per l’incasso, della collaborazione della National Westminster Bank, ma la fattura non era stata pagata e il titolo era andato smarrito, durante il tragitto dall’Inghilterra all’Italia;

– la General Waters ha opposto di non essere tenuta al pagamento della somma in questione, atteso che con la chiusura del conto corrente i rapporti tra le parti erano stati tutti liquidati.

2. Premesso quanto sopra, giudici di secondo grado hanno rigettato la domanda proposta dalla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza nei confronti della General Waters sulla base di due, concorrenti, rationes decidendi.

2.1. La banca – hanno, in primis, evidenziato quei giudici (richiamando la giurisprudenza di questa Corte regolatrice sul punto specifico) – approva gli estratti conto da essa stessa predisposti nel momento in cui li trasmette al cliente: è dunque pacifico che anche gli istituti di credito sono sottoposti alla disciplina dettata dall’art. 1832 c.c. e, quindi, al termine di decadenza previsto dal secondo comma di questo.

In particolare, deve escludersi – hanno concluso sul punto quei giudici – che la banca possa realizzare il proprio credito al di fuori del regime di impugnazione previsto dall’art. 1832 c.c., perché una simile facoltà contrasterebbe con la funzione, propria della disciplina in esame, di conferire definitività e certezza alla situazione contabile cristallizzata in un determinato momento e di tutelare, al tempo stesso, l’affidamento ragionevolmente sorto in ciascuna delle parti circa la inoppugnabilità delle risultanze degli estratti conto approvati.

Alla approvazione del conto – contemporaneamente indipendente dal decorso del termine semestrale previsto dall’art. 1832 c.c. – possono sopravvivere le azioni ordinarie volte a fare dichiarare la invalidità o inefficacia giuridica del titolo in base al quale è stata effettuata (o si sarebbe dovuta effettuare) una determinata operazione.

Nella specie, peraltro, non si contesta la legittimità e la validità del titolo che la General Waters aveva affidato alla Cassa di Risparmio di Parma per l’incasso.

A seguito del mancato pagamento la banca avrebbe dovuto procedere alla storno dell’importo in precedenza accreditato sul conto del mandante e deve escludersi che la banca possa recuperare, dopo oltre due anni e mezzo dal conferimento del mandato all’incasso, e a un anno e mezzo dalla chiusura definitiva del rapporto, una somma che nell’estratto di chiusura del conto, tacitamente approvato dal cliente e non impugnato dalla banca, risultava definitivamente attribuita.

In conclusione, non essendo stato impugnato dalla Banca l’estratto conto del 3 giugno 1994 nei successivi sei mesi, si era verificata la decadenza prevista dall’art. 1832, comma 2.

2.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, hanno osservato quei giudici che i motivi che avrebbero impedito lo storno (tempestivo) dal conto corrente della General Waters dell’importo della fattura in precedenza accreditato (ritardata conoscenza del mancato buon fine e smarrimento del titolo) derivano esclusivamente dai rapporti interni tra la Cassa di Risparmio e la banca estera cui era stato affidato l’incarico e sono, pertanto, imputabili alla stessa azienda di credito che risponde non solo per l’eventuale scelta di un sostituto inadeguato, ma anche per la insufficienza o la erroneità delle istruzione fornite, per la omessa sorveglianza sul sostituto affinché questi osservi diligentemente i compiti che gli sono stati affidati e, soprattutto, per il ritardo nella comunicazione al mandante.

3. Parte ricorrente censura la riassunta pronunzia, quanto al primo delle indicate rationes decidendi, denunziando con il secondo motivo «violazione e falsa applicazione degli artt. 1827 c.c., 1829 c.c. 1832 c.c. 1857 c.c. in relazione agli artt. 360, n. 3 e 5, c.p.c.».

Si assume, infatti, che la sentenza gravata ha violato:

– l’art. 1827 c.c. «nella parte in cui tale norma sancisce che se l’atto è invalido, la relativa partita si elimina dal conto, in linea con un principio di carattere generale per cui ogni credito con la sua individualità e la sua natura rimane legato alla sua fonte e subisce le vicende connesse all’eventuale esistenza di un vizio che infici l’atto che è a suo fondamento, posto che l’inclusione nel conto non sana alcuna nullità o inefficacia dell’atto da cui l’inclusione ha tratto origine»;

– l’art. 1829 c.c. «che recita che se non risulta una diversa volontà delle parti (e qui è confermato e documentalmente provato che le parti hanno voluto negoziare il titolo "salvo buon fine"), l’inclusione nel conto di un credito verso un terzo si presume fatta con la clausola "salvo incasso"»;

– l’art. 1832 c.c. e l’art. 1857 c.c. «essendo principio consolidato che sul contratto di conto corrente la mancata impugnazione o l’approvazione dell’estratto conto non comportano l’incontestabilità del debito da esso risultante che sia fondato su negozio nullo, annullabile, inefficace». «La Corte di Bologna erroneamente interpreta il principio, peraltro consolidato, affermato dal Supremo Collegio nella predetta decisione 10186/2001, laddove ritiene che la cassa non abbia diritto – a seguito della mancata riscossione del credito con conseguente inefficacia del negozio in virtù del quale aveva provveduto all’inclusione nel corso del relativo importo – a richiedere il pagamento di esso a General Waters».

4. Il motivo, per più aspetti di difficile lettura, non coglie nel segno e deve essere rigettato. Sotto entrambi i profili in cui si articola.

4.1. Quanto, in primis, alla denunziata «violazione e falsa applicazione» di molteplici norme di diritto, puntualmente indicate nel motivo, si osserva che, come noto, il vizio di «violazione e falsa applicazione di norme di diritto», di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge.

La stessa, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna alla esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, cfr. Cass., 4561/2006, specie in motivazione).

Contemporaneamente si osserva che in sede di ricorso per cassazione il vizio di «violazione e falsa applicazione di norme di diritto», di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con la interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunciata violazione (oltre Cass., 4561/2006, cit., tra le tantissime, Cass. 2659/2005; Cass. 18782/2005).

Pacifico quanto sopra, si osserva che – come evidenziato sopra – nel rigettare la domanda attrice i giudici del merito hanno nella specie fatto applicazione esclusivamente della regola contenuta nell’art. 1832, c.c. secondo la quale, in tema di conto corrente:

«l’estratto conto trasmesso da un correntista all’altro s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze» (comma 1);

«l’approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni. L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di ricezione dell’estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura, che deve essere spedito per mezzo di raccomandata» (comma 2).

ÿ evidente – in limine – la non pertinenza al fine del decidere di tutte le considerazioni svolte in ricorso in margine agli artt. 1827 e 1829 c.c. di cui – in pratica – non ha fatto alcuna applicazione la sentenza gravata.

Sempre al riguardo si osserva che i giudici di secondo grado hanno affermato che la disposizione in parola e, in particolare, il suo secondo comma, deve interpretarsi nel senso che:

– da un lato, che nel conto corrente bancario il termine semestrale di decadenza (di cui all’art. 1832, comma 2, c.c.) per la impugnazione dell’estratto conto inviato al cliente opera anche per la banca che, pertanto, decorso tale termine, non più far valere crediti per errore non inclusi nell’estratto;

– dall’altro, che decorso il termine semestrale in parola possono sopravvivere (sia in favore del cliente che della banca) esclusivamente le azioni ordinarie volte a fare dichiarare la «invalidità» o la «inefficacia giuridica» del titolo in base al quale è stata effettuata (o si sarebbe dovuta effettuare) una determinata annotazione.

Hanno ritenuto – in conclusione – i giudici a quibus (del resto in conformità a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte, invocata anche dalla odierna ricorrente) che nel contratto di conto corrente l’incontestabilità delle risultanze del conto conseguente all’approvazione tacita dell’estratto conto, a norma dell’art. 1832 c.c., si riferisce agli accrediti ed agli addebiti considerati nella loro realtà effettuale, ma non impedisce la contestazione della validità e dell’efficacia dei rapporti obbligatori da cui essi derivino, né l’approvazione o la mancata impugnazione del conto comportano che il debito fondato su di un negozio nullo, annullabile, inefficace (o, comunque, su situazione illecita) resti definitivamente incontestabile (Cass., 10186/2001).

Nessuna di tali affermazioni è censurata (nel rispetto delle regole volute a pena di inammissibilità dall’art. 366, n. 4, c.p.c.) dalla parte ricorrente.

Questa, infatti, non nega né il primo dei principi sopra richiamati, né il secondo.

Riconosce parte ricorrente, infatti, ancorché implicitamente, che l’art. 1382, comma 2, c.c. esclude «l’impugnazione» delle risultanze del conto, una volta scaduto il termine di sei mesi dalla sua ricezione (o, rispettivamente, per la parte che l’ha inviato, dalla sua spedizione), ma oppone che, in realtà, nella fattispecie concreta tale decadenza non ha motivo di operare.

Certo quanto precede, è di palmare evidenza la inammissibilità della censura in esame, sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.

Parte ricorrente, infatti, lungi dal censurare la interpretazione data dalla sentenza impugnata all’art. 1832, comma 2, c.c., si duole – in realtà – che i giudici del merito abbiano valutato le risultanze di causa in modo difforme dalle sue aspettative così affermando che si era realizzata la «decadenza» prevista dalla disposizione in esame, decadenza che doveva – invece – essere esclusa diversamente apprezzando quelle stesse risultanze valutate dai giudici a quibus.

4.2. Il motivo, comunque, non può trovare accoglimento neppure sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. («omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione»).

Si osserva, infatti – in termini opposti, rispetto a quanto presuppone la difesa della ricorrente e alla luce di quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non può che ulteriormente ribadirsi – che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.

Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (in argomento, tra le altre, Cass., 11936/2003; Cass., 11918/2003; Cass., 2222/2003).

L’art. 360, n. 5, infatti, contrariamente a quanto suppone l’attuale ricorrente, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti.

Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.

Certo quanto sopra, si osserva che la ricorrente, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, si limita – in buona sostanza (per quanto è dato comprendere) – a sollecitare una diversa lettura delle risultanze di causa preclusa in questa sede di legittimità.

Pacifico quanto precede, si osserva che nella specie parte ricorrente, pur assumendo (invocando la tutela di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.) che la sentenza impugnata è incorsa in omessa, insufficiente, o contraddittoria motivazione (allorché, in particolare, ha escluso che essa ricorrente potesse, una volta trascorso il termine semestrale di cui all’art. 1832, comma 2, c.c., contestare le risultanze dell’estratto conto da lei stessa predisposto), non solo si astiene dall’indicare quali siano i vizi della sentenza gravata, rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. e che ne giustifichino, quindi, la cassazione, ma neppure indica, in ispregio del precetto di cui all’art. 366, n. 4, c.p.c., le ragioni che dovrebbero condurre alla cassazione della sentenza impugnata.

Se, infatti, alla luce della giurisprudenza richiamata in ricorso (cui, tra le tantissime, possono aggiungersi gli insegnamenti contenuti in Cass., 7662/2005; Cass., 11961/2003; e in Cass., 10129/2001) l’incontestabilità delle risultanze del conto, derivante dal mancato tempestivo esercizio di detto diritto, non si riferisce alla validità ed efficacia dei rapporti da cui i rispettivi accrediti ed addebiti derivano, né la mancata contestazione (o approvazione) del conto comporta che il debito fondato su negozio nullo od annullabile o comunque su situazione illecita divenga per ciò "nuovo" e, come tale, incontestabile, si osserva che parte ricorrente si astiene dall’indicare le ragioni in forza delle quali si sia, nella specie, a fronte a una operazione «invalida», o a una scritturazione (o non scritturazione) fondata su negozio nullo od annullabile o comunque su situazione illecita.

Dalle stesse difese della ricorrente, anzi, è indubbio che nella specie si è a fronte a una mancata annotazione – da parte della banca e, certamente, per sua esclusiva colpa – di una operazione (e, cioè, la mancata annotazione della omessa riscossione della fattura per Lire 88.304.240) ed è evidente, pertanto, che correttamente i giudici del merito hanno ritenuto che la omissione rientra nella previsione di cui all’art. 1832, comma 2, c.c. (per una fattispecie analoga cfr. Cass., 18626/2003, che, ribadito il principio secondo cui nel contratto di conto corrente la mancata contestazione dell’estratto conto e la connessa, implicita approvazione delle operazioni in esso annotate non esclude l’ammissibilità di censure concernenti la validità e l’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali esse derivino, alle quali non è però riconducibile la contestazione avente ad oggetto la mancata annotazione di un’operazione che, ai sensi dell’art. 1832, secondo comma, c.c. deve essere proposta nel termine di sei mesi dall’approvazione del conto e che ha, quindi, cassato la sentenza di merito che aveva confermato il decreto ingiuntivo emesso in favore di una banca, per il pagamento di una fattura emessa a carico del titolare del conto corrente, benché l’operazione non risultasse annotata nell’estratto conto finale, non impugnato e non contestato nel termine di decadenza di sei mesi. Sempre nello stesso senso, altresì, Cass., 4140/1995).

5. Con il primo e il terzo motivo – intimamente connessi e da esaminare congiuntamente – la ricorrente denunzia:

– da un lato, «violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 345 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione agli art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.» (primo motivo);

– dall’altro, «violazione e falsa applicazione degli artt. 1703 e ss. c.c. nonché degli artt. 1353 e ss. c.c. in relazione agli artt. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.» (terzo motivo).

Con i descritti motivi la ricorrente censura, in particolare, l’ulteriore ratio decidendi contenuta nella sentenza, relativa – come osservato sopra – alla ritenuta (da parte della Corte di appello di Bologna) responsabilità dell’istituto di credito quanto all’omessa riscossione, in Inghilterra, del credito portato dalla fattura presentata per l’incasso.

6. I riferiti motivi sono inammissibili, per difetto di interesse (art. 100 c.p.c.).

Giusta un insegnamento assolutamente pacifico presso la giurisprudenza di questa Corte regolatrice e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario per giungere alla cassazione della pronunzia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso della impugnazione.

Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.

ÿ sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (in tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass., 10420/2005; Cass., 2274/2005; Cass., 10134/2004).

Pacifico quanto precede, è evidente, come anticipato, la inammissibilità, per carenza di interesse, dei motivi sopra indicati.

Anche, infatti, nella eventualità dovesse pervenirsi all’accoglimento dei detti motivi, in nessun caso potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, atteso che questa rimane comunque ferma, essendo stata dimostrata, a seguito del rigetto del secondo motivo, la correttezza di una delle rationes decidendi che ne sorreggono il dictum.

7. Il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi, in applicazione dei seguenti principi di diritto:

– «nel rapporto di conto corrente bancario il termine di decadenza di sei mesi per l’impugnazione dell’estratto conto trasmesso al cliente, fissato dall’art. 1832, comma 2, c.c., opera anche per la banca, relativamente all’omessa registrazione di partite a credito dell’istituto, con la conseguenza che, decorso inutilmente detto termine, la banca decade dal diritto di far valere crediti che non risultano nell’estratto conto approvato, specie nell’eventualità si sia a fronte a operazioni non annotate»;

– «nel contratto di conto corrente, la mancata impugnazione o l’approvazione dell’estratto conto non comportano l’incontestabilità del debito da esso risultante, che sia fondato su negozio nullo, annullabile, inefficace o, comunque, su situazione illecita. La verifica – in concreto – se si sia, o meno, a fronte di una contestazione avente i detti requisiti è rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato»;

– «ove una sentenza si fondi su una pluralità di rationes decidendi, ognuna sufficiente, ex se, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro, che tali censure risultino tutte fondate. Deriva, da quanto precede, pertanto, che rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche nella eventualità questi ultimi dovessero risultare fondati non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta».

8. Risultato infondato in ogni sua parte, il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 per spese oltre euro 3.000,00 per onorari e oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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