Cass. pen., sez. III 21-06-2006 (21-03-2006), n. 21487 EDILIZIA – COSTRUZIONE EDILIZIA – Provvedimento abilitativo sostanzialmente illegittimo – Configurabilità del reato edilizio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

Con ordinanza del 21.11.2005 il Tribunale di Siracusa – in accoglimento dell’ istanza di riesame proposta nell’interesse di D.M. Francesca (amministratore della s.n.c. "TA.DI.CO. & C.") e T. Cesare (assuntore dei lavori) ? annullava il decreto 26.10.2005 con cui il G.I.P, di quello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo di un’erigenda costruzione (adottato in relazione all’ipotizzato reato di costruzione abusiva, ex art. 44, lett. b, D.P.R. n. 380/2001) e revocava il sequestro medesimo.

Rilevava il Tribunale che la misura di cautela reale era stata applicata sul presupposto che le opere edilizie fossero state approvate con permesso di costruire illegittimo, affermava però che, in una situazione siffatta, compete al giudice del riesame verificare se trattasi di "un provvedimento microscopicamente illegittimo" o meno (sul punto faceva riferimento alle sentenze di questa Sezione della Corte Suprema n. 1756 del 12.5.1995 e n. 54 dell’ 11.1.1996).

Argomentava che – in relazione alle caratteristiche strutturali del giudizio di riesame e soprattutto delle funzionalità del medesimo – detta verifica sulla macroscopicità della contestata illegittimità del provvedimento amministrativo deve ritenersi "necessariamente destinata ad assumere un carattere assorbente rispetto alla verifica di mera illegittimità o meno dell’atto stesso", sicché essa deve "essere operata in via prioritaria, benché astrattamente afferente non al piano di valutazione della tipicità del reato ma a quello della colpevolezza".

Escludeva, quindi, nella specie, la sussistenza di una situazione di macroscopica violazione della disciplina urbanistica per un duplice ordine di ragioni: – la evidente complessità della questione amministrativa ritenuta sottostante alla validità dei provvedimento (applicabilità delle misure di salvaguardia ad un nuovo regolamento edilizio comunale); – la circostanza che, in ordine a tale questione, il dirigente dell’ufficio comunale competente ? non coinvolto penalmente nella vicenda ? avesse, anteriormente al rilascio del provvedimento "de quo", adottato una circolare di contenuto generale, destinata ad orientare la definizione di tutte le domande di rilascio di titoli edificatori dipendenti dalla medesima questione (circolare alla quale, nella specie, vi era stata piena conformazione).

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, il quale ha eccepito che: – la "macroscopica illegittimità" del provvedimento amministrativo non è condizione essenziale per la configurabilità del reato edilizio ipotizzato, potendo influire soltanto sulla valutazione dell’elemento soggettivo in sede di giudizio dei merito (valutazione che nella specie, invece, sarebbe stata indebitamente effettuata dal giudice del riesame); – il permesso di costruire "de quo" sarebbe comunque viziato da illegittimità macroscopica, tenuto conto che il fabbricato già oggetto di sequestro verrebbe ad essere edificato, con compromissione di scelte pianificatone, solo a metri 1,33 da una sede stradale prevista dal nuovo piano regolatore generale del Comune di Siracusa, sia pure soltanto adottato;

– le disposizioni di salvaguardia devono ritenersi pacificamente applicabili anche alle prescrizioni dei nuovo regolamento edilizio comunale, poiché ad esse fanno continuo ed espresso rinvio le norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico adottato.

I difensori degli indagati hanno depositato memoria, prospettando l’inammissibilità del proposto ricorso, che si riferirebbe a vizi di motivazione del provvedimento impugnato, laddove il sindacato di legittimità sulle ordinanze emesse dal Tribunale del riesame, a norma degli artt. 322 bis e 324 c.p.p., è limitato dal comma 1° dell’art. 325 c.p.p. all’esclusivo vizio della violazione di legge.

Il ricorso del P.M. è fondato e merita accoglimento.

1. L’ammissibilità del ricorso

Ai sensi dell’art. 325 c.p.p., contro le ordinanze emesse dal Tribunale del riesame investito della verifica di legittimità del sequestro, i soggetti legittimati possono proporre ricorso per cassazione soltanto per "violazione di legge".

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale ormai costante di questa Corte Suprema (vedi Sez. Unite, 28.1.2004, n. 5876; Sez, III, 15.7.2004, n. 36160), alla violazione di legge vanno ricondotte la mancanza assoluta e la mera apparenza della motivazione (e questa deve considerarsi "meramente apparente" quando sia del tutto priva di requisiti minimi di coerenza e completezza: Sez. Unite, 28.5.2003, n. 12), ma non anche il vizio di manifesta illogicità della stessa ex art. 606, comma 1°, lett. e), c.p.p.

Nella specie il P.M. ricorrente non sovrappone una interpretazione propria a quella effettuata da Tribunale, ma lamenta l’incoerenza della decisione impugnata conseguente all’applicazione di erronei principi di diritto.

2. I termini fattuali della vicenda

Il Comune di Siracusa ha rilasciato la concessione edilizia n. 32 del 22.2.2005 in ordine ad un progetto di demolizione e realizzazione di un nuovo fabbricato per civile abitazione a quattro piani fuori terra.

Secondo la prospettazione accusatoria, detto titolo abilitante deve considerarsi illegittimo poiché si porrebbe in contrasto con i nuovi strumenti urbanistici (piano regolatore generale, relative norme tecniche di attuazione e regolamento edilizio) adottati dal Consiglio comunale di Siracusa con delibera n. 92 del 27.4.2004 e sarebbe stato rilasciato senza la doverosa applicazione delle misure di salvaguardia pure prescritte dall’art. 19 della legge regionale siciliana n. 71 del 1978.

In particolare: – la superficie complessivamente autorizzata (di mq. 598,01) supererebbe di mq. 38,42 quella massima ammissibile per la zona B3.2 secondo le previsioni delle norme di tecniche di attuazione del nuovo P.R.G. e del nuovo regolamento edilizio; – non sarebbero rispettati parametri di altezze e distanze prescritti dal nuovo regolamento edilizio, maggiormente con riferimento al previsto allargamento della sede stradale di via Grottasanta, posta al lato sud dell’erigendo edificio (solo mt. 1,33 di distanza dalla nuova sede, a fronte dei 5 metri prescritti, per cui i balconi, della larghezza di mt. 1,90, finiscono per incidere in parte sull’area di ampliamento della strada); – non sarebbe rispettata l’altezza sul livello del marciapiede, riguardo ai balconi aggettanti sullo stesso, prevista sia dal vecchio sia dal nuovo regolamento edilizio.

3. Il reato di costruzione abusiva a fronte dell’illegittimità del permesso di costruire

Fu la giurisprudenza pretorile, negli anni ’70, a ricondurre alla carenza di concessione edilizia le ipotesi di lavori eseguiti sulla base di concessione illegittima: cioè viziata, o per inosservanza dei presupposti formali di legittimità, o in violazione del vincolo di inedificabilità stabilito dalla legge in assenza di strumenti urbanistici, ovvero in contrasto con i limiti imposti dalla pianificazione vigente.

Venne affermato che, in ipotesi siffatte, il giudice penale – avvalendosi dei poteri attribuiti al giudice ordinario dall’art. 5 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. E) – può compiere una valutazione del titolo abilitativo, al fine di verificarne la legalità.

Qualora egli riscontri eventuali vizi di illegittimità, può disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, considerando ad ogni effetto i lavori come eseguiti in assenza di titolo abilitante.

Questa Corte Suprema non assunse, al riguardo, un orientamento uniforme, in quanto:

– talune decisioni affermarono che l’illegittimità della concessione fosse assimilabile alla mancanza della stessa; – altre distinsero tra concessione illegittima e concessione illecita, escludendo – nel primo caso – la sussistenza di un presupposto essenziale del reato; – altre ancora ravvisarono, nell’ipotesi di concessione illegittima, la violazione dell’art. 17, lett. a), della legge n. 10/1977 e non quella più grave di cui alla lett. b).

La tesi della "disapplicazione" venne confutata da autorevole dottrina, sull’assunto che l’art. 5 della legge n. 2248/1985 non può spiegare alcuna efficacia nell’ambito del processo penale, in quanto questo non è rivolto alla tutela di diritti soggettivi, bensì all’accertamento della corrispondenza di un fatto alla fattispecie incriminatrice.

Non vi è, insomma, una parte che possa chiedere al giudice il disconoscimento di una disciplina imposta da un provvedimento amministrativo illegittimo, con sacrificio di relazioni giuridiche alle quali esso partecipa; il provvedimento illegittimo, invece, potrebbe costituire soltanto il presupposto di un reato.

Alcuni Autori asserirono, al riguardo, che la disapplicazione si risolverebbe, agli effetti penali, in una forma di retroattività "in malam partem", dal momento che, con essa, si qualificherebbe postumamente illecita una condotta posta in essere in conformità ad un titolo assistito dalla presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che è principio generale del nostro ordinamento.

Un notevole contributo alla configurazione della questione venne fornito da questa III Sezione penale con l’ordinanza 13.3.1985 (ric. Meraviglia), ove si affermò perentoriamente che la norma incriminatrice all’epoca posta dall’art. 17, lett. b), della legge n. 10/1977 ricollegava la sanzione penale alla "insussistenza" del provvedimento amministrativo e non anche alla sua "illegalità".

In decisioni successive questa Sezione ribadì che il giudice penale deve controllare soltanto l’esistenza dell’atto sulla base dell’esteriorità formale e della sua provenienza dall’organo legittimato ad emetterlo, ulteriormente precisando che deve parlarsi di assenza dell’atto non solo qualora esso sia stato emesso da un organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia e del soggetto privato che lo consegue e, quindi, non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri (cfr. Cass., Sez. III, 31.3.1986, ric. Ainora).

Il contrasto giurisprudenziale rese opportuno l’intervento delle Sezioni Unite e queste ? con decisione del 31.1.1987, ric. Giordano ? statuirono che "il potere del giudice penale di conoscere della illegittimità della concessione edilizia non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge n. 2248 del 1865, all. E), ma deve trovare fondamento o giustificazione o in esplicita previsione legislativa ovvero nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa".

Le Sezioni Unite affermarono, nella sentenza Giordano, che ? dalla lettura congiunta degli artt. 4 e 5 della legge del 1865 ? "si evince chiaramente che le norme in questione non introducono affatto un principio generalizzato di disapplicazione di atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario (sia esso civile o penale) per esigenze di diritto oggettivo, ma che, al contrario, il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo è stato rigorosamente limitato dal legislatore ai soli atti incidenti negativamente sui diritti soggettivi ed alla specifica condizione che si tratti di accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti che l’alto medesimo è capace di produrre all’esterno del giudizio.

Ne consegue, pertanto, che la normativa in questione non può trovare applicazione per quegli atti amministrativi che, lungi da comportare lesione di un diritto soggettivo, rimuovono invece un ostacolo al loro libero esercizio (nulla-osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono (concessioni).

Opinare diversamente non solo comporta l’estensione al diritto oggettivo di una regola dettata unicamente a tutela dei diritti soggettivi, ma comporta altresì ? con violazione del principio della divisione dei poteri ? l’attribuzione al giudice penale di un potere di controllo e d’ingerenza esterna sull’attività amministrativa e, quindi, l’esercizio di un’attività gestionale che dalla legge è, invece, demandata in esclusiva ad altro potere dello Stato.

Ciò, peraltro, non esclude che, in determinati casi, il giudice penale non possa egualmente conoscere della illegittimità dell’atto amministrativo.

Tale possibilità, tuttavia, non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge del 1865, ma deve, invece, trovare fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 cod, pen.) ovvero, nell’ambito dell’interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa".

Sulla base di tali principi affermarono le Sezioni Unite che la disposizione di cui all’art. 17, lett. b), della legge n. 10/1977 non poteva considerarsi "funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia", poiché "l’interesse tutelato da tale norma è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della P.A., con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa".

Un netto dissenso dall’anzidetto orientamento venne espresso in una successiva sentenza (Cass., Sez. III, 9.1.1989, n. 2766, ric. Bisceglia), ove si affermò che la questione doveva essere riesaminata alla stregua dei principi informatori della legge n. 47/1985, avendo tale legge profondamente mutato l’oggetto stesso della tutela penale, incentrata ormai sul criterio sostanziale della conformità delle opere alla normativa urbanistica. Al giudice penale venne riconosciuta così la potestà di non tenere conto dell’atto amministrativo illegittimo, essendo divenuta la illegittimità dell’atto essa stessa un elemento essenziale della fattispecie criminosa.

La Corte Costituzionale ? con ordinanza 11/14 giugno 1990, n. 288 ? confermò l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza Giordano (ritenendolo espressamente non superato dall’anzidetta decisione) secondo il quale il giudice penale non può disapplicare il provvedimento amministrativo, salvo i casi di lesione di diritti soggettivi o di illiceità penale, soggiungendo però che "l’illiceità penale di una concessione non deriva soltanto dalla collusione (tra richiedente ed autorità amministrativa), ma da qualsiasi violazione della legge penale che abbia a viziare il momento formativo della volontà della Pubblica Amministrazione".

Seguirono ulteriori oscillazioni giurisprudenziali per cui le Sezioni Unite hanno avuto occasione di pronunciarsi nuovamente sulla questione e ? con la sentenza 12.11.1993, ric. Borgia – hanno affermato che "al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun sindacato sull’atto amministrativo, ma questi, nell’esercizio della potestà penale, è tenuto ad accertare la conformità ira ipotesi di fallo (opera esegue o eseguita) e, fattispecie legale (identificata dalle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dalle prescrizioni del regolamento edilizio).

Il complesso di tali disposizioni, previsioni e prescrizioni, tutte insieme considerate, costituisce il parametro organico per l’accertamento della liceità o dell’illiceità dell’opera edilizia e ciò in quanto l’oggetto della tutela penale apprestata dall’art. 20 della legge n. 47/1985 [oggi art. 44 del T.U. n. 380/2001] non è più – come nella legge n. 1150 del 1942 – il bene strumentale del controllo e della disciplina degli usi del territorio, bensì la salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio medesimo".

In questa prospettiva, nell’ipotesi di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione dell’anzidetto parametro di legalità urbanistica ed edilizia, il giudice non deve concludere per la mancanza di illiceità penale solo perché sia stato rilasciato il permesso di costruire: questo, infatti, "nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idoneo a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici? Né il limite al potere di accertamento penale del giudice può essere posto evocando l’enunciato dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla Pubblica Amministrazione, e quindi ad esercitare un’indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata".

In seguito a quest’ultimo intervento delle Sezioni Unite, alcune decisioni di questa Corte considerarono il reato di cui all’art. 20, lett. a), della legge n. 47/1985 come l’unica fattispecie penale configurabile nell’ipotesi di illegittimità dell’atto concessorio, escludendo comunque l’elemento soggettivo della contravvenzione medesima quando la violazione delle norme urbanistiche (leggi, strumenti di pianificazione, regolamenti) non fosse «grossolana o macroscopica» (vedi Cass., sez. III: 19 ottobre 1992, Palmieri e 21 maggio 1993, P.M. in proc. Tessarolo).

Successivamente, però, questa Corte ha rilevato che il giudizio (ric. Borgia) conclusosi con la pronunzia delle Sezioni Unite aveva ad oggetto una fattispecie inquadrabile nella previsione dell’art. 20, lett. a), ma che i principi affermati con quella pronunzia hanno valore e portata generale in relazione a tutte e tre le fattispecie attualmente previste dall’art. 44, poiché esse tutte tutelano il medesimo interesse sostanziale dell’integrità del territorio.

A fronte dell’evoluzione interpretativa dianzi compendiata, ritiene questo Collegio di dover affermare e ribadire i principi secondo i quali: a) il giudice penale, allorquando accerta profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo edilizio, procede ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata e non pone in essere alcuna "disapplicazione" riconducibile all’enunciato dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), né incide, con indebita ingerenza; sulla sfera riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa incriminatrice; b) la "macroscopica illegittimità" del provvedimento amministrativo non è condizione essenziale per la configurabilità di un’ipotesi di reato ex art. 44 del T.U. n. 380/2001; mentre (a prescindere da eventuali collusioni dolose con organi dell’amministrazione) l’accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata anche riguardo all’apprezzamento della colpa; c) spetta in ogni caso al giudice del merito, e non certo a quello del riesame di provvedimenti di sequestro, la individuazione, in concreto, di eventuali situazioni di buona fede e di affidamento incolpevole.

4. I regolamenti edilizi comunali e le misure di salvaguardia

L’art. 33 della legge n. 1150/1942 (espressamente abrogato dall’art. 136, 2° comma, lett. b, del T.U. n. 380/2001) attribuiva ai regolamenti edilizi comunali il compito di dettare norme in una seria di materie specificamente elencate.

L’art. 2, 4° comma, del T.U. n. 380/2001 dispone attualmente che "i Comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. 3 del D.Lgs. 18.8.2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia".

Il regolamento edilizio, che i Comuni adottano ai sensi della disposizione anzidetta, "deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi" (art. 4 del T.U. n. 380/2001).

E’ stata così abbandonata la tecnica legislativa precedente, sostituendo all’elencazione pedissequa di contenuti specifici un riferimento di portata generale alla "disciplina delle modalità costruttive" ed individuando tre ambiti normativi che devono essere oggetto di specifica considerazione in sede di redazione del regolamento edilizio comunale.

Il regolamento edilizio deve contenere dunque, secondo la configurazione tradizionale, disposizioni riguardanti essenzialmente l’attività edilizia (alcune legislazioni regionali hanno provveduto, però, ad articolare con modalità peculiari e differenti il sistema degli strumenti urbanistici, introducendo una disciplina innovativa e modelli diversi di regolamento edilizio).

Ritiene comunque il Collegio che, anche alla stregua delle nuove previsioni normative statuali, al regolamento medesimo ben possa riconoscersi natura di completamento ed ulteriore specificazione degli strumenti di pianificazione urbanistica (funzione di determinare le modalità di realizzazione dell’attività edilizia nelle zone in cui questa sia consentita, con peculiare riferimento alle norme riguardanti la distanza e l’altezza dei fabbricati, sia in assoluto sia in rapporto alla larghezza delle strade), pur spettando a detti piani stabilire le destinazioni d’uso delle varie zone e fissare le prescrizioni di tipologia edilizia.

Deve ritenersi altresì – nel rispetto del principio dell’autonomia regolamentare comunale – che nel regolamento edilizio possano tuttora essere contenute norme di attuazione del piano regolatore generale, qualora esse non siano integralmente definite nella parte normativa di quello strumento, secondo quanto in precedenza previsto dall’art. 33, 2° comma, della legge n. 1150/1942.

In ipotesi siffatte il regolamento assume una funzione non soltanto ausiliaria allo strumento urbanistico generale, presentando invece contenuti integrativi dello stesso e, qualora ciò si verifichi, si pone quale conseguenza necessaria l’applicazione delle misure di salvaguardia connesse all’adozione del piano regolatore medesimo.

Ciò si è verificato nella specie, ove il nuovo regolamento edilizio della città di Siracusa (che espressamente richiama l’applicazione delle misure di salvaguardia) è stato adottato non con il procedimento di formazione suo proprio (delibera di adozione del Consiglio comunale e trasmissione alla Regione per l’approvazione, che deve intervenire nei successivi 180 giorni) bensì contestualmente al piano urbanistico e con la medesima procedura (assoggettato, quindi, alle osservazioni dei soggetti legittimati ed alla pubblicazione prodromica ad esse), in un complessivo contesto di determinazione dell’assetto urbanistico edilizio del territorio caratterizzato da plurimi rinvii delle norme tecniche di attuazione del piano alle disposizioni regolamentari.

E’ vero che la disciplina delle misure di salvaguardia – attualmente posta dall’art. 12, 3° e 4° comma, del T.U. n. 380/2001 – non fa riferimento ai regolamenti edilizi, e che, a norma dell’art. 19, 3° comma, della legge regionale siciliana 27.12.1978, n. 71, "in pendenza dell’approvazione degli strumenti urbanistici generali o particolareggiati l’applicazione delle misure di salvaguardia di cui alla legge 3 novembre 1952, n. 1902, e successive modifiche, e alla legge regionale 5 agosto 1958, n. 22, è obbligatoria".

La relativa disciplina statale, però, è stata considerata suscettibile di applicazione in via analogica dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (C. Stato, Sez. V, 26.4.1972, n. 297) e la "ratio" stessa della salvaguardia deve rapportarsi al modello concreto dello strumento regolamentare.

5. Nella vicenda che ci occupa, inoltre, il Tribunale ha omesso di indicare se – in occasione del rilascio del permesso di costruire – le distanze siano state calcolate in virtù delle prescrizioni del vecchio regolamento edilizio ma tenendo comunque conto dell’allargamento della sede stradale, ovvero detto allargamento non sia stato proprio considerato: nel capo di imputazione si fa riferimento, infatti, all’incidenza parziale dei costruendi balconi, nel progetto approvato, sull’area di ampliamento della sede stradale.

E’ evidente che, qualora le misurazioni avessero trascurato la previsione ampliativa, l’omissione della salvaguardia non riguarderebbe il regolamento edilizio ma si porrebbe in eclatante violazione delle previsioni dello stesso piano adottato.

6. Per tutte le considerazioni dianzi svolte, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Siracusa, il quale si atterrà, in sede di nuovo esame della vicenda, ai principi di diritto sopra enunciati.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, visti gli ant. 127 e 325 c.p.p., annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Siracusa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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