Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezioni Unite Sentenza n. 24486 del 2006 deposito del 14 luglio 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Motivi della decisione

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di M.R. in ordine al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa; dello stesso M. e di M.D. in ordine al delitto di partecipazione ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; di L.G. in ordine al delitto di detenzione di stupefacenti a fini di spaccio.

Ricorrono per Cassazione gli imputati.

L.G. propone due motivi d’impugnazione, deducendo violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e vizi di motivazione della sentenza impugnata. Lamenta che i giudici del merito ne abbiano affermato la responsabilità solo sulla base di equivoche conversazioni intercettate e senza che egli sia stato mai trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Aggiunge che la sua stessa identificazione in uno dei partecipanti alle conversazioni intercettate è vacua, in quanto si basa sull’intestazione a suo padre di una delle utenze, mentre in realtà si trattava di un cellulare smarrito, e sul dato generico della sua provenienza da Cosenza, oltre che su un presunto e non meglio specificato riconoscimento della sua voce. Si duole infine dell’ingiustificato disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

M.D. propone due motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo il ricorrente eccepisce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 267 c.p.p., lamentando che i giudici del merito si siano fondati su intercettazioni inutilizzabili in quanto autorizzate con decreti privi di adeguata motivazione.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione della decisione impugnata, lamentando che i giudici del merito abbiano fondato il proprio convincimento di colpevolezza su erronee interpretazioni delle conversazioni intercettate sia quanto alla sua identificazione nel personaggio soprannominato ? sia quanto alla sua partecipazione a un’associazione criminale, di cui mancano peraltro gli elementi costitutivi, risultando provati solo suoi normali rapporti con appartenenti all’associazione. Per il latitante M.R. il difensore d’ufficio, avv. S? G?, propone tre motivi d’impugnazione, contestando sia l’affermazione della sua responsabilità sia il riconoscimento delle circostanze aggravanti e il diniego delle circostanze attenuanti generiche.

2. La sesta sezione penale di questa Corte, cui i ricorsi erano stati assegnati, rilevato che l’avv. S? G?, ricorrente per M.R., non è abilitata al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, ha denunciato un contrasto di giurisprudenza circa l’ammissibilità del ricorso proposto per l’imputato latitante da difensore non abilitato.

Secondo una parte della giurisprudenza di questa Corte, infatti, "il difensore d’ufficio del latitante, rappresentando quest’ultimo ad ogni effetto di legge, ai sensi dell’art. 165 c.p.p., comma 3, ed essendo abilitato, in base al disposto di cui all’art. 99 c.p.p., comma 1, ad esercitare in sua vece tutti i diritti e le facoltà che non siano personalmente riservati all’imputato, può validamente proporre ricorso per Cassazione? anche senza essere iscritto all’albo speciale di cui all’art. 613 c.p.p." (Cass., sez. 1^, 11 luglio 2003, Mohamad Taher, m. 225750, Cass., sez. 6^, 20 aprile 2005, Aglieri, m. 233094, Cass., sez. 5^, 4 maggio 2000, Jonuzi, m. 216362, Cass., sez. 4^, 16 gennaio 2003, Marsalone, m. 223564); "ma non può difendere il latitante davanti alla Corte" (Cass., sez. 1^, 12 maggio 2004, Selvaggi, m. 229733).

Secondo, altra giurisprudenza, invece, "il difensore d’ufficio dell’imputato latitante, pur rappresentando ad ogni effetto il proprio assistito, ai sensi dell’art. 165 c.p.p., comma 3, non è per ciò solo abilitato a proporre ricorso per Cassazione, qualora non sia anche iscritto all’albo speciale previsto dall’art. 613 c.p.p., trovando il detto potere di rappresentanza la sua ragion d’essere nell’esigenza di impedire che il diritto di difesa dell’imputato risulti limitato per effetto della latitanza, di tal che esso non può ritenersi configurabile laddove, come nel caso dell’impugnazione, trattasi di diritto che l’imputato può esercitare personalmente, senza alcun rischio di cattura, mediante ricorso ad una delle varie modalità di presentazione del gravame previste dagli artt. 582 e 583 c.p.p." (Cass., sez. 1^, 30 settembre 2003, Lala, m. 226192). E pertanto "è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 613 c.p.p. nella parte in cui non prevede la possibilità di proposizione del ricorso per Cassazione da parte del difensore d’ufficio del latitante, pur quando egli non sia iscritto all’albo speciale dei difensori abilitati al patrocinio davanti alla corte di legittimità, non essendo ravvisabile il denunciato contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. dal momento che, per un verso, anche l’imputato latitante può proporre personalmente ricorso per cassazione e vedersi quindi assicurata, nel successivo giudizio di legittimità, l’assistenza di un difensore d’ufficio cassazionista; per altro verso, non sussiste ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’imputato (latitante o meno) che sia assistito fin dal giudizio di merito da difensore d’ufficio cassazionista, attesa l’impossibilità di assicurare a tutti, anche nel giudizio di merito, la difesa d’ufficio ad opera di avvocati iscritti all’albo speciale e dovendosi semmai ritenere che una ingiustificata disparità di trattamento verrebbe piuttosto a crearsi in favore dell’imputato latitante, qualora solo a quest’ultimo dovesse nominarsi in difensore d’ufficio cassazionista e non anche all’imputato irreperibile, il quale, peraltro, a differenza del latitante, potrebbe essere del tutto immune da profili di colpa in ordine alla mancata, effettiva conoscenza del provvedimento impugnabile" (Cass., sez. 1^, 30 settembre 2003, Lala, m. 226193).

3. Il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla sesta sezione penale di questa Corte attiene ai limiti del potere di rappresentanza del difensore, indipendentemente dalla natura fiduciaria o officiosa della sua nomina, che ovviamente non incide su tali limiti. Riguarda più in particolare i limiti del potere di rappresentanza del difensore nei confronti dell’imputato evaso o latitante, ai fini del ricorso per Cassazione, che, secondo quanto prevede l’art. 613 c.p.p., comma 1, l’imputato può proporre anche personalmente.

Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l’ampio potere di rappresentanza dell’imputato latitante o evaso riconosciuto al difensore dall’art. 165 c.p.p., comma 3 include anche il riconoscimento del potere di rappresentarlo ai fini della presentazione del ricorso per Cassazione, indipendentemente dalla sua legittimazione professionale.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale minoritario, invece, l’esigenza di tutela del diritto alla difesa del latitante non esime dal rispetto delle condizioni di abilitazione del difensore. Il contrasto nasce quindi da un’esigenza di coordinamento dell’art. 613 c.p.p., comma 1, laddove riconosce all’imputato la facoltà di proporre ricorso per Cassazione anche personalmente, con l’art. 99 c.p.p., comma 1, laddove attribuisce anche al difensore "le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo"; e con l’art. 165 c.p.p., comma 3, laddove prevede che "l’imputato latitante o evaso è rappresentato a ogni effetto dal difensore". 4. Tuttavia i criteri per una corretta interpretazione delle norme in discussione vanno piuttosto rinvenuti nell’art. 571 c.p.p., comma 1, che detta la disciplina generale delle impugnazioni dell’imputato.

Infatti questa norma prevede innanzitutto che l’imputato può proporre personalmente, o a mezzo di un procuratore speciale nominato a norma dell’art. 122 c.p.p., qualsiasi impugnazione: sicchè quella dell’art. 613 c.p.p., comma 1 è solo una specifica applicazione del principio generale. Riconosce poi al difensore dell’imputato la legittimazione a proporre impugnazione indipendentemente da uno specifico mandato del suo assistito: sicchè si ritiene in dottrina e in giurisprudenza che, quando propone l’impugnazione, il difensore esercita un potere proprio, in qualche misura autonomo dal potere d’impugnazione dell’imputato, tanto che il suo potere si aggiunge a quello del difensore eventualmente nominato dall’imputato allo specifico fine dell’impugnazione (Cass., sez. un., 11 novembre 1994, Nicoletti, m. 199399, Cass., sez. 1^, 30 giugno 1999, Lonoce, m. 214034, Cass., sez. 1^, 21 maggio 2002, Porcaro, m. 222462, Cass., sez. 5^, 2 maggio 2003, Piretto, m. 224554).

Si può allora certamente affermare innanzitutto che il potere del difensore di proporre impugnazione in favore dell’imputato trova nell’art. 571 c.p.p., comma 3 una fonte di legittimazione ben più forte e comunque autonoma rispetto a quella che potrebbe derivargli sia dall’art. 99 c.p.p., comma 1, che esclude dall’attribuzione al difensore i diritti riservati personalmente all’imputato, sia dallo stesso art. 165 c.p.p., comma 3, che tratta il difensore come mero rappresentante dell’imputato. Si deve anzi ritenere che la natura appunto personale del diritto di impugnazione riconosciuto all’imputato dall’art. 571 c.p.p., comma 1 lo escluda dall’ambito dei diritti esercitabili dal difensore a norma dell’art. 99 c.p.p., comma 1. Sicchè non propone certamente un’interpretazione corretta di questa norma la giurisprudenza, quando, argomentando dall’art. 99 c.p.p., comma 1 appunto, afferma che "il difensore d’ufficio dell’imputato irreperibile, anche quando non sia iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 613 c.p.p., è legittimato a proporre ricorso per Cassazione, dato che al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato (a meno che non siano personalmente riservati a quest’ultimo), e che lo stesso imputato, quando irreperibile, è rappresentato appunto dal difensore" (Cass., sez. 1^, 29 aprile 2005, Shala, m. 231839).

Infatti l’art. 159 c.p.p., comma 2, che riconosce al difensore la rappresentanza dell’imputato irreperibile, non deroga affatto all’art. 99 c.p.p., comma 1; e non attribuisce quindi al difensore le facoltà e i diritti che la legge serva personalmente all’imputato.

Anche l’imputato contumace (art. 420 quater c.p.p.), l’imputato assente (art. 420 quinquies c.p.p.) o l’imputato allontanato dall’udienza (art. 475 c.p.p.) è rappresentato dal suo difensore, ma non ai fini della richiesta di giudizio abbreviato (art. 438 c.p.p., comma 3) o della richiesta di patteggiamento (art. 446 c.p.p.), che possono essere proposte solo personalmente dall’imputato. Deve pertanto ritenersi che lo stesso art. 165 c.p.p., comma 3, laddove riconosce al difensore il potere di rappresentare "a ogni effetto" l’imputato evaso o latitante, rimanga nei limiti segnati dall’art. 99 c.p.p., comma 1, che esclude espressamente dall’ambito della rappresentanza i diritti riservati personalmente all’imputato.

Nè ha rilievo il fatto che la giurisprudenza di questa Corte riconosca al difensore dell’imputato latitante il potere di proporre la richiesta di ricusazione anche senza lo specifico mandato di regola ritenuto necessario (Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, Battaggia, m. 199805, Cass., sez. 1^, 16 febbraio 2001, Mendico, m. 219017), perchè l’art. 38 c.p.p., comma 4 non riserva personalmente all’imputato il potere di ricusazione, ma ne prevede l’esercizio anche a mezzo del difensore; ed è l’interpretazione giurisprudenziale a esigere un apposito mandato, anche se non necessariamente nelle forme della procura speciale.

Non può pertanto essere condiviso l’orientamento prevalente di questa Corte, per cui l’ampio potere di rappresentanza riconosciuto dall’art. 165 c.p.p., comma 3 al difensore dell’imputato evaso o latitante include anche il potere di rappresentarlo ai fini dell’esercizio del potere personale di impugnazione.

Del resto, secondo questa impostazione, il difensore dell’imputato evaso o latitante avrebbe un doppio titolo di legittimazione a impugnare: l’uno autonomo, ex art. 571 c.p.p., comma 3, l’altro di rappresentanza, ex art. 165 c.p.p., comma 3. Ed è di per sè arduo spiegare perchè la legge avrebbe dovuto prevedere l’esercizio a titolo di rappresentanza di un potere già pienamente esercitabile dallo stesso soggetto per un autonomo titolo di legittimazione.

Tuttavia, quand’anche volesse riconoscersi l’ammissibilità di una tale superflua duplicazione, non potrebbe non rilevarsi che il potere di rappresentanza viene riconosciuto al difensore in quanto professionalmente abilitato.

Quando vigeva la distinzione tra albo dei procuratori legali e albo degli avvocati, nessuno avrebbe ipotizzato che il procuratore legale potesse essere abilitato a proporre appello fuori distretto sol perchè difensore di un imputato evaso o latitante. E analogamente non è ragionevole ritenere che il difensore dell’imputato evaso o latitante possa proporre ricorso per Cassazione anche se non abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori.

Deve pertanto ritenersi che anche il difensore dell’imputato evaso o latitante è privo di legittimazione a proporre ricorso per cassazione se non iscritto nell’albo speciale della Corte. Nè questa conclusione incide sul diritto di difesa del latitante, che, come tutti gli altri imputati, può proporre ricorso personalmente o a mezzo di procuratore speciale e può nominare un difensore di fiducia. Mentre l’esigenza di tutelare l’imputato rimasto ignaro del procedimento a suo carico non riguarda specificamente il latitante, ma anche il contumace o l’irreperibile, come lo stesso imputato destinatario di una notifica a mani del difensore a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4. E a queste esigenze di tutela, che sono in realtà estranee al tema in discussione, ha corrisposto la recente riforma dell’art. 175 c.p.p., con l’estensione della remissione in termini. Va anzi rilevato al riguardo che il riconoscimento al difensore di un potere di impugnazione in rappresentanza dell’imputato latitante rischierebbe di vanificare, consumandolo, proprio il diritto di remissione in termine, che all’imputato attribuisce una garanzia ben più pregnante. Per quanto attiene poi alla particolare posizione del difensore d’ufficio del latitante, l’eventuale sua mancanza di legittimazione a ricorrere per cassazione potrà certamente giustificare una sua richiesta di sostituzione a norma degli art. 97 c.p.p., comma 5 e art. 30 disp. att. c.p.p..

Il ricorso proposto dall’avv. S? G? per M.R. va quindi dichiarato inammissibile, perchè proposto da difensore non abilitato.

5. I ricorsi di L.G. e M.D. sono inammissibili per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propongono censure manifestamente infondate e attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata:

a) quanto a L.G., con riferimento ai suoi precedenti penali e a talune intercettazioni dalle quali risulta che la droga trovata in possesso di G.M. e G.L. all’atto del loro arresto era destinata al ricorrente, identificato anche in ragione dell’intestazione al padre del telefono cellulare utilizzato, implausibile essendo la tardiva denuncia di smarrimento ed essendo indiscusso che, "ai fini della consumazione del delitto di acquisto e di cessione di sostanza stupefacente (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73), non occorre che la droga sia materialmente consegnata all’acquirente, ma è sufficiente che si sia formato il consenso delle "parti" sulla quantità e qualità della sostanza e sul prezzo della stessa" (Cass., sez. 5^, 9 dicembre 2003, Bajtrami, m. 229230, Cass., sez. 6^, 17 aprile 2003, Visciglia, m. 226653);

b) quanto a M.D., con riferimento a un incidente stradale e a un controllo nell’aeroporto di Reggio Calabria che permisero di identificarlo con il ? coinvolto nel traffico di stupefacenti e legato all’organizzazione criminale per il tramite dei capi clan Pangallo, con i quali si accompagnava abitualmente, tanto da essere considerato da costoro come possibile destinatario di uno stipendio mensile, nel presupposto della indiscussa legittimità della motivazione per relationem dei decreti autorizzativi delle intercettazioni. Infatti, quando il giudizio penale richiede, come nel caso in discussione, l’interpretazione di fatti comunicativi, le regole del linguaggio e della comunicazione costituiscono il criterio di inferenza (premessa maggiore) che, muovendo dal testo della comunicazione o comunque dalla struttura del messaggio (premessa minore), consente di pervenire alla conclusione interpretativa. Sicchè le valutazioni del giudice del merito sono censurabili solo quando si fondino su criteri interpretativi inaccettabili (difetto della giustificazione esterna) ovvero applichino scorrettamente tali criteri (difetto della giustificazione interna). La stessa individuazione del contesto comunicativo che contribuisce a definire il significato di un documento o di un’affermazione o di un qualsiasi messaggio, invero, comporta una selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti, che è propria del giudizio di merito. E, quando l’interpretazione del significato di un testo o di un qualsiasi fatto comunicativo è sorretta da un’adeguata motivazione, essa è incensurabile nel giudizio di legittimità (Cass., sez. 5^, 11 febbraio 1997, La Rocca, m. 207862). Sicchè non è censurabile nel caso in esame l’interpretazione che i giudici del merito offrono delle conversazioni intercettate, perchè, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. 5^, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. 2^, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955).

La pena irrogata in concreto ai ricorrenti è compatibile anche con i limiti edittali della sopravvenuta L. n. 49 del 2006, sicchè non si pongono questioni di legittimità, tantomeno rilevabili d’ufficio.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento e ciascuno al versamento della somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *