Cass. pen., sez. I 06-07-2006 (20-06-2006), n. 23571 GIUDIZIO – ISTRUZIONE DIBATTIMENTALE – CASSAZIONE – SENTENZA – ANNULLAMENTO – Impossibilità di ripetizione dell’atto – Questione di legittimità costituzionale – Manifesta infondatezza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

La Corte d’assise d’appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa dalla Corte d’assise del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, condannava O. A. alla pena dell’ergastolo per l’omicidio pluriaggravato di A. Antonio ed il tentato omicidio di Q. T., oltre ai correlati delitti in materia di armi.

Il giudizio di appello si era instaurato su impugnazione del P.M. contro la sentenza di assoluzione del giudice di primo grado che, aveva equiparato l’irreperibilità di Q., vittima e teste oculare, alla volontaria sottrazione dall’obbligo di testimoniare, con la conseguente inutilizzabilità della sua deposizione ai sensi dell’art. 526, comma 1 bis, c.p.p., aveva sottovalutato gli esiti delle intercettazioni ambientali nelle quali il teste aveva dichiarato di saper riconoscere gli aggressori aveva valutato erroneamente l’alibi fornito all’imputato dai suoi familiari e amici, senza tener conto delle contraddizioni e incongruenza in cui erano incorsi.

La Corte territoriale riteneva che l’appello dovesse essere accolto, rilevando che l’agguato doveva essere inquadrato in una lotta di camorra tra le famiglie facenti capo a B. e T., a cui apparteneva la vittima A., e che le modalità con cui si era svolto erano state dettagliatamente descritte da una delle vittime sopravvissute. Q., nell’immediatezza del fatto, aveva riferito che gli autori dell’agguato erano tre, due dei quali armati di mitra, che l’A. era deceduto subito mentre lui era rimasto colpito ad una spalla e si era rifugiato nel pianale dell’auto. Aveva tentato di porsi in salvo uscendo dall’auto, ma qui era stato raggiunto dall’aggressore che gli aveva sparato contro alcuni colpi di pistola e, ritenendo di averlo ucciso, si era allontanato. Aveva dichiarato di saper riconoscere gli autori ed in particolare quello che gli aveva sparato, avendolo visto da una distanza molto ravvicinata, tanto che ne forniva una descrizione dettagliata anche in relazione al giubbotto indossato. Rendeva queste dichiarazioni una prima volta nell’immediatezza del fatto alla P.G., quando ancora si trovava in ospedale, e poi al P.M. Gli accertamenti di P.G. sul luogo dell’agguato avevano pienamente confermato la ricostruzione effettuata dal teste. Q. aveva prima effettuato una individuazione fotografica e poi una individuazione di persona ed aveva riconosciuto in O. colui che gli aveva sparato. La individuazione era avvenuta a circa 20 giorni dal fatto ed il teste la aveva eseguita con particolare cura, chiedendo di poter vedere le persone messe a raffronto con un cappello di lana in testa e col giubbotto che aveva preventivamente riconosciuto come quello indossato dall’autore del fatto, e aveva individuato in tutte e tre le occasioni O. come la persona che gli aveva sparato.

Veniva sottoposto al programma di protezione dei testimoni, ma prima che si potesse procedere all’espletamento dell’incidente probatorio, richiesto dalla difesa, si rendeva irreperibile e non poteva più essere escusso neppure in dibattimento. La Corte di primo grado aveva acquisito i verbali delle dichiarazioni rese dal teste ai sensi dell’art. 512 c.p.p., ma poi le aveva dichiarate inutilizzabili ai sensi dell’art. 526, comma 1 bis, c.p.p., ritenendo che il teste, rendendosi irreperibile, si era volontariamente sottratto all’esame. La Corte di primo grado aveva poi effettuato una prova di resistenza rilevando che gli altri elementi di prova non erano idonei a provare l’accusa, in quanto le intercettazioni ambientali provavano solo che il teste poteva riconoscere gli autori ed inoltre la prova d’alibi fornita dai familiari di O. aveva una consistenza notevole. La Corte territoriale riteneva invece che le dichiarazioni rese da Q. potessero essere utilizzate in quanto la situazione corrispondeva a quella prevista dall’art. 111 Cost., nel senso che si poteva derogare al principio del contraddittorio " per accertata impossibilità di natura oggettiva" di darvi corso. Nella fattispecie sussistevano le condizioni previste dall’art. 512 c.p.p. per poter acquisire le dichiarazioni del teste, sussistendo, sia l’impossibilità di procedere all’esame, sia l’imprevedibilità dei fatti o delle circostanze che avevano determinato tale impossibilità. L’impossibilità risultava documentata dagli accertamenti di P.G. dai quali emergeva che Q., recatosi in Albania per ferie, non faceva più ritorno in Italia e comunicava al servizio di protezione che non intendeva tornare, per cui veniva dichiarato irreperibile, non essendo stato possibile rintracciarlo. L’imprevedibilità era un giudizio da svolgersi ex ante, con riguardo al momento in cui gli atti erano stati assunti, e a quell’epoca nulla faceva presumere un allontanamento definitivo del teste che era sposato con una cittadina italiana, risiedeva in Italia, da molto tempo, dove svolgeva attività lavorativa, aveva dato ampia disponibilità alla collaborazione, tanto che era stato inserito in un programma di protezione, ed aveva manifestato tale volontà nel tempo, nonostante che i familiari avessero fatto di tutto per farlo desistere. In relazione alla successiva certa irreperibilità, comunicata dallo stesso teste all’ufficio che gestiva il suo programma di protezione, mentre la Corte di primo grado aveva affermato che doveva essere interpretata come volontà di sottrarsi all’esame dibattimentale, cosa che rendeva inutilizzabili le sue dichiarazioni, invece la Corte d’appello aveva ritenuto che all’irreperibilità non potesse presuntivamente attribuirsi il significato della volontaria scelta di sottrarsi all’esame, così come affermato dalle Sezioni Unite della Corte con la decisione n. 36747 del 24 ottobre 2003, ric. Torcasio. Secondo la Corte territoriale presupposto indefettibile, perchè potesse desumersi la volontà di sottrarsi all’esame in contraddittorio, era l’avvenuta citazione del teste in dibattimento, mentre nel caso in concreto ciò non era mai avvenuto in quanto il teste aveva dichiarato la sua intenzione di non tornare in Italia il 5 ottobre 2002, quando ancora nessuna citazione gli era giunta né per l’incidente probatorio né per il dibattimento. Né era equiparabile a tale certezza la circostanza che il teste nel sottoporsi al programma di protezione era stato avvertito che aveva l’onere di rispondere davanti ad un giudice delle sue dichiarazioni, non potendo tale evenienza che essere considerata come probabile ma non certa.

Tanto premesso la Corte aveva sottoposto a vaglio critico le dichiarazioni del teste ed aveva valutato in primo luogo la sua attendibilità, ritenendola certa in quanto egli era stato testimone oculare, aveva visto gli aggressori, da uno di questi era stato poi direttamente avvicinato fuori dall’auto e lo aveva visto in faccia da breve distanza. La Corte esaminava anche l’unica incongruenza relativa all’altezza dell’imputato e spiegava che l’idea che ne aveva avuto il teste, cioè di una persona più alta di circa 10 cm. rispetto alla realtà, era dovuta alla posizione da cui lo aveva visto e cioè dal basso verso l’alto.

Una volta accertata l’attendibilità del teste, la Corte sottoponeva ad esame l’alibi fornito dall’imputato consistente nelle dichiarazioni dei familiari che avevano riferito della sua presenza, durante il tempo in cui si era verificato l’agguato, prima presso l’abitazione della fidanzata e poi in un bar a vedere una partita. Rilevava in primo luogo che sia l’imputato che la fidanzata avevano dato versioni identiche, con la particolarità che ambedue le avevano modificate dando le stesse motivazioni. In un primo momento avevano detto che la ragazza era stata a casa del fidanzato tutto il giorno, che costui la aveva raggiunta alle ore 19,30 ed era rimasto con lei fino alle 20,15, per poi andare al bar, poi ambedue avevano riferito che la ragazza era stata tutto il giorno dalla sorella e il fidanzato la aveva raggiunta alle 19,30, la aveva accompagnata a casa, dove erano rimasti insieme fino alle 20.15, ora in cui l’imputato si era recato al bar. Tale anomalia, consistita nel fatto che i due avevano prima riferito la stessa versione e poi l’avevano mutata all’unisono rappresentando di essere incorsi in un errore di giorno, veniva ritenuta sintomo di non genuinità, a nulla rilevando che i due non avevano potuto parlarsi direttamente, ben potendo l’incongruenza essere stata rilevata dallo stesso GIP nel corso dell’interrogatorio. La motivazione dell’errore veniva ritenuta incongrua perchè secondo i due era dovuta al fatto che si erano confusi non ricordando che il giorno 17 febbraio, domenica, era il compleanno della nipotina, il che aveva modificato i loro piani anche nel giorno successivo il 18 febbraio, in quanto la fidanzata invece che stare tutto il giorno a casa di O., si era recata dalla sorella perchè la bambina aveva la febbre. Rilevava la sentenza che tale giustificazione di un errore banale era del tutto incongrua, soprattutto se commessa da ambedue i soggetti che, invece, avrebbero dovuto ancorare il ricordo del giorno 18 febbraio alla circostanza che in quel giorno, nel piccolo paese da loro abitato, si erano verificati ben due agguati di mafia, circostanza neppure menzionata.

La Corte riteneva poi che sussistesse l’aggravante della premeditazione in quanto l’omicidio era stato preceduto da appostamenti per verificare come sorprendere la vittima, mentre si trovava in auto, e viste le modalità di esecuzione nella forma dell’agguato, con predisposizione dei mezzi e delle armi e pertanto riteneva di condannarlo alla pena dell’ergastolo.

Contro la decisione presentava ricorso l’imputato deducendo con due distinti atti

– violazione di norme processuali in relazione all’art. 526, comma 1 bis, c.p.p. nella parte in cui ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni di Q. senza valutare che la sua manifestata intenzione di non rientrare in Italia escludeva in radice che l’impossibilità del contraddittorio fosse di natura oggettiva, così come richiesto, invece, dall’art. 111 Cost.; inoltre ha ritenuto imprevedibile il fatto, che rendeva possibile la ripetizione dell’atto con una motivazione inadeguata perchè legata solo a talune circostanze esistenti al momento in cui l’atto era stato assunto, senza correlarle coi risultati delle intercettazioni ambientali che, coeve al tempo in cui erano state assunte le sue dichiarazioni, già dimostravano il suo intento di andarsene dall’Italia; dall’esito di tali intercettazioni ambientali emergeva, infatti, che i parenti stavano preparando i documenti per il reimpatrio in Albania e stavano preparando il viaggio, per cui l’allontanamento del teste non risultava solo probabile ma certo, ed il P.M. aveva l’obbligo di procedere subito con incidente probatorio; mancava, ancora, nella sentenza, l’accertamento rigoroso della irreperibilità del teste, affidata solo a una nota della P.G. dalla quale risultava che il teste nel corso di una comunicazione telefonica col servizio di protezione aveva detto che non sarebbe rientrato in Italia senza lasciare un recapito, e ad accertamenti svolti solo sul territorio italiano senza estensione in quello albanese, nonché a una nota prodotta in udienza dalla quale risultava che il teste era stato visto in Italia anche in tempi successivi a tale dichiarazione di intenti; è evidente che l’irreperibilità è sempre una scelta volontaria, mentre ciò che il giudice doveva indagare era la motivazione di tale scelta, che nel caso specifico non poteva che essere rivolta alla volontà di non testimoniare; infine l’irreperibilità, come scelta volontaria, antecedente alla citazione quale testimone per il dibattimento doveva aver rilievo ai fini dell’art. 526, comma 1 bis, c.p.p. contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, perchè altrimenti il comportamento del testimone che si rende irreperibile allo scopo di non essere ascoltato in dibattimento andrebbe esente da censure solo perchè non ancora citato;

– violazione di legge in relazione all’art. 361 c.p.p. per aver utilizzato ai fini della decisione un atto di polizia giudiziaria quale l’individuazione di persona, priva invece di valenza probatoria in dibattimento, così come riconosciuto dalla sentenza n. 265 del 1991 della Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità;

– difetto e contraddittorietà di motivazione in relazione alle discrasie tra le dichiarazioni del teste sulle caratteristiche fisiche degli imputati e sulla descrizione del giubbotto indossato da colui che gli aveva sparato e la realtà, e quindi, omessa valutazione sulla sua attendibilità, soprattutto in relazione alla diversa valutazione delle sue dichiarazioni in relazione all’altro imputato;

– manifesta illogicità della motivazione sulla appartenenza o meno dell’agguato alla logica della guerra di camorra in atto tra due clan e sulla fondatezza dell’alibi;

– violazione di legge in relazione all’art. 507 c.p.p., in quanto, se la Corte aveva dubbi sulla fondatezza dell’alibi, aveva l’obbligo di svolgere ulteriori accertamenti e non poteva disattenderlo con una motivazione illogica e generica;

– violazione dell’art. 530, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non si era ritenuto di prosciogliere l’imputato, essendo la prova insufficiente e contraddittoria;

– erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta aggravante della premeditazione, mancando ogni prova in relazione alla fase ideativa ed organizzativa dell’agguato, nonché in relazione alla causale e pertanto non potendo apprezzarsi né l’elemento cronologico del decorso del tempo tra l’ideazione e l’esecuzione, né l’elemento psicologico della persistenza del proposito criminoso illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, L. 20/2/2006 n. 46 in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che debba dichiararsi l’inammissibilità dell’appello del P.M. anche nei procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione.

La Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato.

La sentenza di secondo grado è pervenuta ad una decisione di condanna, ribaltando la decisione di primo grado, attraverso una diversa interpretazione delle norme processuali e della giurisprudenza di legittimità sul punto della irreperibilità del teste oculare, nonché vittima del tentato omicidio. Non vi è alcun dubbio che le norme di riferimento da esaminare nel caso concreto sono l’art. 111 Cost. e gli artt. 512 e 526, comma 1 bis, c.p.p. da coordinarsi nel modo che segue. L’art. 111, comma 5, Cost. consente di derogare al principio del contraddittorio qualora vi sia una accertata oggettiva impossibilità di formazione della prova, dove l’uso dell’espressione oggettiva esclude in radice ogni possibilità di valutare scelte soggettive di sottrarsi alla formazione della prova. Alla luce di tale principio costituzionale, deve essere interpretato l’art. 512 c.p.p., norma che disciplina la possibilità di dare lettura in dibattimento di dichiarazioni rese durante le indagini preliminari per sopravvenuta impossibilità di ripetizione e che afferma che tale possibilità esiste solo quando per fatti e circostanze imprevedibili ne sia divenuta impossibile la ripetizione. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’imprevedibilità deve essere accertata con un giudizio ex ante e cioè con riferimento alla situazione esistente al momento in cui l’atto era stato assunto (Sez. VI 10 febbraio 2004 n. 21088, Rv. 228873); ha altresì chiarito che tale giudizio è esclusivamente di merito anche se il giudice ha il compito di fornire sul punto una motivazione adeguata e conforme alle regole della logica (Sez. IV 12 novembre 2003 n. 16859, Rv. 227900). Orbene, fermandosi a questo primo momento, deve rilevarsi che, nel caso di specie, il teste oculare ha reso ampie dichiarazioni ed ha manifestato in più occasioni la volontà di collaborare, tanto che era stato inserito in un programma di protezione dei testimoni, e tale intento si era protratto per almeno 6 mesi a partire dal fatto. Nel corso di intercettazioni ambientali, eseguite nella camera di ospedale in cui era stato ricoverato nell’immediatezza dell’agguato, era emerso che, mentre i parenti del teste avevano cercato in tutti i modi di dissuaderlo dal collaborare, per gli evidenti rischi personali, luì aveva deciso in senso opposto ed aveva perseverato nel tempo. Sul punto la diversa interpretazione dei contenuti delle conversazioni intercettate, offerta dalla difesa, è non solo inaccettabile trattandosi di questione di merito, ma anche incongrua, in quanto le frasi riportate riguardano solo le dichiarazioni dei parenti e non parole attribuibili al teste che anzi, nonostante tali inviti, aveva continuato a collaborare ed aveva accettato di essere inserito nel programma di protezione. Pertanto, al momento in cui le dichiarazioni erano state raccolte, appariva certamente imprevedibile la scomparsa del testimone e non solo per l’ampia disponibilità offerta dal teste, ma anche perchè esistevano tutta una serie di circostanze obiettive di conforto di tale rappresentazione e cioè il fatto che il teste era sposato con una cittadina italiana, viveva in Italia da tempo ed era dedito a stabile lavoro. La motivazione, quindi, offerta dal giudice d’appello sul giudizio di imprevedibilità appare congrua e logica ed anche la sentenza di primo grado, che pure giunge a decisione opposta sull’utilizzabilità, non contesta tale giudizio, tanto è vero che acquisisce le dichiarazioni del teste ai sensi dell’art. 512 c.p.p..

Tanto premesso, il giudizio di imprevedibilità della ripetizione deve essere ora correlato, come in una fattispecie a formazione progressiva, all’art. 526, comma 1 bis, c.p.p. che, in attuazione del principio costituzionale sopra ricordato, stabilisce i criteri di utilizzabilità delle prove, acquisite o acquisibili legittimamente, ai fini della decisione; in tema di dichiarazioni la norma stabilisce che la responsabilità di un imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni di chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore. In sostanza, se anche la prova è stata legittimamente acquisita agli atti ai sensi dell’art. 512 c.p.p., per impossibilità della ripetizione per circostanze imprevedibili, per essere pienamente utilizzata deve anche essere accertato che non vi sia la prova che il testimone si sia volontariamente sottratto all’esame delle parti.

Orbene nel caso in questione il teste, recatosi in Albania in ferie nell’ottobre del 2002, a distanza di circa sei mesi dal fatto, aveva telefonato al servizio di protezione, riferendo che non aveva intenzione di tornare in Italia e di fatto si era reso irreperibile, non dando recapiti dove potesse essere raggiunto. Da tale manifestazione di volontà, se può dedursi che l’irreperibilità è stata un atto volontario, non può ricavarsi il motivo della stessa, sia perchè non enunciato dal teste sia perchè la manifestazione di volontà è intervenuta prima ed indipendentemente dalla citazione in dibattimento (Sez. VI 8 gennaio 2003 n. 8384, Rv. 223731), L’irreperibilità, infatti, è di per sé una situazione neutra, nel senso che le sue cause potrebbero essere le più diverse, affatto indipendenti dal processo nel cui ambito assuma rilievo, anche se è plausibile che in presenza di indici sintomatici possa essere ricondotta ad una libera e volontaria scelta di sottrarsi all’esame delle parti. Per effettuare questa riconduzione, assume certamente valore sintomatico l’avvenuta citazione del teste per l’udienza, nel senso che l’irreperibilità sopravvenuta a tale notizia può certamente assumere il connotato della libera scelta di sottrarsi all’esame. Invece l’irreperibilità sopravvenuta, non correlata a elementi che denotino una manifestazione di volontà esplicita in relazione all’obbligo di testimoniare e non correlata ad una citazione a giudizio, non può essere considerata presuntivamente come volontaria scelta di sottrarsi all’esame dell’imputato ed anzi integra un’ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio (S.U. 28 maggio 2003 n. 36747, Rv. 225470; Sez. IV 10 dicembre 2005 n. 5821, Rv. 231303). Ne consegue che desumere, come hanno fatto sia il giudice di primo grado che la difesa, che il motivo dell’irreperibilità di Q. fosse proprio la volontà di sottrarsi all’esame, sulla base della manifestazione di volontà espressa dal teste nella telefonata col responsabile del servizio di protezione, è un’illazione non consentita, perchè i motivi della sua volontà di non rientrare in Italia sono sconosciuti e certamente non possono essere correlati ad una citazione per rendere testimonianza.

Il giudice di appello ritiene che fosse plausibile che il teste volesse ricongiungersi stabilmente alla propria famiglia, il giudice di primo grado e i difensori dell’imputato sostengono, invece, che volesse scomparire per non deporre e richiamano a conforto il contenuto delle intercettazioni ambientali, riguardanti conversazioni avvenute sei mesi prima in ospedale; potrebbe, invero, anche ritenersi che non avesse più alcuna intenzione di essere sottoposto al tipo di vita che l’inserimento in un programma di protezione comporta e deporrebbero in tal senso sia la circostanza che lo comunica proprio al responsabile del servizio sia che successivamente è stato rivisto in Italia. Tutte queste considerazioni, pur essendo logiche, sono illazioni non consentite, visto che non vi sono elementi di fatto che consentano di vestire l’irreperibilità di Q. del connotato della libera scelta di sottrarsi all’esame. Pertanto le sue dichiarazioni sono state legittimamente acquisite e sono state legittimamente utilizzate dal giudice di appello.

Il motivo di ricorso riguardante l’illegittima utilizzazione della individuazione di persona e di cose effettuata dal teste ai fini della decisione è infondato in quanto per costante giurisprudenza di legittimità tali atti debbono essere considerati come manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rientrano nel più generale concetto di dichiarazione (Sez. II 28 ottobre 2003 n. 47871, Rv. 227079; Sez. VI 18 aprile 2003 n. 25721, Rv. 225574) e, pertanto, possono essere legittimamente utilizzate al pari delle altre dichiarazioni rese da Q..

Tutti gli altri motivi di ricorso attengono al merito delle valutazioni e richiedono di effettuare una rivalutazione degli elementi di fatto posti alla base della decisione.

La sentenza di appello ha dato una lunga spiegazione del perchè è giunta ad emettere una decisione opposta a quella del giudice di primo grado e quindi è ingeneroso ritenere sul punto l’esistenza di una mancanza di motivazione. Ha poi dato una congrua e specifica giustificazione del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del teste, valutando le condizioni e la posizione da cui ha percepito e visto i fatti, esaminando le incongruenze riscontrate nella descrizione di O., senza omettere di valutare la diversa decisione a cui era pervenuta in relazione all’altro imputato, individuato dal teste solo in fotografia. Ha, quindi, con motivazione logica, spiegato che la vittima aveva visto da angoli visuali diversi il suo aggressore e l’autista, per cui era ben possibile che mentre il primo gli era rimasto in mente con tutti i connotati del volto, il secondo era stato oggetto di una visione più sfumata.

Infine sulla prova d’alibi ha chiarito che l’inattendibilità dello stesso deriva proprio dalla incongruenza della spiegazione data alla modifica della versione. La decisione di primo grado sul punto non aveva offerto alcuna motivazione e non aveva rilevato neppure che vi era stata una modifica dell’alibi.

Effettivamente l’imputato nel corso dell’interrogatorio reso in sede di convalida del fermo l’8 marzo 2002 aveva riferito che la fidanzata era stata a casa sua tutto il giorno, che lui l’aveva raggiunta alle 19,00, era rimasto con lei fino alle 19,45, poi la aveva accompagnata a casa e si era recato al bar per vedere la partita. Nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2004 aveva invece cambiato versione sullo svolgimento degli eventi del giorno 18 febbraio, dicendo che la fidanzata era stata tutto il giorno a casa della sorella, perchè la nipote aveva la febbre e che alle 19,30 la era andata a prendere per portarla a casa e poi era andato a vedere la partita al bar. La spiegazione fornita per il cambio di versione è anomala nel senso che la prima versione sarebbe stata rilasciata sulla base di quello che normalmente accadeva nei giorni feriali, mentre la seconda versione era fondata su un elementi di fatto che consentano di vestire l’irreperibilità di Q. del connotato della libera scelta di sottrarsi all’esame.

Le sue dichiarazioni sono state legittimamente acquisite e utilizzate dal giudice di appello, anche sotto il profilo della avvenuta regolare citazione in dibattimento, dovendosi rilevare che l’irreperibilità è stata accertata utilizzando tutti gli elementi a disposizione e tenuto conto delle condizioni in cui sono avvenute le ricerche. Infatti non ci si è limitati ad utilizzare la nota del servizio di protezione che comunicava la mancanza di un recapito in cui rintracciare Q. in Albania, ma si è dato ingresso anche a ricerche tramite Interpol, il cui esito è stato negativo in quanto, coi dati a disposizione, non era possibile identificarlo. Ritenere, come ha fatto il ricorrente, che tali ricerche siano state incomplete, significa introdurre il sospetto che non si sia fatto quanto necessario per rintracciare il teste, illazione non consentita e comunque smentita proprio dall’ulteriore nota dei Carabinieri del luogo di residenza in Italia, dalla quale emergeva che era stata successivamente individuata la sua presenza in Terracina, prova del fatto che le forze di polizia erano state allertate per verificare la possibilità di rintracciarlo.

Il motivo di ricorso riguardante l’illegittima utilizzazione della individuazione di persona e di cose effettuata dal teste ai fini della decisione è infondato in quanto per costante giurisprudenza di legittimità tali atti debbono essere considerati come manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rientrano nel più generale concetto di dichiarazione (Sez. II 28 ottobre 2003 n. 47871, Rv. 227079; Sez. VI 18 aprile 2003 n. 25721, Rv. 225574) e, pertanto, possono essere legittimamente utilizzate al pari delle altre dichiarazioni rese da Q..

Tutti gli altri motivi di ricorso attengono al merito delle valutazioni e richiedono di effettuare una rivalutazione degli elementi di fatto posti alla base della decisione.

La sentenza di appello ha dato una lunga spiegazione del perchè è giunta ad emettere una decisione opposta a quella del giudice di primo grado e quindi è ingeneroso ritenere sul punto l’esistenza di una mancanza di motivazione. Ha poi dato una congrua e specifica giustificazione del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del teste, valutando le condizioni e la posizione da cui ha percepito e visto i fatti, esaminando le incongruenze riscontrate nella descrizione di O., senza omettere di valutare la diversa decisione a cui era pervenuta in relazione all’altro imputato, individuato dal teste solo in fotografia. Ha, quindi, con motivazione logica, spiegato che la vittima aveva visto da angoli visuali diversi il suo aggressore e l’autista, per cui era ben possibile che mentre il primo gli era rimasto in mente con tutti i connotati del volto, il secondo era stato oggetto di una visione più sfumata.

Infine sulla prova d’alibi ha chiarito che l’inattendibilità dello stesso deriva proprio dalla incongruenza della spiegazione data alla modifica della versione. La decisione di primo grado sul punto non aveva offerto alcuna motivazione e non aveva rilevato neppure che vi era stata una modifica dell’alibi.

Effettivamente l’imputato nel corso dell’interrogatorio reso in sede di convalida del fermo l’8 marzo 2002 aveva riferito che la fidanzata era stata a casa sua tutto il giorno, che lui l’aveva raggiunta alle 19,00, era rimasto con lei fino alle 19,45, poi la aveva accompagnata a casa e si era recato al bar per vedere la partita. Nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2004 aveva invece cambiato versione sullo svolgimento degli eventi del giorno 18 febbraio, dicendo che la fidanzata era stata tutto il giorno a casa della sorella, perchè la nipote aveva la febbre e che alle 19,30 la era andata a prendere per portarla a casa e poi era andato a vedere la partita al bar. La spiegazione fornita per il cambio di versione è anomala nel senso che la prima versione sarebbe stata rilasciata sulla base di quello che normalmente accadeva nei giorni feriali, mentre la seconda versione era fondata su un controllo del calendario e dopo aver fatto mente locale alla circostanza che il 17 febbraio era stato il compleanno della nipote e che il giorno dopo, cioè il 18, la fidanzata era stata tutto il giorno a casa della sorella. Aggiungeva che tale cambiamento di versione lo aveva riferita al Gip, già nel corso dell’interrogatorio dell’11 marzo 2002. Certamente l’anomalia più grande si rinviene nel fatto che lo stesso 8 marzo 2002 la fidanzata, sentita in separata sede, aveva dato la prima identica versione dell’imputato e poi l’aveva modificata ricordando il fatto della nipote. Da ciò la Corte territoriale desumeva la non genuinità certamente della prima versione che pareva concordata a tavolino tra i due, che ben avevano potuto parlarsi prima del fermo avvenuta a circa 20 giorni dal fatto e poi la non genuinità della seconda versione fornita dalla fidanzata, a cui si era accodato l’imputato pochi giorni dopo, giustificata in modo incongruo sulla base del ricordo che il giorno 17 era stato il compleanno della nipote, circostanza che avrebbe dovuto essere ben presente ai due indipendentemente da un controllo del calendario. La circostanza che i due non si erano potuti parlare, non escludeva certo che una qualche informativa fosse giunta al detenuto e comunque la mancanza di contatti non era un dato accertabile con assoluta certezza. Altro sintomo della non genuinità della versione si rinviene anche nelle dichiarazioni del teste con cui l’imputato avrebbe visto la partita al bar; costui aveva riferito che l’imputato, quando si era allontanato alle 19,00, aveva detto che doveva recarsi ad un compleanno, probabilmente facendo confusione su ciò che gli era stato detto di riferire.

Nel motivo di ricorso si sostiene che la Corte territoriale, nel momento in cui aveva ritenuto inattendibile l’alibi, avrebbe dovuto d’ufficio procedere ad altri accertamenti, ma la tesi non è fondata nè il ricorrente aveva chiesto una rinnovazione del dibattimento sul punto. Nel corso dell’udienza, infine, la difesa dell’imputato sollevava eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, legge n. 46 del 2006 in relazione agli artt. 3 e 111 Cost. nella parte in cui non era prevista la sua applicazione anche ai processi in corso pendenti in Cassazione. L’eccezione veniva sollevata in termini assolutamente generici, così come emerge anche dal testo depositato in udienza. Comunque rileva il collegio che essa appare manifestamente infondata. La norma infatti è una disposizione transitoria e prevede che l’inammissibilità dell’appello del P.M. contro una sentenza di assoluzione di primo grado, possa essere pronunciata anche nel caso in cui venga annullata dalla Corte di Cassazione una sentenza di condanna che abbia riformato una sentenza di primo grado di assoluzione. Trattasi di una disposizione a favore dell’imputato che prevede l’applicazione della norma processuale, prevista dal comma 2 dell’art. 10, in deroga al principio del tempus regit actum, quando la fase processuale di riferimento si è già consumata, ma proprio per questo non è suscettibile di estensione analogica ad altre fattispecie. La norma transitoria ha il suo fondamento nella circostanza che il principio della inammissibilità dell’appello del P.M. contro le sentenze di assoluzione possa essere applicato, in deroga al principio tempus regit actum, per quelle situazioni che regrediscono alla fase dell’impugnazione in conseguenza di un annullamento con rinvio, ma sarebbe contrario ai principi generali in materia di norme processuali, pretendere che possa essere esteso anche ai casi, come questo in esame, in cui la fase dell’impugnazione del P.M. si è consumata e la conseguente decisione del giudice di appello di condanna non deve essere annullata. Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M..

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi a cura della cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto Penitenziario ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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