Corte Suprema di Cassazione – Civile Sezioni Unite Sentenza n. 7996 del 2006 deposito del 06 aprile 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Giudice di Pace di Roma, con sentenza depositata il 3 aprile 2003, in accoglimento della domanda proposta da G.O. contro il Ministero dell’economia e delle finanze, condannava quest’ultimo al pagamento di euro 5,16, quale somma giocata dall’attore al lotto sulla ruota di Milano, nel periodo in cui su tale ruota erano stati consumati illeciti penali in fase di estrazione dei numeri, come accertato dal Tribunale penale di Monza. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero dell’economia e delle finanza.

Resiste con controricorso G.O.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a norma dell’art. 360, n. 1), del codice di procedura civile, appartenendo la giurisdizione alle Commissioni tributarie. Assume il ricorrente che il gioco del lotto fu istituito per il risanamento economico del Paese, a seguito dell’unificazione; che tale carattere tributario ha conservato anche successivamente, trattandosi di monopolio fiscale, per cui il costo del biglietto integra un’imposta indiretta sui consumi, costituendo un’entrata tributaria.

2.1. Il motivo è infondato.

ÿ noto che l’originaria legge del 27 settembre 1863 istituì il gioco del lotto, con riserva monopolistica in favore dello Stato, a carattere temporaneo ed al fine di superare le difficoltà temporanee contingenti dell’Erario, conseguenti all’unificazione nazionale.

Dopo il riordino della materia con la L. 19 ottobre 1938, n. 1933, la struttura del lotto è stata nuovamente disciplinata dalla L. 2 agosto 1982, n. 528 che, con successive modifiche e con il regolamento di esecuzione D.P.R. 7 agosto 1990, n. 303 (modificato con D.P.R. 16 settembre 1996, n. 560), regola attualmente l’intera materia.

Attraverso la riserva esclusiva ex lege del gioco del lotto, confermata dall’art. 1 della L. 2 agosto 1982, n. 528, viene posta in essere a favore dello Stato una situazione di monopolio legale o di diritto, tradizionalmente inquadrata nella figura del monopolio fiscale, in quanto diretta ad acquisire entrate al bilancio dello Stato mediante la fissazione di prezzi notevolmente superiori al costo di esercizio.

Lo scopo fiscale del gioco del lotto è tecnicamente realizzato mediante la determinazione legislativa (art. 8 della L. n. 528 citata) dei premi spettanti ai vincitori, in base a criteri che modificano sostanzialmente le condizioni di parità teorica del gioco a vantaggio dello Stato. I premi per ogni combinazione di gioco risultano, infatti, commisurati ad un multiplo della posta notevolmente inferiore a quello che deriverebbe dal calcolo statistico delle probabilità di vincita, sia pure considerando anche le spese sostenute per l’esercizio del gioco.

2.2. L’esistenza del monopolio legale in favore dello Stato collegata ad un particolare meccanismo di acquisizione di entrate e non ai fini di una maggiore efficienza e fruibilità di servizi che il legislatore considera di interessi collettivi, ha fatto ritenere che il gioco del lotto costituisse una figura di monopolio fiscale.

Ciò ha indotto una parte della dottrina tributarista a ritenere che la gestione del gioco in regime di monopolio fiscale integri un’imposta indiretta destinata a colpire il gioco come consumo di ricchezza.

Altri invece hanno sostenuto che l’imposta colpisce la vincita ed ha pertanto natura di imposta diretta sul capitale.

Quest’ultima concezione sembra assunta dal legislatore quando, nel disciplinare l’accertamento dell’imposte sui redditi istituendo la ritenuta alla fonte a titolo di imposta sui premi e sulle vincite derivante da sorte, scommesse, eccetera, stabilisce che le ritenute sulle vincite e sui premi del lotto "compresa nel prelievo operato dallo Stato in applicazione delle regole stabilite dalla legge per attività di gioco" (art. 30, comma 4, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

2.3. Va, tuttavia, considerato che in realtà il provento realizzato dallo Stato attraverso il gioco del lotto può essere soltanto eventuale (cfr. art. 14, comma 3, della L. n. 528/1982) e non è comunque ricollegato direttamente né all’ammontare degli incassi derivanti dalle scommesse, che dovrebbe costituire l’imponibile ove si trattasse di un’imposta sul consumo, né all’ammontare delle vincite, cui dovrebbe essere commisurata un’imposta diretta.

Gli utili finanziari sono, invece, determinati semplicemente per differenza a saldo di fine esercizio tra introiti del servizio e costi del medesimo, in cui sono annoverate anche le vincite pagate, tant’è che i sostenitori della tesi della natura fiscale del gioco hanno criticato tale impostazione contabile per cui l’entrata netta si determina solo per differenza tra entrate lorde e le spese per vincite e spese del servizio, in luogo di una rappresentazione contabile che consentisse di porre in evidenza l’imposta sul gioco ed il profitto netto del monopolista.

In effetti tali utili non possono rappresentare se non il profitto o il lucro che lo Stato ritrae nella gestione del gioco in regime di monopolio, configurata come mera attività imprenditoriale di natura privatistica, anche se ad evidenza pubblica, e non come manifestazione di poteri autoritativi ed impositivi di prestazioni tributarie.

In questa ottica la più recente dottrina considera il monopolio del lotto come uno strumento extratributario per mezzo del quale lo Stato persegue fini di lucro utilizzando schemi di diritto privati.

3.1. Ritiene questa Corte che vada affermata la natura privatistica del rapporto tra l’Amministrazione ed il privato per cui il corrispettivo pecuniario della prestazione fornita in regime di monopolio fiscale altro non è che il prezzo della prestazione stessa.

La finalità fiscale non è in alcun modo condivisa da parte del privato, che acquisisce la prestazione non per pagare un tributo ma solo allo scopo di farne uso, in quanto idonea a soddisfare un proprio bisogno e, per tale causa, ne paga il prezzo, irrilevante restando dal punto di vista giuridico che nel prezzo stesso "si annidi una quota ideale che costituisce un tributo".

Di conseguenza l’esistenza di un’attività istituita al fine di procurare all’ente pubblico entrate non può condurre alla contestuale qualificazione delle stesse come imposte. L’acquisto di un bene ad un prezzo artificialmente più elevato per effetto della privativa fiscale non viene a modificare la natura corrispettiva della prestazione dovuta al privato.

Il monopolio fiscale comporta solo che la controparte del privato nello schema contrattuale privatistico non possa essere un altro privato, ma lo Stato, il quale regola il prezzo richiesto non sulla base di leggi di mercato, ma sulla base di esigenze di entrate.

Solo inquadrato il pagamento del privato nell’ambito del corrispettivo pecuniario della prestazione ottenuta (prezzo, sia pure fissato dal monopolista), e non nell’ambito delle imposte, si sfugge alla censura, prospettata da alcuni, di lesione da parte del monopolio del lotto del principio di cui all’art. 53 della Costituzione, che prescrive un’imposizione tributaria fondata su criteri di capacità contributiva e di progressività.

3.2. Nella fattispecie del gioco del lotto lo schema privatistico adottato è quello della scommessa.

Trattasi di una scommessa organizzata a struttura bilaterale, in quanto ogni partecipante conclude la scommessa con l’organizzatore, conseguendone che tanti sono i contratti di scommessa, quanti sono i partecipanti, ad ognuno dei quali spetterà un premio predeterminato al verificarsi della previsione, indipendentemente da ciò che avviene agli altri scommettitori e senza che il numero di questi influisca sul rapporto, come invece nella scommessa plurilaterale, in cui la pluralità degli scommettitori fa parte della struttura stessa del contratto.

Nel lotto pubblico il rapporto di scommessa si istituisce fra lo scommettitore singolo e lo Stato, gestore monopolista del lotto, scommettitore esso stesso, assumendo il rischio della perdita come la controparte. Entrambi detti scommettitori sono quindi parti di un contratto di scommessa, che deve valutarsi alla stregua del diritto civile, nella cui sfera i contraenti si muovono, occupando identiche posizioni.

Pertanto lo scommettitore privato ha azione in giudizio, ai sensi dell’art. 1935 del codice civile, per la tutela dei suoi diritti fondati sul contratto di scommessa davanti al giudice ordinario e non davanti al giudice tributario.

3.3. Peraltro, come le Sezioni Unite di questa Corte hanno già osservato (SS.UU., 15 ottobre 1999, n. 722), l’art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, in tema di competenza delle Commissioni tributarie, rappresenta una deroga alla giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria per cui la controversia, in tanto può essere attribuita al giudice tributario, in quanto rientri in una delle tre fattispecie normativamente previste nei tre commi dell’art. 2 e cioè una controversia tra quelle tassativamente indicate, ovvero una controversia relativa a sovraimposte, sanzioni, interessi e altri accessori, oppure una controversia in tema di estimo o di attribuzione di rendita catastale. Per effetto della modifica apportata dall’art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito in L. 2 dicembre 2005, n. 248 appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi pubblici (art. 63 del D.Lgs. n. 446/1997) e del canone per acque reflue e smaltimento di rifiuti urbani e le controversie relative ad imposte sulle pubblicità ed affissioni pubbliche.

Al di fuori di queste ipotesi tassative di deroga della giurisdizione ordinaria non vi è spazio per una giurisdizione della Commissione tributaria su una controversia.

Poiché la controversia relativa al risarcimento del danno da inadempimento in un contratto di scommessa gestito dalla Pubblica Amministrazione, quale è quello conseguente all’esercizio del lotto pubblico, non può sussumersi in una della fattispecie, tipizzate e tassative, attributive della giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie, la giurisdizione su tale controversia si appartiene al giudice ordinario.

4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità del procedimento per violazione degli artt. 115, 116, 228, 229, 230 del codice di procedura civile, a norma dell’art. 360, n. 4), del codice di procedura civile.

Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente motivazione dell’impugnata sentenza in ordine ad un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, nn. 4) e 5), del codice di procedura civile.

Assume il ricorrente, nei due motivi trattati congiuntamente, che erratamente il Giudice di Pace ha fondato la propria decisione su una sentenza penale del tribunale di Monza e su una deposizione testimoniale resa in altro procedimento civile davanti al Giudice di Pace di Salerno.

Lamenta poi il ricorrente che non vi sarebbe la prova della corrispondenza tra le estrazioni "truccate" sulla ruota di Milano e quella a cui aveva partecipato l’attore.

5.1. I motivi sono infondati e vanno rigettati.

Contro le sentenze del Giudice di Pace in cause di valore non superiore ad euro 1.100,00, e perciò da decidere secondo equità, il ricorso per cassazione è ammesso solo per il mancato rispetto delle regole processuali, per violazione di norme costituzionali e comunitarie (in quanto di rango superiore alla legge ordinaria), ovvero per violazione dei principi informatori della materia, e per carenza assoluta o mera apparenza della motivazione o di radicale ed insanabile contraddittorietà, non essendo ammissibile il ricorso per violazione o falsa applicazione di legge, a norma dell’art. 360, n. 3), del codice di procedura civile (SS.UU., 15 ottobre 1999, n. 716, coordinata con la sentenza additiva della Corte Cost. 14 luglio 2004, n. 206).

5.2. Nella fattispecie non può ritenersi apparente la motivazione quanto alla condanna del convenuto alla restituzione della somma giocata in favore dell’attore. Infatti riesce a cogliersi l’iter argomentativo del Giudice di Pace, che ha ritenuto provato l’inadempimento contrattuale da parte del convenuto, per non avere osservato la regolarità dell’estrazione sulla ruota di Milano (e quindi la regolarità del contratto di scommessa) sulla base della sentenza penale del Tribunale di Monza, con cui venivano condannati i dipendenti del Ministero, che avevano consumato la truffa nel gioco del lotto, nonché della deposizione del funzionario del Ministero delle finanze, resa davanti al giudice di pace di Salerno, in procedimento analogo.

5.3. A tale fine va osservato che il giudice di merito, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, è libero di formare il proprio convincimento sulla base di accertamenti compiuti in altri giudizi fra le stesse parti od anche fra le altre parti, utilizzando tali risultanze quali indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio (Cass. 20 dicembre 2001, n. 16069; Cass. 17 gennaio 1995, n. 478).

Nella fattispecie il giudice, accertato che la regolarità del gioco era stata alterata dai dipendenti del Ministero convenuto, ha conseguentemente ritenuto lo stesso Ministero responsabile contrattualmente nei confronti dell’attore per la restituzione della somma giocata, in quanto avrebbe dovuto garantire l’assoluta regolarità e correttezza del gioco del lotto.

5.4. Quanto alla censura secondo cui mancherebbe la prova che la giocata dell’attore si riferisse ad una delle estrazioni truccate, va osservato che il Giudice di Pace ha ritenuto che sulla base dei suddetti elementi probatori era stato accertato che le estrazioni al lotto erano state varie volte "truccate" sulla ruota di Milano nel periodo 1990-1998 e che la giocata dell’attore si riferiva a tale periodo e su tale ruota.

Trattandosi di azione di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale competeva al convenuto fornire la prova di avere esattamente adempiuto alla sua prestazione e cioè, nella fattispecie, che l’estrazione in questione era stata regolare e non rientrava tra quelle oggetto del reato di truffa ascritto ai propri dipendenti.

In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento. Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento (Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533).

5.5. Ne consegue che la motivazione della sentenza non può dirsi né apparente né omessa né insanabilmente contraddittoria, poiché il giudice ha dato contezza dell’iter argomentativo seguito ed ha indicato gli elementi valutati per ritenere la responsabilità contrattuale del convenuto.

6. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Va condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, sostenute dal resistente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dal resistente, liquidate in complessivi euro 700,00, di cui euro 600,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

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