Cass. pen., sez. III 04-07-2006 (11-05-2006), n. 22924 IMPUGNAZIONI – SOGGETTI DEL DIRITTO DI IMPUGNAZIONE – PARTE CIVILE – Sentenza di proscioglimento – Abolizione del potere del P.M. di appello delle sentenze di proscioglimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 9 aprile 2003, il Tribunale di Brindisi aveva assolto, perché il fatto non sussiste, F. S. e L. E. dai reati di cui a:

a) artt. 81, cpv. 110 e 609-bis c.p., per avere, in concorso tra di loro, in Ceglie Messapico e Martina Franca fino al 15 luglio 1996, costretto M. T. D? N? a subire atti sessuali, tra cui quello della congiunzione carnale nonché

b) artt. 56, 110 e 629 c.p., per avere posto in essere, fino al 5 ottobre 1996, atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere M. T. D? N? a congiungersi nuovamente con gli stessi, mediante la minaccia di divulgare cassette pornografiche registrate in occasione degli episodi indicati al capo a). Con ciò tentando di procurarsi ingiusto profitto consistente in un vantaggio sessuale.

Il Tribunale aveva infine dichiarato non doversi procedere nei confronti di L. E. in ordine al reato di cui all’art. 523 c.p. nonché per il reato di cui agli artt. 56,81, 521 e 519 c.p. contestatogli come commesso in danno di R. F. il 15 gennaio 1996, perché l’azione penale non poteva essere esercitata per difetto di tempestiva querela.

Le dichiarazioni accusatorie della D? N? erano state nel senso che, conoscendo e frequentando da qualche tempo lo S. e la sua compagnia di ragazzi, aveva una sera d’estate accettato di recarsi con lui in una villa di campagna, ove avrebbero dovuto incontrarsi anche con il resto della compagnia. Qui giunti e dopo che lo S. aveva chiuso la porta a chiave, si era rivelata all’interno della villa anche la presenza dell’E.. Entrambi i giovani l’avevano quindi costretta a salire in una camera da letto situata al primo piano e qui, nonostante le sue resistenze e con la minaccia che se non fosse sottostata al loro volere non l’avrebbero più ricondotta a casa, avevano abusato di lei a turno, intimandole poi il silenzio, altrimenti "gliela avrebbero fatta pagare".

Nei giorni e nei mesi successivi i due l’avrebbero continuamente cercata, le avrebbero telefonato, sarebbero andati a trovarla sul luogo di lavoro per proporle di uscire e di fronte alle resistenze di lei, timorosa di nuovi episodi di violenza sessuale, avevano minacciato di diffondere il contenuto di una cassetta che a loro dire riprendeva i rapporti sessuali con loro intercorsi. D? fronte ad un’ultima velata minaccia, rappresentata da una telefonata notturna anonima alla madre, in cui l’interlocutore diceva di stare visionando una cassetta pornografica con le prestazioni sessuali della figlia, la ragazza di era decisa a sporgere la denuncia-querela che aveva originato il processo.

Contro la sentenza del Tribunale aveva proposto appello, relativamente alle statuizioni civili, la sola parte civile costituita M. T. D? N? e in tale sede la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 12 gennaio 2005, in riforma di quella di primo grado, ha riconosciuto lo S. e l’E. responsabili agli effetti civili dei fatti loro contestati in danno della D? N?, dopo aver qualificato quello di cui al capo b) come tentata violenza sessuale, condannandoli in solido al risarcimento dei danni alla parte civile, liquidati equitativamente in ? 50.000,00.

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione lo S. e l’E., con due ricorsi, redatti per ambedue da ognuno dei due difensori comuni.

Col primo ricorso, l’avv. M. G. del Foro di Roma deduce, ai sensi dell’art. 606 comma 1°, lett. e) c.p.p., la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, la quale, con l’adagiarsi illogicamente e aprioristicamente sulle argomentazioni dell’atto di appello della parte civile, avrebbe così omesso di evidenziare l’iter logico posto alla base del proprio apparato argomentativo nonché di saggiare criticamente la tenuta logica delle censure mosse in tale atto d’appello alla sentenza di primo grado.

Altra censura viene poi formulata con riguardo all’art. 192 c.p.p., sostanzialmente per avere la Corte territoriale conferito piena attendibilità alle dichiarazioni della parte civile, pur contrastate da più elementi probatori, senza valutarle con estremo rigore e sottoporle a dettagliata verifica. In proposito la difesa fa particolare riferimento alle dichiarazioni, che la parte lesa avrebbe reso in versioni tra di loro diverse, in ordine alle modalità del suo denudamento prima del preteso stupro.

Con l’altro ricorso, l’avv. M. M. deduce la violazione di cui all’art. 606, comma 1°, lett. e) c.p.p. anche in relazione al principio di cui all’art. 192 c.p.p., per travisamento della prova.

Al riguardo, censura il fatto che la Corte abbia utilizzato, come indizio del fatto che l’E. avrebbe nella vicenda assunto un ruolo dominante e come circostanza decisiva sul piano della ritenuta colpevolezza dello stesso, il materiale pretesamente pornografico forse anche minorile che era stato viceversa dal GIP espunto dal processo in quanto ritenuto irrilevante e non corpo di reato.

E ancora, la Corte utilizza per sostenere l’attendibilità del narrato della parte lesa il fatto che, secondo il teste ispettore Serio, la stessa il 22 ottobre 1996, poco prima della denuncia, avrebbe ricevuto dal cellulare dell’E. ben 14 telefonate in ore diverse della giornata, che avrebbero costituito la molla della denuncia, laddove si tratterebbe solo di quattordici tentativi di un’unica telefonata.

L’episodio delle foto e dei filmati pretesi pornografici (oltre a televisori, videoregistratori, etc.) viene citato dalla sentenza anche per sostenere che la parte lesa era effettivamente spaventata delle minacce (di diffondere la video-cassetta inesistente) come del resto rilevato dall’ispettore di polizia che ricevette la denuncia. Anche questa utilizzazione di materiale espunto dal giudizio sarebbe inammissibile.

La Corte avrebbe ritenuto non attendibili due testi presenti alla prima pretesa violenza sulla base di considerazioni non pertinenti, in quanto derivanti da scelte difensive e trascurato altre testimonianze che provavano che tra le parti dopo la pretesa violenza erano proseguiti rapporti cordiali.

Infine la Corte non aveva creduto in maniera apodittica alla tesi difensiva dell’E., secondo la quale l’esistenza della cassetta che ritraeva i rapporti sessuali degli imputati con la ragazza era stata inventata per frenare le minacce di vendetta formulate da questa a fronte del rifiuto opposto dagli imputati alla sua richiesta di un prestito al proprio datore di lavoro che si trovava in difficoltà e pertanto non pagava gli stipendi. Al riguardo, la Corte territoriale aveva affermato che non si poteva aver timore delle minacce della ragazzina diciottenne, ma non aveva tenuto conto che nella famiglia della stessa c’erano persone temibili e con precedenti penali, come del resto anche la D? Giovanni per emissione di assegni a vuoto.

Con motivi aggiunti depositati il 21 novembre 2005 per l’udienza del 7 dicembre, poi rinviata, l’avv. M. ribadisce le proprie deduzioni difensive relativamente alla illegittima utilizzazione delle foto, videocassette etc. espunte a suo tempo dal processo e restituite dal G.I.P. all’avente diritto, come argomento importante a sostegno della attendibilità della parte civile e per dedurne altresì la credibilità della stessa per il timore che la cassetta fosse vera, che l’aveva indotta alla denuncia.

Con ulteriore memoria difensiva del 22 novembre 2005, sottoscritta da ambedue i difensori degli imputati, si censura:

– l’inversione dell’ordine logico del ragionamento fatto dalla Corte territoriale: dal tentativo di seconda violenza sessuale alla prima violenza sessuale, per dedurre dal secondo episodio in ordine di tempo, quasi come inevitabile conseguenza logica, la prova della veridicità del primo, con una valutazione parcellizzata, parziale e a scaglioni delle dichiarazioni della presunta parte lesa;

– mancata completa considerazione delle contraddizioni nelle dichiarazioni della D? N? evidenziate dal Tribunale in primo grado:

a) le due e addirittura tre versioni fornite dalla parte lesa, in denuncia-querela e sei anni dopo in dibattimento relativamente alle modalità con cui era stata spogliata nel corso dell’episodio della presunta violenza sessuale;

b) il comportamento della donna il giorno successivo alla pretesa violenza che appare incompatibile con questa: la D? N? ha infatti narrato che il giorno dopo i due pretesi violentatori erano andati a trovarla presso la lavanderia dove lei lavorava, per chiederle di uscire di nuovo con loro e lei invece di cacciarli, riferisce di aver detto "non solo mi hai trattato così ieri sera, hai pure la faccia di venire stamattina", per poi dire loro, per liberarsene di fronte al proprio datore i lavoro, che si sarebbero sentiti per telefono. Ed anche il comportamento dei due sarebbe incomprensibile se successivo ad un episodio di violenza.

Anche nei due mesi successivi i tre si erano telefonati spesso, si davano appuntamenti, si trattavano amichevolmente.

c) la denuncia-querela era stata irragionevolmente tardiva (22 settembre 1996, due mesi dopo il primo fatto, ma prima che il secondo continuasse fino al 5 ottobre), e la Corte aveva, in maniera contraddittoria giustificato il ritardo col timore della minaccia relativa alle cassette e motivato la presentazione della denuncia con lo stesso fatto; inoltre, la ragazza aveva dichiarato di essersi recata a fare la denuncia il giorno dopo che la madre aveva ricevuto una telefonata sulla video cassetta, telefonata che invece era stata intercettata sette giorni dopo, il 29 settembre;

d) sarebbe illogico ritenere che la cassetta documentasse una violenza, volta che loro minacciavano di divulgarla;

e) il Tribunale aveva rilevato il carattere amichevole e paritario di due telefonate, il 27 e il 29 settembre 1996; mentre la Corte territoriale ha ritenuto l’esistenza di un ricatto, fondando su elementi di riscontro inconsistenti o travisati, quali l’ispettore al quale lei fece la denuncia che dice che era spaventata (sarebbe una semplice impressione e poi lo spavento può derivare da altro), le numerose telefonate dei due nei giorni precedenti e l’E. il 22 (già diversamente spiegate alla luce dei tabulati telefonici), la diversa spiegazione delle due telefonate ritenuta apoditticamente e immaginando toni e ritrosie sulla base della semplice lettura delle carte da parte della Corte, etc.;

f) sulla base del credito di riscontro dato da tali circostanze inconsistenti o travisate alla credibilità delle dichiarazioni della pretesa parte lesa era poi derivata la conseguenza della credibilità anche delle dichiarazioni relative al primo episodio, per la inattendibilità delle dichiarazioni degli imputati, per il contenuto della telefonata di una amica il 4 ottobre al proprio fidanzato in cui dice di una sua amica che ha subito violenza e che la sera prima piangeva, desumendo il ruolo dominante dell’E. dal preteso possesso di foto pornografiche e filmini.

Con ulteriore memoria depositata il 24 aprile 2006, ai sensi dell’art. 10, quinto comma della legge 20 febbraio 2006 n. 46, gli imputati ribadiscono, a mezzo dei loro difensori, che non è stata considerata dalla Corte territoriale una prova ritenuta assolutamente decisiva, rappresentata dalle dichiarazioni dei testimoni diversi da quelli presenti al primo episodio che hanno riferito di avere personalmente assistito ad incontri tra le parti successivi agli episodi di presunta violenza, costatando rapporti assolutamente sereni.

All’udienza dell’ 11 maggio 2006, le parti hanno concluso come indicato in epigrafe e la difesa dei ricorrenti ha altresì eccepito la sopravvenuta inammissibilità dell’appello a suo tempo proposto dalla parte civile ai soli effetti civili avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, ai sensi delle modifiche apportate al codice di rito dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, dichiarate applicabili anche ai processi in corso dall’art. 10 della medesima legge.

Motivi della decisione

1 – Va preliminarmente affrontata la questione della pretesa sopravvenuta inammissibilità dell’appello della parte civile (ai soli effetti civili) avverso le sentenze di proscioglimento di primo grado proposta in udienza dalla difesa dei ricorrenti.

L’eccezione parte dal presupposto che nel nuovo regime delle impugnazioni introdotto con la legge n. 46 di quest’anno non vi sia più spazio per una tale forma di impugnazione della parte civile.

Ed invero, nel testo del disegno di legge di iniziativa del deputato Pecorella in un primo tempo approvato dal Parlamento, l’esclusione per il pubblico ministero del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, stabilito dal nuovo testo dell’art. 593 c.p.p. introdotto dall’art. 1 del disegno di legge, si ripercuoteva altresì sulla posizione della parte civile per effetto della norma di cui all’art. 576 c.p.p., che manteneva fermo in materia di impugnazioni il principio secondo cui questa poteva proporre atti siffatti "con il mezzo previsto per il pubblico ministero".

L’esclusione era in qualche modo bilanciata dalla previsione di un nuovo testo dell’art. 652 c.p.p., secondo il quale "la sentenza penale di assoluzione non ha effetto nei giudizi civili, salvo che la parte civile si sia costituita nel processo penale ed abbia presentato le conclusioni", potendo quindi la parte civile ritirarsi dal processo penale, a differenza da quanto stabilito nel testo originario della norma, fino ad un momento prima delle conclusioni, per non pregiudicare i propri interessi patrimoniali.

A seguito dei rilievi formulati anche in ordine alla possibile tutela in sede di processo penale degli interessi civili della vittima del reato dal Presidente della Repubblica nel messaggio motivato al Parlamento ai sensi dell’art. 74, comma l °, Cost., le norme citate sono state poi modificate: è stata soppressa la proposta di modifica dell’art. 652 c.p.p. mentre è stata incisa la disposizione generale in materia di impugnazioni della parte civile di cui all’art. 576 c.p.p., con l’espungere dalla norma il collegamento del relativo potere con quello del P.M. quanto ai mezzi e ai casi di impugnazione.

Da quanto ripercorso risulta chiarissimo l’intento del legislatore, espresso senza riserve anche nei lavori parlamentari, di conservare il potere di impugnazione della parte civile in tutte le sue possibili espressioni (salvo quello previsto dall’art. 577 c.p.p, norma che è stata infatti abrogata dall’art. 9 della legge n. 46), emancipandolo dalla dipendenza da quello del P.M. che si andava limitando.

Ma l’effettiva realizzazione, in concreto, di un tale risultato incontra una obiezione, rappresentata dalla considerazione della regola generale di tipicità che regge la materia delle impugnazioni.

L’art. 568, comma 1° c.p.p. stabilisce infatti che "La legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati" .

Orbene, poiché l’ art. 576 c.p.p. non specifica il mezzo di impugnazione consentito alla parte civile e il nuovo art. 593 c.p.p. in materia di appello non si riferisce (come del resto il vecchio testo che andava in quel quadro normativo integrato col precedente testo dell’art. 576 c.p.p.) alla parte civile, ciò sembrerebbe costituire ostacolo alla pur dichiarata volontà dei promotori della legge di mantenere il potere di appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento.

Si è già rilevato che la scansione della vicenda che ha portato alla approvazione del testo definitivo della legge costituisce un primo sostegno, sul piano interpretativo, al superamento dell’ostacolo, da relegare a mera imperfezione nella tecnica legislativa.

Nella tesi opposta, del resto, la posizione della parte civile nel processo penale, a seguito della caduta della proposta di modificare l’art. 652 c.p.p., sarebbe addirittura peggiorata rispetto alla versione del disegno di legge approvata una prima volta dal Parlamento, contro i rilievi del Presidente della Repubblica e contro le dichiarazioni esplicite in sede di lavori parlamentari di adeguarvisi.

Ancora, sul piano di una interpretazione costituzionalmente adeguata, è stata rilevata in dottrina la irragionevolezza di una scelta legislativa che da un lato ammette per il danneggiato "la possibilità di diventare parte civile pur nel contesto di scelte che, in un modo o nell’altro, possono ritornargli a svantaggio" e dall’altro gli preclude radicalmente la possibilità di appello delle sentenze di proscioglimento con possibili effetti sul livello minimo di garanzia della pretesa civilistica per danni derivanti da reato.

Infine, appare notevolmente significativa l’assenza di una disciplina transitoria con riguardo agli appelli avverso le sentenze di proscioglimento già presentati dalla parte civile al momento dell’entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006 . 46 (9 marzo 2006).

In presenza dell’affermazione di cui all’art. 10, primo comma della legge n. 46, relativamente alla immediata applicazione delle nuove regole anche ai processi in corso, il silenzio serbato sull’argomento, a differenza di quanto previsto in maniera articolata nei commi successivi del medesimo articolo per gli appelli del P.M. appare infatti indicativo della esclusione della parte civile dalle norme che limitano il potere di proporre appello, concernenti solo il P.M..

Del resto, l’opposta tesi realizzerebbe il maggior vulnus al principio di ragionevolezza (maggiore di quello pur rilevato da altra dottrina come possibile effetto della interpretazione qui sostenuta e relativo alla incongruenza di un possibile accesso alla Cassazione differenziato tra P.M. e parte civile, nei tempi e nei possibili esiti), dovendosi allora ritenere che, in assenza di una disciplina transitoria, l’immediata applicazione anche ai processi in corso della nuova disciplina comporterebbe per la parte civile la pronuncia secca di inammissibilità dell’appello proposto, in qualunque fase si trovi il relativo procedimento, senza alcuna possibilità di riformulare l’impugnazione in termini di ricorso per cassazione.

Concludendo, alla luce del percorso di formazione della novella processuale indicata, delle intenzioni manifestate dal relatore del relativo disegno di legge e nei lavori parlamentari, del testo introdotto nella norma generale in materia di impugnazioni della parte civile e di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni, anche transitorie, della nuova legge relative alla posizione della parte civile nel processo penale, deve ritenersi che i poteri d’appello di quest’ultima avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado siano rimasti con la riforma immutati (salvo quanto già rilevato con riguardo all’abrogazione dell’art. 577 c.p.p., che peraltro riguarda ogni mezzo di impugnazione).

Infine, va rilevato che, anche a volere interpretare la nuova normativa come escludente il potere della parte civile di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, il principio tempus regit actum non potrebbe mai consentire il rilievo della inammissibilità dell’atto di appello della parte civile in una fase in cui il relativo procedimento ha già condotto, al momento dell’entrata in vigore della legge, ad una pronuncia su di esso e quindi, in ipotesi, nel grado ulteriore avanti alla Corte di Cassazione, tale conseguenza essendo viceversa espressione di una regola di retroattività della legge processuale, che nel nostro Ordinamento deve essere specificatamente stabilita e adeguatamente articolata, il che non si è verificato con la legge citata.

Ne consegue che la sentenza d’appello qui impugnata con ricorso per cassazione mantiene comunque la sua piena efficacia nel presente grado di giudizio, anche dopo la entrata in vigore della legge n. 46/06.

2 – Nel merito il ricorso è infondato.

Il Tribunale aveva ritenuto le dichiarazioni accusatorie della D? N? poco plausibili su taluni aspetti e contraddittorie nella versione resa in sede di denuncia e poi in quella in sede di esame dibattimentale.

I giudici avevano anzitutto rilevato una importante discrasia tra la denuncia e le dichiarazioni della parte civile in dibattimento relativamente alle modalità con cui sarebbe stata denudata in occasione dell’episodio di denunciata violenza sessuale (nel primo caso la D? N? aveva detto di indossare una camicetta chiusa nel davanti da bottoni, che gli imputati le avrebbero sfilato di dosso senza lacerarla; nella seconda occasione aveva parlato di un abito che le era stato strappato di dosso dai due).

Il Tribunale aveva poi rilevato il carattere insolito del comportamento della ragazza nei giorni successivi alla pretesa violenza, che avrebbe visto ripetutamente i due, li avrebbe ripetutamente sentiti per telefono, li avrebbe frequentati normalmente.

E ancora, il Tribunale aveva ritenuto illogiche le dichiarazioni della ragazza a giustificazione della mancata tempestiva denuncia, da un canto legandola alle minacce ricevute e dall’altro, dichiarando di aver mutato idea a causa delle loro pressanti e minatorie richieste relativamente alla divulgazione di una cassetta che avrebbe ritratto i rapporti sessuali tra i tre.

Del resto, se davvero violenza vi fosse stata nella notte del 15 luglio 1996, il Tribunale si chiede perché mai la ragazza avrebbe dovuto temere la divulgazione della cassetta che accusava i suoi violentatori.

Infine, il Tribunale aveva rilevato, soprattutto dal contenuto di due telefonate captate il 27 e il 29 settembre 1996 (la prima tra la D? N? e la madre e la seconda tra l’E. e la ragazza), l’esistenza tra le parti di rapporti "serenì, "amichevoli", "paritari" che avrebbero reso non credibili le dichiarazioni accusatorie.

La Corte d’appello ribalta, sia pure ai soli effetti civili, il contenuto dell’accertamento compiuto dai giudici di primo grado, attraverso una diversa valutazione delle emergenze dibattimentali, integrata dalla considerazione di fatti e circostanze che il Tribunale aveva trascurato o comunque sottovalutato, nel loro complesso concorrenti nel senso di dare pieno credito alle dichiarazioni accusatorie della D? N?, già di per sé ritenute attendibili, in ragione della loro coerenza interna.

La motivazione di tale sentenza non merita le accuse di incompletezza, genericità e manifesta illogicità che le sono mosse dai ricorrenti, in quanto analizza tutti gli elementi emersi dal giudizio, valutandone la rilevanza e la significatività con considerazioni razionali, all’interno di un impianto argomentativo corretto e senza salti logici o incongruenze manifeste.

I ricorrenti censurano anzitutto il fatto che l’analisi della sentenza muova dall’esame della seconda imputazione per poi trarre dalla pretesa prova di questa il convincimento della veridicità della prima accusa.

Nella discussione orale è sembrato che la censura assumesse un aspetto più penetrante, attraverso la denuncia del fatto che l’esame della seconda accusa da parte della Corte avrebbe espressamente portato la stessa a prescindere del tutto dall’esistenza della prima, per cui l’utilizzazione dei relativi risultati a conferma di questa sarebbe priva di una base concreta.

Il che non corrisponderebbe a verità, in quanto la sentenza accantona momentaneamente solo l’argomento del modo, violento o meno, che aveva caratterizzato i rapporti sessuali tra i tre, la cui esistenza ritiene acquisita, anche alla stregua delle dichiarazioni degli imputati, che avevano riferito di un rapporto consenziente.

Per il resto, l’alterazione della sequenza di analisi dei due episodi rispetto a quanto operato dalla sentenza di primo grado, non appare in alcun modo irragionevole nella ricostruzione dei significati possibili del materiale probatorio raccolto e non modifica in alcun modo le regole processuali relative alla necessità del sostegno probatorio per ogni ipotesi accusatoria e alla attribuzione del relativo onere.

Scontata l’esistenza di rapporti sessuali intervenuti tra le parti e la prospettazione da parte degli imputati alla ragazza, per esercitare una qualche pressione sulla stessa, dell’esistenza di una cassetta che li ritraeva, ammessa dagli stessi imputati e in qualche modo risultante dalle intercettazioni, la Corte ha indagato circa il ruolo di tale prospettazione nella vicenda, analizzando le diverse versioni delle parti.

Al riguardo, ha rilevato in maniera congrua che la versione degli imputati, i quali hanno comunque negato che la cassetta esistesse realmente, appariva incerta e incongrua: essi, infatti in un primo momento avevano parlato di uno scherzo per poi ripiegare sulla versione della pressione esercitata sulla ragazza per evitare ritorsioni da parte sua a fronte di un loro rifiuto di un prestito al datore di lavoro della D? N?, in difficoltà anche nel pagare gli stipendi della stessa.

Versione, quest’ultima, ritenuta dalla Corte territoriale, in maniera assolutamente ragionevole, fantasiosa (anche alla luce della diversa età delle parti: la ragazza aveva all’epoca diciotto anni e, ad es., l’E. trentacinque ed era sottoufficiale di marina) e senza riscontri concreti e pertanto rimasta a livello puramente labiale.

La Corte ne ha ragionevolmente tratto un ulteriore elemento di convincimento della attendibilità al riguardo delle dichiarazioni della parte lesa che aveva riferito di forti e reiterate pressioni dei due per ottenere con lei nuovi incontri di intuibile natura carnale, sfociate poi nella minaccia di divulgare il contenuto di una cassetta che avrebbe ritratto i loro rapporti sessuali.

L’ipotesi è stata altresì corroborata nelle argomentazioni della sentenza impugnata dall’episodio della telefonata notturna alla madre della ragazza del 27 settembre, nel corso della quale una voce avrebbe affermato "stiamo vedendo la cassetta pornografica di sua figlia M.", subito ritenuta dalla parte offesa, nella successiva captata telefonata con la madre, come proveniente da uno dei due. Il fatto che la ragazza avesse addotto un fatto simile come scatenante la sua decisione della denuncia-querela del 22 settembre precedente è stato poi ragionevolmente spiegato dalla Corte con la possibilità che le telefonate alla madre sull’argomento siano state più di una.

In tale quadro di riferimento, si colloca poi con assoluta consequenzialità logica anche la ragionevole lettura data dalla Corte territoriale del contenuto (riportato a pag. 7 della sentenza di primo grado e richiamato da quella di appello) della telefonata intercettata il 29 settembre tra la ragazza e l’E., in termini di freddezza e ritrosia della prima di fronte alle richieste dell’altro di uscire, ma insieme di ansia di fronte alla dichiarazione dell’altro di essere in possesso della cassetta (pretesamene sottratta all’amico), che lei cerca di ottenere ammorbidendo i toni colloquiali.

Infine l’obiezione di ordine logico, formulata dalla difesa degli imputati e dalla sentenza di primo grado, secondo la quale se la cassetta avesse ripreso effettivamente la violenza, la ragazza non avrebbe avuto nulla da temere è stata efficacemente privata di significati decisivi con l’argomento non irragionevolmente che la ragazza non poteva essere certa di cosa era stato filmato, la ripresa potendo essere intervenuta dopo una prima resistenza, in una fase di abbandono della D? N? e comunque riprese filmate in condizioni abbastanza precarie non sempre esprimendo con assoluta precisione il significato di quanto è stato filmato.

Sulla base di tali elementi e di altri di minore o minima rilevanza (come lo spavento notato dall’ispettore Bruni che raccolse la denuncia querela della ragazza o il rinvenimento di televisori e videoregistratori nella stanza dove erano avvenuti i rapporti sessuali, che avrebbero confermato il convincimento della ragazza relativamente alla effettiva esistenza del filmato), la Corte conclude nel senso della piena attendibilità della D? N? con riguardo alle dichiarazioni accusatorie relative all’episodio delle minacce esercitate sulla ragazza per ottenere da lei nuove prestazioni sessuali.

Non corrisponde peraltro pienamente a quanto effettivamente argomentato dalla Corte territoriale la denuncia formulata dai ricorrenti secondo cui questa avrebbe utilizzato tali risultati probatori in ordine al secondo episodio come elemento decisivo per radicare il proprio convincimento in ordine alla veridicità del primo episodio.

Superato lo schermo di ragazza spregiudicata dedita all’inganno e all’intimidazione accreditato dagli imputati nelle difesa dalla seconda delle due accuse, la Corte ha infatti poi correttamente analizzato l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della parte lesa anche quanto al primo episodio, rilevandone l’intrinseca coerenza logica, come del resto in ordine a tutto il comportamento tenuto dalla ragazza, contestando ad esempio che fosse censurabile come contraddittoria l’iniziale decisione di mantenere il silenzio su quanto accaduto per poi ripensarci di fronte alla persecuzione attuata dai due.

Ribaltando poi l’obiezione formulata dalla difesa degli imputati secondo cui se effettivamente la cassetta avesse rappresentato la violenza, la minaccia di mostrarla non avrebbe senso la Corte territoriale ha formulato la considerazione altrettanto logica che se la ricorrente fosse stata sicura che la cassetta rappresentava rapporti sessuali normali non avrebbe denunciato la violenza, neppure due mesi dopo dal suo verificarsi.

La Corte ha quindi tratto ulteriori elementi di convincimento in ordine alla veridicità di quanto denunciato dalla ragazza, con riferimento al primo episodio, dalla inconsistenza dell’alibi così come rappresentato dai ricorrenti, e sostenuto da due testimoni che avevano dichiarato in dibattimento di avere assistito ai rapporti sessuali consenzienti tra i tre e che neppure il Tribunale ha ritenuto credibili, per non essere stati tali testimoni indicati subito dai due imputati, ristretti in situazione di custodia cautelare in carcere e per non avere in maniera assolutamente irragionevole essi stessi scagionato da subito i due amici, evitando loro il carcere e un lungo processo, rinviando le loro rivelazioni su quanto pretesamene visto di ben sei anni, alla sede dibattimentale.

Ulteriore riscontro di quanto realmente avvenuto, la Corte ha poi tratto dalla intercettazione di una conversazione telefonica nel corso della quale una amica della D? N? chiedeva consiglio al proprio fidanzato poliziotto su come doveva comportarsi una ragazza di sua conoscenza che le aveva riferito piangendo di essere stata violentata da due ragazzi i quali le avevano "fatto una cassetta" e la volevano "sputtanare". Non irragionevolmente, la Corte territoriale ha ritenuto tale conversazione autentica e indicativa di fatti realmente accaduti, per la drammaticità della conversazione e in ragione del fatto che nessuno dei personaggi coinvolti dal colloquio era a conoscenza che erano in corso intercettazioni telefoniche autorizzate dalla A.G.

L’unico dato problematico rilevato dalla Corte dalla prospettazione difensiva dei ricorrenti nonché dalla sentenza di primo grado sul piano della attendibilità delle dichiarazioni della parte lesa in ordine all’episodio della violenza è rappresentato dalle modalità con le quali la ragazza aveva dichiarato di essere stata spogliata (sfilandole la tunichetta leggera che indossava nella versione resa in sede di denuncia e strappandole il vestito di dosso in quella resa sei anni dopo in sede dibattimentale).

Nella valutazione integrata dei vari dati emersi dall’istruttoria, la Corte ha ragionevolmente svalutato la rilevanza della discrasia, ritenuta, tutt’al più, l’enfatizzazione di un particolare e tenuta poi ferma dalla ragazza nel timore che un passo indietro indebolisse la sua credibilità.

Infine anche la "stranezza" del comportamento tenuto dalle parti nella narrativa della parte lesa, secondo la quale i due sarebbero andati a trovarla nel luogo di lavoro il giorno dopo la violenza per farle nuove proposte è ragionevolmente spiegata dalla Corte che parla anche di rinnovo di minacce di tacere oltre che di proposte e che comunque, come già i giudici di primo grado, riferisce anche, nel narrato, di una reazione risentita della ragazza con riguardo a rapporti non desiderati del giorno precedente, poi attenuata dalla presenza del datore di lavoro.

Restano da esaminare, tra le censure mosse alla sentenza dai ricorrenti, quella della inutilizzabilità del materiale pornografico, videoregistratori, etc. sequestrati nell’abitazione dell’E. e dissequestrato dal G.I.P. e quindi espunto dal processo nonché quella oggetto dell’ultima memoria relativa alla mancata considerazione da parte della Corte di una prova decisiva rappresentata dalle dichiarazioni dei testimoni che avrebbero affermato che i rapporti tra i ricorrenti e la parte lesa sarebbero proseguiti normalmente dopo la pretesa violenza.

Quanto alla prima, va rilevato il fatto che il GIP abbia escluso che costituissero corpi di reato o cose attinenti al reato oggetto del presente procedimento foto, filmini, videoregistratori dell’E., quindi dissequestrandoli, appare del tutto logico e corretto, dopo che nessuno di essi riprendeva rapporti sessuali o foto della parte lesa; ma ciò non esclude che l’esistenza di tale materiale e attrezzatura sia stata correttamente accertata in giudizio (deposizione dell’isp. G.) e quindi utilizzata dalla Corte territoriale, del resto come mera circostanza di contorno in ordine al ritenuto (anche da altre fatti) ruolo prevalente giocato nella vicenda dall’E. nonché in ordine alla credibilità delle dichiarazioni della parte lesa, quanto al timore della ragazza di essere stata effettivamente ripresa.

Quanto infine all’altra censura, va ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. S.U. 11 aprile 2006 n. 17050) per prova decisiva deve intendersi quella idonea a superare contrasti emergenti dall’acquisito quadro probatorio oppure atta di per sé ad inficiare l’efficacia dimostrativa di altra di sicuro segno contrario e non anche quella abbisognevole di comparazione con gli elementi già acquisiti per un confronto dialettico al fine di una ulteriore valutazione di quanto oggetto del giudizio.

Sulla base di tale premessa, il Collegio valuta il fatto indicato come provato in giudizio come addirittura irrilevante nell’economia della motivazione della sentenza, che dà atto dell’oscillare del comportamento della ragazza tra la fuga di fronte alle reiterate ossessive richieste di incontro dei due, per il timore di nuovi rapporti sessuali non graditi e la costrizione a mostrarsi gentile e colloquiale per ottenere la restituzione della cassetta che avrebbe mostrato i rapporti sessuali tra lei e i ricorrenti.

3 – Concludendo, alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché a rimborsare alla parte civile le spese del grado, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e di quelle di parte civile, che liquida per il presente grado di giudizio in complessivi E 3.000,00 oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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