Cass. civ., sez. I 13-04-2006, n. 8716 CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI – PROCESSO EQUO – TERMINE RAGIONEVOLE – Equa riparazione – Danno non patrimoniale – Conseguenza normale della violazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con decreto del 5 maggio 2003 la Corte d’appello di Roma rigettava la domanda di equa riparazione proposta ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89 dal signor A.D.L., in relazione alla violazione del termine ragionevole di durata del processo che il ricorrente assumeva essersi verificata nell’ambito della causa civile promossa nei suoi confronti dal signor V.S., avente ad oggetto la divisione di un immobile in comproprietà: giudizio che, introdotto dinanzi al Tribunale di Benevento con atto di citazione notificato il 3 dicembre 1990, si era concluso nel marzo 2001 con la cancellazione della causa dal ruolo a seguito della conclusione di una transazione stragiudiziale fra le parti.

La Corte territoriale rilevava come, ai fini di accertare la sussistenza di una violazione del principio di ragionevole durata del processo, occorra tener conto della complessità del caso e, in relazione ad essa, del comportamento delle parti, del giudice del procedimento e di ogni altra autorità chiamata a concorrere alla sua definizione.

Nella specie, pur essendovi stati numerosi rinvii di ufficio, le parti, nelle sedici udienze effettivamente svoltesi, avevano formulato una sola volta una richiesta (quella di ammissione di una consulenza tecnica all’udienza del 29 novembre 1993), essendosi limitate, per il resto, a chiedere rinvii, spesso dando atto della pendenza di trattative di bonario componimento.

In tale situazione, essendo stata nella sostanza la vicenda «completamente gestita in ambito stragiudiziale», a prescindere dall’esistenza o meno di un ritardo nella definizione del processo, non poteva ravvisarsi l’esistenza di alcun danno né patrimoniale (peraltro neppure allegato) né morale, dato che il comportamento processuale delle parti e l’entità degli interessi in gioco (trattandosi di procedere alla divisione della parte di un fabbricato cui il ricorrente, proprietario per un quarto, non si era opposto) escludevano che il protrarsi dell’incertezza circa il futuro assetto della proprietà comune avesse avuto «una qualche ricaduta sulla vita del ricorrente».

Per la cassazione di tale decreto propone ricorso il D.L. sulla scorta di tre motivi, cui resiste con controricorso il Ministero della giustizia.

Motivi della decisione

1. Con i primi due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, il ricorrente denuncia:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l. 89/2001, degli artt. 6, paragrafo 1, e 53 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con l. 4 agosto 1955, n. 848, e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.;

2) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.

Al riguardo, il ricorrente rileva come, ai fini del riconoscimento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, il giudice nazionale sia tenuto ad applicare le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare l’art. 6 di tale Convenzione, secondo i principi ermeneutici espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

A tali principi non si sarebbe per converso attenuta la Corte territoriale romana, la quale – pur riconoscendo che nel caso di specie vi erano stati numerosi rinvii d’ufficio e che nel corso di undici anni si erano tenute soltanto sedici udienze – ha ritenuto che la vicenda fosse stata completamente gestita dalle parti in sede stragiudiziale solo in ragione di qualche rinvio da esse richiesto per definire bonariamente la controversia, senza tener conto del fatto che tali richieste erano dirette ad evitare l’ulteriore protrarsi del processo.

Di contro, la Corte di merito avrebbe dovuto focalizzare la sua attenzione sul concreto funzionamento dell’organizzazione giudiziaria, onde pervenire ad un giudizio di ragionevole o non ragionevole durata del processo.

2. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l. 89/2001, degli artt. 2506 e 2043 c.c., degli artt. 2 e 24 della l. 848/1955 (l’art. 24 di tale legge è peraltro inesistente) e dell’art. 111 Cost., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., censurando che la Corte di merito abbia escluso la configurabilità, nel caso di specie, di qualsiasi danno patrimoniale o non patrimoniale, sul rilievo che, alla luce del comportamento processuale delle parti e dell’entità degli interessi in gioco, il protrarsi della incertezza sull’esito del giudizio in corso non aveva avuto alcuna «ricaduta sulla vita del ricorrente».

La lesione del diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, già affermato dall’art. 6, paragrafo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, ed ora anche dal nuovo testo dell’art. 111 Cost., sarebbe difatti fonte, di per sé, di danno risarcibile. Né l’esistenza di quest’ultimo potrebbe essere negata sulla base del comportamento processuale tenuto dalle parti e teso a risolvere la controversia nel più breve tempo possibile, o sulla base dell’entità degli interessi in gioco, ovvero ancora perché la causa si è conclusa a seguito di transazione, concretando quest’ultima una scelta affatto legittima, tanto più a fronte dell’incapacità dell’amministrazione della giustizia di garantire la definizione del giudizio in tempi ragionevoli. La certezza sulla proprietà e sulla concreta disponibilità dell’immobile oggetto di giudizio è stata in effetti conseguita dal ricorrente solo con la conclusione della transazione, mentre fino a tale momento sarebbe innegabile che egli abbia sofferto il pregiudizio morale connesso al disagio ed all’ansia per la pendenza del lungo processo.

3. Il ricorso non è fondato, pur dovendo la motivazione del decreto impugnato essere opportunamente emendata da questa Corte, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c.

3.1. Detta motivazione non è infatti condivisibile nella parte in cui esclude la configurabilità, nella specie, di una violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, facendo leva, a tal fine, sulla duplice circostanza che il processo presupposto si era concluso con una transazione stragiudiziale e che le parti, nel corso di esso – pur in presenza di plurimi rinvii d’ufficio – avevano a lor volta formulato reiterate richieste di rinvio.

Come questa Corte ha avuto occasione di affermare a più riprese, il diritto all’equa riparazione viene riconosciuto dall’art. 2 della l. 89/2001 a prescindere dall’esito del giudizio che ha registrato l’irragionevole durata, sicché, nel caso in cui la parte che invoca l’indennizzo sia addivenuta, nella pendenza di un processo di durata irragionevole, ad una transazione stragiudiziale, il giudice del merito non può rinvenire in tale vicenda alcun ostacolo all’accoglimento della domanda, essendo bene ipotizzabile un diritto all’equa riparazione con riferimento all’irragionevole protrarsi della controversia per il tempo anteriore al momento in cui la transazione rifluisce sul processo con declaratoria di cessazione della materia del contendere o con provvedimento di estinzione (Cass., 11 marzo 2005, n. 5398; Cass., 19 febbraio 2003, n. 2478; Cass., 24 gennaio 2003, n. 1069).

Quanto, poi, ai rinvii richiesti dalle parti, essi potevano venire in rilievo ai fini della determinazione della misura del segmento – all’interno del complessivo arco temporale del processo – riferibile all’apparato giudiziario, in relazione al quale deve essere formulata la valutazione circa la ragionevole durata, ma non già per escludere sic et simpliciter la sussistenza della violazione.

Se per un verso, infatti, è la stessa Corte territoriale ad affermare che vi furono, nel corso del processo presupposto, anche «numerosi rinvii di ufficio»; per altro verso, in rapporto a quelli richiesti dalle parti vale comunque il principio – più volte affermato da questa Corte – secondo il quale non tutto il lasso temporale intercorso tra un’udienza e un’altra può essere automaticamente imputato al comportamento della parte che abbia chiesto un rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità di quello concesso sia ascrivibile anche a concorrenti carenze dell’organizzazione giudiziaria (Cass., 28 settembre 2005, n. 18924; Cass., 21 settembre 2005, n. 18589; Cass., 30 marzo 2005, n. 6713).

3.2. Nondimeno, a sorreggere la decisione di rigetto della domanda è sufficiente la successiva e distinta considerazione, svolta nel decreto impugnato, circa la non configurabilità, nel caso di specie, di un danno conseguente alla irragionevole durata del processo.

Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, invero, in tema di equo indennizzo ai sensi della l. 89/2001, il danno patrimoniale può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che vi si riconnetta sulla base di una normale sequenza causale, restando a carico della parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere di dimostrare rigorosamente il pregiudizio (patrimoniale) lamentato (Cass., 26 aprile 2005, n. 8603).

Quanto, invece, al danno non patrimoniale, per orientamento ormai costante di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni unite (Cass., Sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338; Cass., Sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1339), il danno anzidetto, inteso come danno morale soggettivo, è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a chi ne è titolare: sicché, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – una volta accertata quest’ultima deve, invece, considerarsi di regola in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, che il giudice deve ritenere quindi esistente; sempre, però, che non constino, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che il danno in questione sia stato subito dal ricorrente: come tipicamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sé favorevoli (ex plurimis, tra le ultime, Cass. 11 novembre 2005, n. 21857; Cass., 28 ottobre 2005, n. 21094; Cass., 3 ottobre 2005, n. 19288; Cass., 29 settembre 2005, n. 19029).

La valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, delle particolari circostanze sopra indicate, idonee ad escludere la configurabilità del danno non patrimoniale, si risolve evidentemente in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione congrua e scevra da vizi logici e giuridici.

Nella specie, la Corte territoriale – rilevato come non fosse stato allegato alcun elemento atto a comprovare l’esistenza di un danno patrimoniale (affermazione, questa, che non risulta in alcun modo posta in discussione dall’odierno ricorrente) – ha ulteriormente osservato, nella sostanza, come sussistessero, per converso, elementi positivamente idonei ad escludere anche la sussistenza di un danno morale connesso all’incertezza sull’esito del giudizio.

Tali elementi essa ha individuato in un triplice e convergente ordine di circostanze: il comportamento processuale delle parti, che per l’intero arco del giudizio si erano limitate a formulare richieste di rinvio (fatta eccezione per un’unica richiesta di ammissione di consulenza tecnica d’ufficio), motivandole sovente con la pendenza di trattative di bonario componimento; l’oggetto del giudizio, consistente nella divisione di una parte di un fabbricato, cui il ricorrente, proprietario per un quarto, non si era opposto; la circostanza, infine, che il giudizio si fosse concluso con l’estinzione per inattività delle parti, a seguito della conclusione di una transazione stragiudiziale.

Tale complesso di elementi induceva a ritenere che si fosse al cospetto di una vicenda «completamente gestita in ambito stragiudiziale»: ergo, di una sostanziale carenza di interesse del ricorrente alla celere definizione del giudizio in cui era convenuto, essendo il suo interesse quello – opposto – alla stasi del procedimento per coltivare la prospettiva, poi in effetti concretizzatasi, della definizione stragiudiziale.

Siffatto apprezzamento, in quanto sorretto da motivazione adeguata e non inficiata da errori logico-giuridici, si sottrae a censura nella presente sede.

4. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna A.D.L. al rimborso delle spese processuali in favore del Ministero della giustizia, liquidate in euro 1000 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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