Cass. civ., sez. I 12-04-2006, n. 8520 APPALTO – ROVINA E DIFETTI DI COSE IMMOBILI – Responsabilità dell’appaltatore

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Il Comune di Murisengo (infra, Comune), con citazione notificata il 30 dicembre 1993 e l’11 gennaio 1994, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Casale Monferrato l’impresa A. G. (di seguito, Impresa), in persona del titolare, ed il geom. B.V..

Il Comune esponeva che nella notte tra il 3 ed il 4 marzo 1993 era crollato, lungo un fronte di circa 30 metri, il muro di cemento armato eretto a sostegno della scarpata retrostante la locale scuola media, realizzata dalla succitata impresa in virtù di contratto di appalto stipulato con esso istante.

Il Comune deduceva che i tecnici incaricati di verificare le cause del crollo avevano riscontrato che era stato provocato dalla negligente realizzazione delle sezioni resistenti del muro, "ideato e disegnato in modo da contrastare la spinta della terra a monte, a seguito dello sbancamento avvenuto per far luogo alla costruzione dell’edificio scolastico, ma eseguito in modo da fare solo bella mostra di sè e poter essere contabilizzato" e precisava che in data 9 giugno 1993 aveva contestato ai convenuti questo accertamento.

L’attore chiedeva che il Tribunale annullasse per dolo gli atti di collaudo e chiedeva la condanna di entrambi i convenuti al risarcimento dei "danni, da quantificarsi in corso di causa. Il Comune chiedeva altresì che fosse disposto accertamento tecnico preventivo e la relativa istanza era accolta, allo scopo di accertare lo stato, le caratteristiche e la consistenza del muro, nonchè la natura del crollo.

Entrambi i convenuti si costituivano in giudizio eccependo la prescrizione dell’azione proposta dal Comune e deducendo, nel merito, l’infondatezza della domanda.

Il Tribunale adito, con sentenza del 5 febbraio 2001, non definitivamente pronunciando sulla domanda, dichiarava prescritta l’azione proposta nei confronti dell’Impresa, compensando tra le parti le spese del giudizio, e, con separata ordinanza, disponeva la prosecuzione del giudizio sulla domanda proposta nei confronti di B.V.. In particolare, il Tribunale riteneva prescritta l’azione di risarcimento danni proposta ai sensi dell’art. 1669 c.c., nei confronti dell’Impresa, rigettando la domanda di annullamento per dolo dell’atto di collaudo, in considerazione della sua natura non negoziale.

2.- Avverso la sentenza proponeva appello il Comune, chiedendo, in sua riforma, l’accoglimento della domanda.

L’impresa si costituiva nel giudizio di secondo grado, contestando la fondatezza del gravame.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza dell’11 giugno 2002, rigettava l’appello, condannando il Comune a pagare le spese del secondo grado.

Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che "il Comune di Murisengo ha esercitato, in primo grado, azione di "annullamento per dolo degli atti di collaudo" ed azione di "risarcimento dei danni in virtù delle garanzie di cui agli artt. 1667 e 1669 cod. civ." ed osservava che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c. ha natura extracontrattuale. Tuttavia, la sentenza impugnata escludeva che ciò comportasse l’applicabilità dell’art. 2947 c.c., in quanto la tesi così sostenuta dall’appellante "si fonda sul presupposto che "l’attore ha dedotto in giudizio una fattispecie di responsabilità extracontrattuale (penalmente sanzionata e sanzionabile) e il giudice di primo grado non ne ha tratto le dovute conseguenze in tema di calcolo della prescrizione", avendo affermato che la prescrizione decorre dal compimento dei lavori; laddove – si sostiene – "poichè il fatto costituisce reato, essa (?) decorre dal giorno del crollo e per il combinato disposto degli artt. 449 e 157 cod. pen., n. 3 si compie nel 2003".

Secondo il giudice d’appello, "della configurazione del fatto dedotto in giudizio (crollo del muro) come reato (?) mai ha parlato il Comune di Murisengo nella citazione introduttiva e nelle sue ulteriori difese di primo grado", avendo formulato questa prospettazione soltanto nella comparsa conclusionale.

La Corte territoriale osservava che la sentenza penale, prodotta soltanto in secondo grado, aveva condannato l’appellato per avere "cagionato il crollo di parte del muro di sostegno di conglomerato di C.A. circostante la scuola media (?), crollo assolutamente prevedibile (?) e sul quale nessun effetto, causa o concausa impreveduta o imprevedibile ha giocato", precisando che l’impresa aveva rifiutato il contraddittorio "sulla pretesa risarcitoria fondata sulla prospettazione penalistica del fatto, eccependo la inammissibilità del mutamento della causa petendi irritualmente operata in tal modo dal Comune in questo grado".

La sentenza impugnata negava che il "passaggio da una domanda ex art. 1669 (?) a una domanda ex art. 2043 c.c." comportasse una mera emendatici libelli, escludendo altresì la proposizione da parte del Comune di una domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c., pur ritenendola proponibile "quando non ricorrono le condizioni previste dall’art. 1669 cod. civ., come appunto il termine decennale tra l’esecuzione dell’opera e la sua rovina".

In particolare, la Corte torinese osservava: a) "è sufficiente rileggere la narrativa e le conclusioni di citazione", riportate all’inizio della motivazione, "per constatare che la pretesa risarcitoria azionata dal Comune di Murisengo è stata fondata "sulle garanzie di cui agli artt. 1667 e 1669 cod. civ. nei riguardi dell’Impresa (cfr. atto di citazione pag. 2)" e che "la richiesta di risarcimento dei danni era esclusivamente riferita alle "causali di cui in narrativa" (cioè alla responsabilità dell’appaltatore per vizi dell’opera e per la rovina del muto), senza riferimento di sorta ad altri profili di responsabilità dell’impresa, in specie a profili penalistici riconducibili alla previsione di cui all’art. 449 c.p.";

b) il delitto da ultimo richiamato richiede "che dal disastro contemplato sia derivato un danno effettivo alla pubblica incolumità, quantomeno il pericolo corso dalla stessa come conseguenza del disastro", mentre "nè l’atto di citazione, nè le ulteriori difese attoree di primo grado contengono il benchè minimo cenno" a detto pericolo non potendo "esservi identità fra il suddetto pericolo ed il fatto di danno lamentato dal Comune"", con la conseguenza che "inutile, pertanto, risulta la invocazione tardivamente proposta dall’appellante in questo grado dell’applicazione dell’art. 2043", affermata richiamando la sentenza di questa Corte n. 3338 del 1999"; c) "la norma generale sulla responsabilità per fatto illecito (art. 2043 c.c.), in tanto può trovare applicazione (?), in quanto il danneggiato che la faccia valere deduca espressamente e dia prova di tutti gli elementi costitutivi di tale responsabilità", onere questo non assolto dall’appellante.

In ordine all’azione di annullamento per dolo dell’atto di collaudo, la sentenza impugnata osservava, infine, che questa azione, avente "carattere prodromico rispetto alla suddetta azione contrattuale", non poteva trovare ingresso, non avendo il collaudo natura negoziale ed essendo inapplicabile l’art. 1324 c.c. al collaudo, "il quale non va confuso con la verifica" e che costituisce una dichiarazione tecnica, avente natura di dichiarazione di scienza alla quale non sono applicabili i principi che governano le manifestazioni di volontà. 3.- Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Comune, affidato a tre motivi; ha resistito con controricorso l’Impresa.

Motivi della decisione

1.- Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 2043 cod. civ. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia", dolendosi che la Corte territoriale, "con illogica e incongrua motivazione", ha affermato che "avrebbe agito invocando la responsabilità di cui all’art. 1669 cod. civ. invece di quella di cui all’art. 2043 cod. civ.".

A suo avviso, il giudice di secondo grado "invece di spiegare le ragioni per le quali ha ravvisato una "domanda ex art. 1669", si è limitato a motivare una presunta mutatio libelli" in appello, la cui affermazione avrebbe richiesto di esplicitare "il ragionamento preliminare che ha portato ad individuare quale fosse la domanda originaria", con conseguente insufficienza della motivazione sul punto.

In ogni caso, i "singoli elementi del ragionamento" sarebbero caratterizzati da "inconcludenza e contraddittorietà", in quanto: a) relativamente all’obiezione concernente la configurazione del reato di cui all’art. 449 c.p., "l’attore non ha l’onere di ricordare al giudice che il fatto dedotto in citazione rientra in una fattispecie penale incriminatrice", dato che iura novit curia e la configurazione del fatto giuridico come reato attiene alla qualificazione giuridica del fatto, spettante al giudice; b) esso ricorrente ha agito deducendo il crollo del muro di sostegno della scarpata retrostante la scuola, sicchè non avrebbe dovuto sottolineare l’idoneità dell’accadimento a porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone, trattandosi di elemento implicito nel fatto dedotto; c) il riferimento alla "deduzione penale del fatto risulta fuori luogo", in quanto l’applicazione dell’art. 2043 c.c. prescinde dalla sussistenza della responsabilità penale del danneggiante; d) la Corte d’appello non "ha colto che la norma dell’art. 2947 c.c., u.c., disciplina il calcolo della prescrizione e non la qualificazione della domanda e che la stessa fu invocata (?) per evidenziare la scadenza del termine prescrizionale nell’anno 2003".

Secondo il Comune, è erronea l’affermazione che "avrebbe tardivamente invocato la responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ.", dato che la stessa sentenza ricorda come, nella citazione, fosse stato dedotto "un comportamento doloso dell’Impresa Alessio consistito nell’esecuzione deliberatamente negligente delle sezioni resistenti del muro" e, alla pagina 2, da conto delle istanze istruttorie, dirette ad accertare i "dedotti fatti di dolo, frode, artifizi e raggiri" ed i comportamenti mistificatori dell’appellata nel realizzare l’opera. Dunque, è errata l’affermazione della mancata deduzione degli elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., avendo la sentenza omesso di riferire, in fatto, che tutte le istanze istruttorie erano state dedotte già in primo grado.

Il ricorrente sostiene di avere agito per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dal crollo de quo, deducendo che gli accertamenti in sede amministrativa avevano dimostrato che era stato cagionato dalla condotta deliberatamente negligente dell’Impresa. Dunque, il crollo era avvenuto dopo il decorso dei termini delle azioni di cui agli artt. 1667 e 1669 c.c. e proprio per questo "ha agito in giudizio deducendo quale causa petendi non il vizio in sè considerato, nè la presunzione di responsabilità dell’appaltatore posta dall’art. 1669 cod. civ. (?), ma la condotta negligente dell’Impresa costruttrice, in particolare ritenendola dolosa". In altri termini, agendo in giudizio ha dedotto "un quid pluris rispetto agli elementi tipici" dell’azione ex art. 1669 c.c., univocamente espressivo dell’esperimento dell’azione aquiliana.

Secondo il Comune, la Corte territoriale ha violato "il dovere di qualificare giuridicamente la domanda sulla base dei fatti dedotti dalla parte, indipendentemente dall’esattezza del nomen iuris", incorrendo in un vizio che non si esaurisce "nella illogicità e incongruità della motivazione" e configura un "error in procedendo per non aver il giudice pronunciato sulla domanda".

Infine, conclude il ricorrente, l’ammissibilità dell’azione ex art. 2043 c.c. è confortata dalla sentenza n. 3338 del 1999 di questa Corte, risultando pacifico che era stata tempestivamente proposta con citazione del 31 dicembre 1993 in riferimento al crollo avvenuto il 4 marzo 1993. 1.1.- Il Comune, con il secondo motivo, denuncia "violazione falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia", deducendo che detta norma, nel testo applicabile nella specie – ecioè anteriormente alla riforma realizzata con la L. n. 353 del 199 – permetteva la deduzione di nuove prove in secondo grado e poneva soltanto il divieto della mutatio libelli, con la conseguenza che, se pure fosse corretta l’affermazione che soltanto con l’atto di appello, per la prima volta, è stata invocata la responsabilità dell’Impresa ex art. 2043 c.c., la sentenza sarebbe comunque viziata.

A suo avviso, la sentenza di secondo grado: a) è priva di motivazione in ordine alla configurabilità nella specie di una mutatio e non di una emendatio libelli; b) ha violato il principio secondo il quale la diversa prospettazione giuridica, ovvero la diversa qualificazione dello stesso petitum (nella specie, il risarcimento dei danni) non configura mutatio, senza chiarire perchè ha ritenuto che fosse stato alterato l’oggetto sostanziale dell’azione. Le argomentazioni svolte nel primo motivo, osserva il Comune, dimostrano che i presupposti di fatto dedotti in primo grado sono rimasti inalterati nel giudizio di secondo grado, mentre la sentenza penale è stata prodotta in secondo grado, "per sopperire all’inopportuno rifiuto del giudice di prime cure di istruire la causa". 1.2.- Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1442 e 1667 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia", deducendo che, "ove si debba ritenere che, esaurita la possibilità di esperire la domanda di cui all’art. 1669 cod. civ., al danneggiato non competa l’azione generale di cui all’art. 2043 cod.civ.", il rimedio esperibile va rinvenuto "nella possibilità di annullare l’accettazione dell’opera ove conseguita a seguito di comportamenti dolosi dell’Impresa".

Il ricorrente censura quindi il rigetto della domanda di annullamento del collaudo, sostenendo che "l’approvazione del collaudo (?) vale a dire l’accettazione dell’opera è dichiarazione di volontà (?) e non di scienza" e lamentando che la Corte territoriale non ha considerato che, con la citazione, non ha chiesto l’annullamento delle "operazioni di collaudo, ma degli atti di collaudo, vale a dire l’articolato procedimento di approvazione in cui si sostanzia l’accettazione dell’opera nei lavori pubblici". 2.- I primi due motivi, da esaminare congiuntamente perchè logicamente connessi, sono in parte fondati e vanno accolti per quanto di ragione, entro i limiti di seguito precisati.

2.1.- Nell’esame delle censure ha carattere preliminare la questione della compatibilità, quindi della ammissibilità, delle azioni ex art. 2043 c.c. e dell’art. 1669 c.c. rispetto al medesimo evento, che va risolta in senso affermativo, dando continuità al più recente orientamento di questa Corte.

La responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c., secondo un principio ormai consolidato, nonostante sia collocata nell’ambito del contratto di appalto, configura un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini, essendo riconducibile ad una violazione di regole primarie (di ordine pubblico), stabilite per garantire l’interesse, di carattere generale, alla sicurezza dell’attività edificatoria, quindi la conservazione e la funzionalità degli edifici, allo scopo di preservare la sicurezza e l’incolumità delle persone (ex plurimis, tra le più recenti, Cass., n. 1748 del 2005; n. 1748 del 2000; n. 81 del 2000; n. 338 del 1999; n. 12106 del 1998).

Da questa configurazione consegue l’ulteriore questione del rapporto tra le due disposizioni, risolto da questa Corte in virtù di un principio – di recente confermato, espressamente richiamato dal ricorrente, e che ha convincentemente superato un più risalente indirizzo – nel senso che l’art. 1669 c.c. reca una norma speciale rispetto a quella contenuta nell’art. 2043 c.c., risultando la seconda applicabile quante volte la prima non lo sia in concreto (Cass., n. 3338 del 1999; n. 1748 del 2005). La sentenza impugnata non si è discostata da detto indirizzo e la stessa controricorrente non lo ha contestato, non prospettando alcuna ragione in grado di giustificarne una rimeditazione, sicchè il principio va qui ribadito, in quanto sorretto da rigorose e convincenti argomentazioni.

Al riguardo è sufficiente ricordare che "la natura di norma speciale dell’ art. 1669 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. (?) presuppone l’astratta applicabilità delle due norme, onde, una volta che la norma speciale non possa essere in concreto applicata, permane l’applicabilità della norma generale", in virtù di una tesi coerente con le ragioni della qualificazione della responsabilità ex art. 1669 c.c. come extracontrattuale, consistenti nell’esigenza di "offrire ai danneggiati dalla rovina o dai gravi difetti di un edificio una più ampia tutela" (Cass., n. 3338 del 1999). infatti, come è stato bene osservato in dottrina, da detta configurazione si desume che l’art. 1669 c.c. non è norma di favore diretta a limitare la responsabilità del costruttore, ma mira a garantire una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale. Il legislatore ha con essa stabilito un più rigoroso regime di responsabilità rispetto a quello previsto dall’art. 2043 c.c., caratterizzato dalla presunzione juris tantum di responsabilità dell’appaltatore, che è stata tuttavia limitata nel tempo, in virtù di un bilanciamento tra le contrapposte esigenze di rafforzare la tutela di un interesse generale e di evitare che detta presunzione si protragga per un tempo irragionevolmente lungo.

Pertanto, se la ratio dell’art. 1669 c.c. è quella di introdurre una più incisiva tutela, è coerente con la medesima l’applicabilità dell’art. 2043 c.c., nel caso in cui non sussistano le condizioni previste dalla prima norma, essendo in generale ammissibile la coesistenza di due azioni diversificate quanto al regime probatorio e potendo la parte agire non avvalendosi delle facilitazioni probatorie stabilite per una di esse. Una diversa soluzione va respinta, in quanto comporta una indebita restrizione dell’area di tutela stabilità dalla norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale e, in palese contrasto con l’armonia del sistema e con le ragioni alla base della previsione della disciplina speciale, conduce all’irragionevole risultato di creare "un regime di responsabilità più favorevole per i costruttori di edifici, perchè esclude ogni forma di responsabilità in situazioni che potrebbero ricadere nell’ambito – in linea di principio illimitato – dell’art. 2043 c.c., come nel caso di danno prodottosi oltre il decennio dal "compimento" dell’opera" (così, espressamente, Cass., n. 338 del 1999; analogamente, di recente, Cass., n. 1748 del 2005).

L’azione ex art. 2043 c.c. è, dunque, proponibile quando in concreto non sia esperibile quella dell’art. 1669 c.c., perciò anche nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal compimento dell’opera. Nell’ipotesi di esperimento dell’azione disciplinata dall’art. 2043 c.c. non opera, ovviamente, il regime speciale di presunzione della responsabilità del costruttore, che lo onera di una non agevole prova liberatoria. Pertanto, in tal caso spetta a colui il quale agisce provare tutti gli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c. e, in particolare, anche la colpa del costruttore.

3.- Posto questo principio, va osservato che il ricorrente, con i mezzi in esame, censura la sentenza impugnata anzitutto perchè, "con illogica e incongrua motivazione", ha affermato che "avrebbe agito invocando la responsabilità di cui all’art. 1669 cod. civ., invece di quella di cui all’art. 2043 cod. civ." (pg. 5), dichiarando prescritto il diritto azionato. A suo avviso, la Corte territoriale erroneamente ha omesso di considerare che ha agito, "deducendo una precisa circostanza, vale a dire il crollo del muro" (pg. 7), prospettando "nella citazione di prime cure un comportamento doloso dell’impresa Alessio, consistito nell’esecuzione deliberatamente negligente delle sezioni resistenti del muro", per le ragioni in questo atto esposte, trascritte nel ricorso e riportate nella stessa pronuncia di secondo grado (pg. 8-9), nella parte in cui ha riprodotto le istanze istruttorie proposte nel giudizio innanzi al Tribunale.

Secondo il Comune, "tutto si può dire, tranne che l’attore non avrebbe dedotto gli elementi costitutivi della responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ." (pg. 9), dato che ha invocato "quale causa petendi non il vizio in sè considerato, nè la presunzione di responsabilità dell’appaltatore posta dall’art. 1669 cod. civ. (?), ma la condotta negligente dell’impresa costruttrice, in particolare ritenendola dolosa" (pg. 10), evidenziando un "quid pluris (?) che segnalava che l’attore aveva proposto non una domanda ex art. 1669, ma l’azione aquiliana che spetta al danneggiato quando non ricorrono le condizioni previste dall’art. 1669 cod. civ., come appunto il termine decennale" da questa stabilito (pg. 11), sicchè la Corte territoriale sarebbe incorsa in un error in procedendo.

3.1.- La decisione delle censure così sintetizzate rende opportuno osservare che la sentenza impugnata ha affermato che il Comune ha proposto in primo grado "azione di risarcimento dei danni in virtù delle garanzie di cui agli artt. 1667 e 1669 cod. civ." (pg. 6), esplicitando che soltanto nella comparsa conclusionale, attraverso l’invocazione della responsabilità penale dell’impresa, avrebbe prospettato un diverso titolo, poichè "nè l’atto di citazione, nè le ulteriori difese attoree in primo grado contengono il benchè minimo cenno dell’eventuale pericolo corso dalla pubblica incolumità" ed agli elementi costitutivi del reato dell’art. 449 c.p. (pg. 8-9).

La sentenza ha, quindi, ritenuto tardivamente proposta l’azione ex art. 2043 c.c., in quanto "la norma generale sulla responsabilità per fatto illecito in tanto può trovare applicazione nel caso concreto, in quanto il danneggiato che la faccia valere deduca espressamente e dia prova di tutti gli elementi costitutivi di tale responsabilità", ciò che ha escluso sia accaduto (pg. 9).

3.2.- La sintesi delle argomentazioni della pronuncia impone di ricordare che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, sicchè ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda non era stata proposta, siffatta statuizione, ancorchè erronea, non può essere direttamente censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c.. Infatti, nel caso in cui il giudice del merito abbia svolto una motivazione sul punto, deducendo che una certa questione non possa ritenersi compresa tra quelle da decidere, il difetto di omessa pronuncia non è logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia erronea. La sentenza non può pertanto essere annullata per omessa pronuncia se preliminarmente non si annulli quella parte di essa in cui si sono spiegate le ragioni che hanno indotto alla trattazione della questione e, in siffatta ipotesi l’errore del giudice attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte, censurabile sotto il profilo del vizio di motivazione di cui all’art. 350 c.p.c., n. 5 (per tutte, Cass., n. 11639 del 2004), come è appunto accaduto nella specie. Un recente orientamento, ricostruendo ed approfondendo compiutamente questo principio in relazione al contenuto del sindacato di questa Corte ed al profilo dell’esame degli atti processuali ha, inoltre, segnalato come questo esame debba essere condotto "nel caso in cui l’errata interpretazione si traduca in una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dettato dall’art. 112 cod. proc. civ., e, quindi, non solo di una errata interpretazione si tratti, ma di una errata interpretazione che abbia determinato una omessa pronuncia, o una pronuncia su una domanda non proposta" (Cass., n. 9471 del 2004, n. 1655 del 2005; cfr. anche Cass., n. 12909 del 2004; alla prima decisione può rinviarsi per un puntuale e completo richiamo delle ulteriori pronunce), che permette ed impone l’esame degli atti,vertendosi in tema di errar in procedendo.

Infine, va ricordato che il giudice del merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni, dalla formula e dal nomen iuris adottati dalla parte, dovendo, piuttosto, tenere conto del contenuto sostanziale della pretesa quale desumibile dalla situazione dedotta in giudizio, dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte, dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio, nonchè del provvedimento richiesto in concreto, senza altri limiti che quello di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d’ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta (tra le molte, Cass., Sez. un., n. 27 del 2000; Cass., n. 27428 del 2005; n. 21208 del 2005; n. 20322 del 2005; n. 15802 del 2005).

3.3.- Nel quadro di detti principi va osservato che la sentenza impugnata, nella narrativa, espone che il Comune, nell’atto di citazione, aveva dedotto, richiamando una relazione redatta dai suoi tecnici, che il crollo del muro era riconducibile al fatto che lo stesso era stato "eseguito in modo da fare solo bella mostra di sè e poter essere contabilizzato". La pronuncia da altresì atto delle istanze istruttorie con le quali il Comune aveva chiesto l’ammissione dell’interrogatorio formale e della prova testimoniale, al fine di dimostrare che l’appaltatore non aveva realizzato le sezioni resistenti del muro "occultando la circostanza (?) e creando l’apparenza di averle eseguite" e che, unitamente al direttore dei lavori, aveva "fatto credere al collaudatore che le opere in questione ormai invisibili fossero state eseguite", insistendo per l’ammissione di c.t.u. onde accertare appunto la mancata edificazione delle sezioni resistenti del muro "con riferimento ai dedotti fatti di dolo, frode, artifizi e raggiri". Nonostante questa puntualizzazione, la pronuncia si sofferma tuttavia a verificare soltanto se il ricorrente avesse o meno dedotto la configurabilità del fatto come reato ed ha escluso che il Comune avesse proposto l’azione ex art. 2043 c.c., riconoscendo a questo fine rilevanza dirimente al profilo formale consistente nel fatto che la domanda era stata "fondata sulle "garanzie di cui agli artt. 1667 e 1669 cod. civ." e la richiesta di risarcimento dei danni "esclusivamente riferita alle "causali di cui in narrativa". Da questa considerazione la pronuncia ha desunto che non poteva ritenersi esperita l’azione dell’art. 2043 c.c., in quanto, questa norma è applicabile solo in quanto "il danneggiato che la faccia valere deduca espressamente e dia prova di tutti gli elementi costitutivi di tale responsabilità".

La sintetica motivazione svolta per escludere che la parte avesse dedotto una causa petendi corrispondente a quella che fonda la proposizione della domanda ex art. 2043 c.c., valutata alla luce dell’esposizione contenuta nella narrativa, della natura della responsabilità ex art. 1669 e 2043 c.c. e del rapporto tra le azioni fondate su dette norme ne palesa l’insufficienza.

La conclusione non è sorretta da compiute, coerenti e congrue argomentazioni, tenuto conto della significativa precisazione, posta dalla stessa pronuncia, che il ricorrente aveva evidentemente dedotto una condotta illecita della Impresa – puntualmente indicata nei suoi estremi oggettivi e soggettivi – produttiva di danni, chiedendo altresì di provare la colpa della convenuta. Le circostanze sono, infatti, sufficienti a palesare che il Comune, al di là del nomen iuris – privo di carattere vincolante (per tutte, Cass., n. 10922 del 2005; n. 3980 del 2004) – aveva dedotto tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano e della realtà fattuale allo stesso corrispondente, quindi proposto la relativa azione. E ciò anche in considerazione delle istanze istruttorie, univocamente espressive, per oggetto e contenuto, dell’intento di non limitare l’azione a quella sola caratterizzata dal regime probatorio più favorevole, non avendo la Corte territoriale neppure precisato che le stesse sono state proposte per la prima volta in secondo grado.

Inoltre, poichè il ricorrente con le censure in esame ha dedotto un error in procedendo nei termini dianzi precisati, in applicazione del principio sopra enunciato questa Corte può e deve prendere diretta cognizione degli atti, dai quali risulta che il Comune, nell’atto di citazione, aveva univocamente dedotto che la causa del crollo era dovuta alla negligente esecuzione delle sezioni resistenti del muro (?) eseguito in modo da fare solamente bella mostra di sè", deducendo il dolo dell’Impresa ed insistendo per la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni. Inoltre, in accoglimento dell’Istanza formulata con RG n. 30040/02; 1^ Sez. civ.; U.P. 9/02/06 l’atto introduttivo, il g.i., all’udienza del 23 febbraio 1994 aveva investito il c.t.u. del compito di descrivere "la natura fattuale del relativo crollo, in relazione ai fatti esposti in citazione, operando altresì tutti gli accertamenti necessari o utili a consentire alla successiva c.t.u. il giudizio sulle cause del crollo". Nel corso del giudizio di primo grado (introdotto anteriormente all’entrata in vigore delle modificazioni introdotte dalla L. n. 353 del 1990) il Comune aveva anche formulato le istanze istruttorie delle quali la sentenza impugnata ha dato atto, dirette a dimostrare la "mancata esecuzione delle sezioni resistenti del muro" ed a "permettere al Tribunale la valutazione degli elementi soggettivi in punto eventuale dolo, frode, artifizi e raggiri", nonchè la circostanza che l’Impresa ciò aveva fatto "occultando la circostanza (?) e creando l’apparenza di averle eseguite" e, insieme al direttore dei lavori, ha "fatto credere al collaudatore che le opere fossero state eseguite". La valutazione del contenuto sostanziale della situazione dedotta in giudizio, da valutare ed apprezzare anche alla luce della natura della responsabilità ex art. 1669 c.c. e del rapporto esistente tra la relativa azione e quella dell’art. 2043 c.c. e della tendenziale omogeneità della situazione che le fonda, quali sopra precisate, rende chiara l’evocazione, quale titolo della pretesa, di un fatto illecito ascritto all’Impresa, formulata esplicitando la consapevolezza dell’onere probatorio da essa conseguente e, dunque, chiaramente deducendo una pretesa fondata anche sulla norma dell’art. 2043 c.c.. Nell’atto di appello, il ricorrente ha, inoltre, conseguentemente invocato il principio secondo il quale "l’ascrivibilità della responsabilità dell’art. 1669 cod. civ. non fa giammai venir meno l’applicabilità della norma generale di cui all’art. 2043 cod. civ.", insistendo nella prospettazione della situazione e dei fatti sostanziali – in definitiva, della causa pretendi – che imponevano di ritenere proposta in primo grado anche l’azione ex art. 2043 c.c..

Pertanto, la Corte d’appello ha inesattamente ritenuto nuova la domanda ex art. 2043 c.c., non decidendola nel merito, risultando dunque fondate in questa parte le censure del Comune, che vanno accolte, restando assorbite le ulteriori censure formulate nei mezzi in esame ed il terzo motivo.

In conclusione, i primi due motivi, entro, i limiti precisati, vanno accolti – restando assorbito il terzo motivo – e conseguentemente la sentenza deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Torino che, in diversa composizione, procederà al riesame della causa, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo altresì sulle spese della presente fase (art. 385 c.p.c., comma 3).

P.Q.M..

La Corte accoglie per quanto di ragione i primi due motivi del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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