Corte Costituzionale sentenza n. 113 SENTENZA 04 – 07 aprile 2011 . In materia di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 16 del 13-4-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 630 del codice
di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di Bologna nel
procedimento penale a carico di D.P., con ordinanza del 23 dicembre
2008, iscritta al n. 303 del registro ordinanze 2010 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, 1ª serie speciale,
dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 23 dicembre 2008, pervenuta a questa
Corte, con la prova delle prescritte notificazioni e comunicazioni,
il 26 agosto 2010, la Corte di appello di Bologna ha sollevato, in
riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e all’art.
46 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle liberta’ fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura
penale, «nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo
allorche’ la sentenza o il decreto penale di condanna siano in
contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti
dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di equita’ del processo, ai
sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo».
Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a delibare due
richieste riunite di revisione, proposte, ai sensi degli artt. 629 e
seguenti cod. proc. pen., dal difensore di un condannato e da
quest’ultimo personalmente, in relazione alla medesima sentenza di
condanna. Alla data della prima delle due richieste – quella del
difensore, presentata l’11 gennaio 2006 – il condannato stava
espiando, in regime di detenzione domiciliare, la parte residua della
pena di tredici anni e sei mesi di reclusione, inflittagli dalla
Corte d’assise di Udine con sentenza del 3 ottobre 1994, divenuta
irrevocabile il 27 marzo 1996.
Dopo la condanna definitiva – prosegue il rimettente –
l’interessato si era rivolto alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, la quale, con «sentenza del 9 settembre 1998», aveva
accertato il carattere «non equo» del processo celebrato nei suoi
confronti, per violazione dell’art. 6 della CEDU: violazione
ravvisata segnatamente nel fatto che il ricorrente era stato
condannato sulla base delle dichiarazioni rese da tre coimputati, non
esaminati in contraddittorio perche’ in dibattimento si erano avvalsi
della facolta’ di non rispondere.
Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva
sollecitato, quindi, piu’ volte lo Stato italiano ad adottare le
misure necessarie per garantire l’osservanza della citata decisione:
sollecitazioni rimaste, peraltro, senza effetto.
Nel frattempo, sul versante interno, il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Udine aveva promosso incidente di
esecuzione al fine di verificare – alla luce di detta pronuncia – la
legittimita’ della detenzione del condannato, con contestuale
richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena.
Accogliendo il ricorso successivamente proposto dal pubblico
ministero avverso l’ordinanza di rigetto della Corte d’assise di
Udine, la Corte di cassazione, con sentenza 1° dicembre 2006-25
gennaio 2007, n. 2800, aveva dichiarato l’inefficacia dell’ordine di
carcerazione emesso nei confronti del condannato, disponendone la
liberazione. Nell’occasione, la Corte di cassazione aveva enunciato
il principio di diritto in forza del quale «il giudice
dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 cod. proc.
pen., l’ineseguibilita’ del giudicato quando la Corte europea […]
dei diritti dell’uomo […] abbia accertato che la condanna e’ stata
pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo
equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia
riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del
giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre
nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo».
Parallelamente, e prima che intervenisse la pronuncia della Corte
di cassazione ora ricordata, il difensore del condannato aveva
proposto al giudice a quo l’istanza di revisione che da’ origine al
giudizio principale. La difesa aveva sostenuto, in particolare, che
la fattispecie considerata poteva essere ricondotta all’ipotesi del
contrasto fra giudicati, di cui all’art. 630, comma 1, lettera a),
cod. proc. pen., stante l’equiparabilita’ della decisione della Corte
europea alla sentenza di un «giudice speciale»; aggiungendo che il
mancato accoglimento di tale tesi avrebbe reso la norma
costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 3 e 111
Cost. Il difensore aveva chiesto, altresi’, la sospensione
dell’esecuzione della pena inflitta al proprio assistito: sospensione
che era stata concessa dal giudice a quo.
Con ordinanza del 15 marzo 2006, la Corte d’appello rimettente –
ritenendo impraticabile la soluzione interpretativa prospettata in
via principale dalla difesa – aveva sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 10 e 27 Cost., questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte in
cui esclude, dai casi di revisione, l’impossibilita’ che i fatti
stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si
concilino con la sentenza della Corte Europea che abbia accertato
l’assenza di equita’ del processo, ai sensi dell’art. 6 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».
In relazione agli indicati parametri, la questione era stata
dichiarata, peraltro, infondata da questa Corte con sentenza n. 129
del 2008. La Corte aveva escluso, in specie, tanto la
configurabilita’ di una disparita’ di trattamento fra casi simili,
attenendo il contrasto fra giudicati, evocato dalla norma censurata,
ai «fatti» su cui si fondano le diverse sentenze, e non alle
valutazioni in esse effettuate; quanto una lesione della presunzione
di innocenza, intesa come norma di diritto internazionale
consuetudinario, posto che detta presunzione si dissolve allorche’ il
processo e’ giunto al suo epilogo; quanto, infine, una compromissione
della finalita’ rieducativa della pena, non potendo le regole del
"giusto processo" essere considerate strumentali alla rieducazione
del condannato. Nell’occasione, la Corte aveva comunque sottolineato
«l’improrogabile necessita’ di predisporre adeguate misure», volte a
riparare le violazioni ai principi in tema di "equo processo",
accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ripresa quindi la trattazione del procedimento davanti alla Corte
d’appello rimettente, il Procuratore generale aveva eccepito
l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. sotto
un diverso profilo: quello, cioe’, della lesione dell’art. 117 Cost.
in riferimento all’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che sancisce
l’obbligo degli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze
definitive della Corte europea, rimuovendo ogni effetto contrario.
Ad avviso del giudice a quo, la questione sarebbe, in tale
termini, proponibile, in quanto basata su censure nuove e distinte
rispetto a quelle gia’ esaminate dalla Corte costituzionale. Indubbia
risulterebbe, altresi’, la sua rilevanza nel giudizio a quo. Allo
stato, infatti, le richieste di revisione che il rimettente e’
chiamato a delibare dovrebbero essere dichiarate inammissibili, ai
sensi dell’art. 634 cod. proc. pen., perche’ proposte fuori delle
ipotesi previste dall’art. 630 del medesimo codice: declaratoria che
lascerebbe, peraltro, «senza risposta» l’esigenza – suscettibile di
scaturire dall’eventuale assoluzione dell’imputato all’esito di un
nuovo processo – di riparare l’ingiusta detenzione (art. 314 cod.
proc. pen.) o l’errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.).
L’accoglimento della questione renderebbe, al contrario, ammissibili
le richieste, «con tutte le potenziali conseguenze».
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
rileva come, alla luce dei principi affermati dalla Corte
costituzionale nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le
disposizioni della CEDU – nell’interpretazione datane dalla Corte di
Strasburgo – costituiscano «norme interposte» ai fini della verifica
del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui
impone al legislatore di conformarsi agli obblighi internazionali:
con la conseguenza che, ove il giudice ravvisi un contrasto, non
componibile per via di interpretazione, tra una norma interna e una
norma della Convenzione, egli non puo’ disapplicare la norma interna,
ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalita’ in rapporto al
parametro dianzi indicato.
Il censurato art. 630 cod. proc. pen. risulterebbe, in effetti,
inconciliabile con la previsione dell’art. 46, paragrafo 1, della
CEDU, a fronte della quale gli Stati contraenti sarebbero tenuti ad
adeguare la propria legislazione alle norme della Convenzione, nel
significato loro attribuito dalla Corte europea: obbligo
internazionale che, nel caso di specie, la Corte di Strasburgo
avrebbe ritenuto violato con la sentenza precedentemente ricordata.
Si dovrebbe dunque concludere che l’art. 630 cod. proc. pen.
lede, sia pure indirettamente, l’art. 117, primo comma, Cost., nella
parte in cui – nell’individuare i casi di revisione – omette tuttora
di prevedere la rinnovazione del processo, allorche’ la sentenza o il
decreto penale di condanna siano in contrasto con una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia
accertato «l’assenza di equita’ del processo», ai sensi dell’art. 6
della CEDU.
2.1. – E’ intervenuto nel giudizio di costituzionalita’ il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, andrebbe escluso che
l’istituto della revisione, quale disciplinato dal codice di
procedura penale, rappresenti lo strumento adeguato per adempiere
l’obbligo internazionale richiamato dal rimettente.
Dalla sentenza di questa Corte n. 129 del 2008 emergerebbe,
infatti, con chiarezza come la fattispecie in discussione non sia
assimilabile al conflitto di giudicati contemplato dall’art. 630,
comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non sussistendo una
incompatibilita’, sotto il profilo «naturalistico», tra i fatti
ritenuti nella pronuncia nazionale e quelli ritenuti nella sentenza
della Corte europea.
La revisione e’, d’altra parte, configurata dal codice di rito
come un mezzo di impugnazione straordinario preordinato
esclusivamente al proscioglimento della persona gia’ condannata in
via definitiva; laddove, di contro, l’accertata violazione del
diritto all’equo processo non equivale a prova dell’innocenza: non
tutte le violazioni procedurali si riverberano, infatti, allo stesso
modo sulla condanna, la quale potrebbe essere eventualmente
confermata anche sottraendo l’elemento d’accusa «viziato».
Si dovrebbe, pertanto, ritenere che solo attraverso l’intervento
del legislatore possa essere introdotta una riapertura del processo
specificamente modulata sugli effetti delle sentenze della Corte
europea.
2.2. – Con successiva memoria, l’Avvocatura generale dello Stato
ha insistito per la declaratoria di inammissibilita’ o di
infondatezza della questione.
La difesa erariale osserva come l’inserimento della decisione
della Corte europea tra le ipotesi di revisione, nei termini
auspicati dal rimettente, finirebbe per risolversi – essendo il
ricorso a detta Corte subordinato al previo esaurimento dei rimedi
interni (art. 35, paragrafo 1, della CEDU) – nella creazione di un
«improvvido quarto grado di giudizio», atto a minare la coerenza
dell’intero sistema processuale penale.
L’istituto della revisione e’ infatti basato, per lunga
tradizione storica, sulla sopravvenienza di fatti oggettivi, esterni
all’iter processuale, che rendono logicamente ed eticamente doveroso
rimuovere gli effetti di una sentenza penale irrevocabile. Se si
consentisse la revisione a seguito di una mera rivalutazione degli
stessi fatti gia’ esaminati nei tre gradi di giudizio e poi
riesaminati dalla Corte europea, si innoverebbe profondamente tale
impianto, con evidenti rischi per alcune categorie di processi (quali
quelli contro la criminalita’ organizzata).
Occorrerebbe, in ogni caso, individuare una categoria di vizi
cosi’ assoluti da non essere sanati dal giudicato, stabilendo,
altresi’, a quali condizioni le violazioni accertate dalla Corte
europea possano dare luogo alla revisione, posto che non sempre dette
violazioni incidono sulla correttezza della decisione interna. In
quest’ottica, la revisione non costituirebbe, comunque, l’istituto
piu’ adatto a soddisfare le esigenze di adeguamento alle decisioni
dei Giudici di Strasburgo, anche per la sua rigidita’ riguardo
all’esito, scandito dalla secca alternativa tra la conferma della
sentenza di condanna e il proscioglimento: rigidita’ eliminabile solo
a seguito di modifiche talmente incisive da cambiare il volto
dell’istituto stesso.
Sotto altro profilo, poi, andrebbe tenuto conto delle differenze
qualitative tra responsabilita’ dello Stato derivanti da sentenze
della Corte europea che richiedono misure individuali di esecuzione,
e responsabilita’ dello Stato scaturenti da sentenze che richiedono
misure generali, come nel caso dell’espropriazione.
Nell’accertare violazioni dell’art. 6 della CEDU, la Corte di
Strasburgo avrebbe, in effetti – secondo l’Avvocatura dello Stato –
sempre adottato misure individuali a favore dei ricorrenti in sede di
equa riparazione, ai sensi dell’art. 41 della CEDU. Non avrebbe mai
espressamente invitato lo Stato italiano ad adottare una riforma,
ponendo vincoli conformativi, ma avrebbe ribadito piuttosto la sua
giurisprudenza, secondo la quale spetta allo Stato, sotto il
controllo del Comitato dei ministri, scegliere i mezzi per adempiere
nell’ordinamento nazionale agli obblighi scaturenti dall’art. 46
della CEDU.
Tutto cio’ conforterebbe la convinzione che spetti unicamente al
legislatore introdurre forme di riapertura del processo a seguito di
sentenze della Corte europea, calibrandole sulla specificita’ delle
diverse situazioni, nell’ottica di contemperare le esigenze della
certezza del diritto e quelle di tutela dei diritti (anche)
processuali dei soggetti che hanno subito una condanna.

Considerato in diritto

1. – La Corte di appello di Bologna dubita della legittimita’
costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione e all’art. 46 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, dell’art. 630 del
codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la
rinnovazione del processo allorche’ la sentenza o il decreto penale
di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte
[europea dei diritti dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di
equita’ del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».
La Corte rimettente e’ chiamata a delibare due richieste riunite
di revisione, aventi ad oggetto una sentenza di condanna a pena
detentiva, divenuta irrevocabile. Secondo quanto riferisce il giudice
a quo, le richieste farebbero seguito all’avvenuto accertamento, da
parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, del carattere "non
equo" del processo svoltosi nei confronti del condannato: cio’, in
quanto la condanna era stata emessa sulla base delle dichiarazioni
rese nel corso delle indagini preliminari da tre coimputati, non
esaminati in dibattimento perche’ si erano avvalsi della facolta’ di
non rispondere (e, dunque, in violazione del diritto dell’accusato a
interrogare o fare interrogare i testimoni a carico, garantito
dall’art. 6, paragrafo 3, lettera d, della CEDU).
Escluso che la descritta evenienza possa essere ricondotta ad
alcuno dei casi di revisione attualmente contemplati dall’art. 630
cod. proc. pen. – e, in particolare, a quello (invocato nella prima
delle richieste) della inconciliabilita’ tra giudicati, di cui al
comma 1, lettera a) – la Corte rimettente assume che, proprio per
questa ragione, la norma censurata risulterebbe inconciliabile con le
previsioni dell’art. 46 della CEDU. Nell’obbligare gli Stati
contraenti ad uniformarsi alle sentenze definitive della Corte
europea, la disposizione convenzionale ora citata li vincolerebbe,
infatti, a permettere la rinnovazione del processo, pur definito con
sentenza o decreto penale irrevocabile, allorche’ la Corte di
Strasburgo ne abbia accertato il carattere "non equo", ai sensi
dell’art. 6 della CEDU.
Di conseguenza, il denunciato art. 630 cod. proc. pen. verrebbe a
porsi, sia pure indirettamente, in contrasto con l’art. 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto
degli obblighi internazionali.
2. – In via preliminare, va osservato come la questione di
legittimita’ costituzionale in esame debba ritenersi ammissibile, in
quanto sostanzialmente diversa – pur nell’analogia delle finalita’
perseguite – rispetto a quella in precedenza sollevata dalla Corte di
appello di Bologna nel medesimo giudizio e dichiarata non fondata da
questa Corte con sentenza n. 129 del 2008.
Detta diversita’ si apprezza in rapporto a tutti e tre gli
elementi che compongono la questione: l’oggetto e’ piu’ ampio
(essendo sottoposto a scrutinio l’art. 630 cod. proc. pen. nella sua
interezza, e non la sola disposizione di cui al comma 1, lettera a),
nuovo e’ il parametro evocato e differenti sono anche le
argomentazioni svolte a sostegno della denuncia di
incostituzionalita’.
Non ricorre, pertanto, nella specie, la preclusione alla
riproposizione della questione nel medesimo grado di giudizio, volta
ad evitare un bis in idem che si risolverebbe nella impugnazione
della precedente decisione della Corte, inammissibile alla stregua
dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost. (al riguardo, tra le altre,
sentenze n. 477 del 2002, n. 225 del 1994 e n. 257 del 1991).
3. – Nel merito, la questione e’ fondata, nei termini di seguito
specificati.
4. – L’art. 46 della CEDU – evocato dal giudice a quo quale
«norma interposta» – impegna, al paragrafo 1, gli Stati contraenti «a
conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti
dell’uomo] sulle controversie di cui sono parti»; soggiungendo, al
paragrafo 2, che «la sentenza definitiva della Corte e’ trasmessa al
Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione».
Si tratta di previsione di centrale rilievo nel sistema europeo
di tutela dei diritti fondamentali, che fa perno sulla Corte di
Strasburgo: e’ evidente, infatti, come la consistenza dell’obbligo
primario nascente dalla CEDU a carico degli Stati contraenti –
riconoscere a ogni persona i diritti e le liberta’ garantiti dalla
Convenzione (art. 1) – venga a dipendere, in larga misura, dalle
modalita’ di "composizione" delle singole violazioni accertate.
Al riguardo, si deve rilevare come, successivamente all’ordinanza
di rimessione, l’art. 46 della CEDU sia stato modificato per effetto
dell’entrata in vigore (il 1° giugno 2010) del Protocollo n. 14 alla
Convenzione (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 15
dicembre 2005, n. 280). La modifica non elide, peraltro, le esigenze
poste a fondamento della questione di costituzionalita’, ma semmai le
rafforza. Tramite l’aggiunta di tre ulteriori paragrafi, si prevede,
infatti, che il Comitato dei ministri possa chiedere alla Corte di
Strasburgo una decisione interpretativa, quando vi siano dubbi circa
il contenuto di una sentenza definitiva in precedenza adottata, tali
da ostacolare il controllo sulla sua esecuzione (paragrafo 3
dell’art. 46); nonche’, soprattutto, che possa chiedere alla Corte
una ulteriore pronuncia, la quale accerti l’avvenuta violazione
dell’obbligo per una Parte contraente di conformarsi alle sue
sentenze (paragrafi 4 e 5). Viene introdotto, cosi’, uno specifico
procedimento di infrazione, atto a costituire un piu’ incisivo mezzo
di pressione nei confronti dello Stato convenuto.
Quanto, poi, ai contenuti dell’obbligo, l’art. 46 va letto in
combinazione sistematica con l’art. 41 della CEDU, a mente del quale,
«se la Corte dichiara che vi e’ stata violazione della Convenzione o
dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte
contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le
conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso,
un’equa soddisfazione alla parte lesa».
A questo proposito, e’ peraltro consolidata, nella piu’ recente
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’affermazione in forza
della quale, «quando la Corte constata una violazione, lo Stato
convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli
interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma
anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali
necessarie» (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia, punto 147; Grande Camera, sentenza 1° marzo
2006, Sejdovic contro Italia, punto 119; Grande Camera, sentenza 8
aprile 2004, Assanidze’ contro Georgia, punto 198). Cio’ in quanto,
alla luce dell’art. 41 della CEDU, le somme assegnate a titolo di
equo indennizzo mirano unicamente ad «accordare un risarcimento per i
danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi
costituiscano una conseguenza della violazione che non puo’ in ogni
caso essere cancellata» (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta
contro Italia, punto 250).
La finalita’ delle misure individuali che lo Stato convenuto e’
tenuto a porre in essere e’, per altro verso, puntualmente
individuata dalla Corte europea nella restitutio in integrum in
favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioe’, «il
ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a
quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza
[…] della Convenzione» (ex plurimis, Grande Camera, sentenza 17
settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 151; sentenza 10
novembre 2004, Sejdovic contro Italia, punto 55; sentenza 18 maggio
2004, Somogyi contro Italia, punto 86). In quest’ottica, lo Stato
convenuto e’ chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a
livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento
dell’obiettivo: «ratificando la Convenzione», difatti, «gli Stati
contraenti si impegnano a far si’ che il loro diritto interno sia
compatibile con quest’ultima» e, dunque, anche ad «eliminare, nel
proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un
adeguato ripristino della situazione del ricorrente» (Grande Camera,
sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande
Camera, sentenza 8 aprile 2004, Assanidze’ contro Georgia, punto
198).
Con particolare riguardo alle infrazioni correlate allo
svolgimento di un processo, e di un processo penale in specie, la
Corte di Strasburgo, muovendo dalle ricordate premesse, ha
identificato nella riapertura del processo il meccanismo piu’ consono
ai fini della restitutio in integrum, segnatamente nei casi di
accertata violazione delle garanzie stabilite dall’art. 6 della
Convenzione. Cio’, in conformita’ alle indicazioni gia’ offerte dal
Comitato dei ministri, in particolare nella Raccomandazione R(2000)2
del 19 gennaio 2000, con la quale le Parti contraenti sono state
specificamente invitate «ad esaminare i rispettivi ordinamenti
giuridici nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate
possibilita’ di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di
procedimenti, laddove la Corte abbia riscontrato una violazione della
Convenzione».
I Giudici di Strasburgo hanno affermato, in specie – con
giurisprudenza ormai costante – che, quando un privato e’ stato
condannato all’esito di un procedimento inficiato da inosservanze
dell’art. 6 della Convenzione, il mezzo piu’ appropriato per porre
rimedio alla violazione constatata e’ rappresentato, in linea di
principio, «da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento,
su domanda dell’interessato», nel rispetto di tutte le condizioni di
un processo equo (ex plurimis, sentenza 11 dicembre 2007, Cat Berro
contro Italia, punto 46; sentenza 8 febbraio 2007, Kollcaku contro
Italia, punto 81; sentenza 21 dicembre 2006, Zunic contro Italia,
punto 74; Grande Camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro
Turchia, punto 210). Cio’, pur dovendosi riconoscere allo Stato
convenuto una discrezionalita’ nella scelta delle modalita’ di
adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato dei
ministri e nei limiti della compatibilita’ con le conclusioni
contenute nella sentenza della Corte (tra le molte, Grande Camera,
sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande
Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punti 119 e
127; Grande camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia,
punto 210).
5. – Si comprende, peraltro, come al fine di assicurare la
restitutio in integrum della vittima della violazione, nei sensi
indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione
il giudicato gia’ formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata.
L’avvenuto esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti,
condizione imprescindibile di legittimazione per il ricorso alla
Corte di Strasburgo (art. 35, paragrafo 1, della CEDU): con la
conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di principio, su
vicende gia’ definite a livello interno con decisione irrevocabile.
In tale prospettiva, larga parte degli Stati membri del Consiglio
d’Europa – soprattutto dopo la citata Raccomandazione R(2000)2 – si
e’ dotata di una apposita disciplina, intesa a permettere la
riapertura del processo penale riconosciuto "non equo" dalla Corte
europea; mentre in altri Paesi, pure in assenza di uno specifico
intervento normativo, la riapertura e’ stata comunque garantita da
una applicazione estensiva del mezzo straordinario di impugnazione
gia’ previsto dalla legislazione nazionale.
La situazione si presenta significativamente diversa
nell’ordinamento italiano. L’impossibilita’ di avvalersi, ai fini
considerati, del mezzo straordinario di impugnazione storicamente
radicato nel sistema processuale penale – cioe’, la revisione – e’,
infatti, generalmente riconosciuta, non essendo l’ipotesi in
questione riconducibile ad alcuno dei casi attualmente contemplati
dall’art. 630 cod. proc. pen. Tale insieme di casi riflette,
d’altronde, la tradizionale configurazione dell’istituto quale
strumento volto a comporre il dissidio tra la "verita’ processuale",
consacrata dal giudicato, e la "verita’ storica", risultante da
elementi fattuali "esterni" al giudicato stesso. Si tratta, in altre
parole, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da parte del
giudice del fatto storico-naturalistico: difetto che puo’ emergere
per contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte da quella
oggetto di denuncia (lettere a e b dell’art. 630 cod. proc. pen.);
per insufficiente conoscenza degli elementi probatori al momento
della decisione (lettera c), o per effetto di dimostrata condotta
criminosa (lettera d). Al tempo stesso, la revisione risulta
strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona gia’
condannata: obbiettivo, che si trova immediatamente espresso come
oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneita’ dimostrativa degli
elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 cod.
proc. pen. eleva a condizione di ammissibilita’ della domanda stessa.
Nel caso di accertamento, da parte della Corte di Strasburgo,
della violazione dell’art. 6 della CEDU la prospettiva e’ affatto
diversa. Si tratta, in tal caso, di porre rimedio, oltre i limiti del
giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con
riguardo agli errores in procedendo), a un "vizio" interno al
processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l’interessato
nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione.
Rimediare al difetto di "equita’" di un processo, d’altro canto, non
significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio: chi e’
stato condannato, ad esempio, da un giudice non imparziale o non
indipendente – secondo la valutazione della Corte europea – deve
vedersi assicurato un nuovo processo davanti a un giudice rispondente
ai requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, senza che
tale diritto possa rimanere rigidamente subordinato a un determinato
tipo di pronostico circa il relativo esito (il nuovo processo
potrebbe bene concludersi, ad esempio, anziche’ con l’assoluzione,
con una condanna, fermo naturalmente il divieto della reformatio in
peius).
Esclusa, dunque, la fruibilita’ dell’istituto della revisione, la
giurisprudenza ha sperimentato diverse soluzioni ermeneutiche intese
a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla CEDU, superando le
preclusioni connesse al giudicato. Per comune convincimento,
tuttavia, si tratta di soluzioni parziali e inidonee alla piena
realizzazione dell’obiettivo.
La notazione vale, anzitutto, con riguardo alla soluzione che fa
leva sull’altro mezzo straordinario di impugnazione introdotto piu’
di recente nell’ordinamento, ossia il ricorso straordinario per
errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati
dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.); rimedio che
la giurisprudenza di legittimita’ ha ritenuto utilizzabile, in via
analogica, al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte di
Strasburgo che abbiano accertato violazioni di garanzie
convenzionali, ancorche’ non dipese da mero errore percettivo (Cass.,
12 novembre 2008-11 dicembre 2008, n. 45807; si veda anche Cass., 11
febbraio 2010-28 aprile 2010, n. 16507). A prescindere da ogni altro
rilievo, lo strumento previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. non
puo’ comunque rappresentare una risposta esaustiva al problema,
risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei
processi a fronte di violazioni che non si siano verificate
nell’ambito del giudizio di cassazione (quale quella riscontrata
nella vicenda oggetto del giudizio a quo).
Analoga conclusione si impone in riferimento all’impiego
dell’istituto della restituzione in termini per la proposizione
dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.): trattandosi
di meccanismo che, in ragione del dettato della norma ora citata,
risulta utilizzabile – ed e’ stato in fatto utilizzato dalla
giurisprudenza – unicamente per porre rimedio alle violazioni della
CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale (tra le
altre, Cass., 12 febbraio 2008-27 febbraio 2008, n. 8784; Cass., 15
novembre 2006-2 febbraio 2007, n. 4395). Ipotesi che non viene
parimenti in rilievo nel giudizio a quo.
Ma la valutazione non muta neppure con riguardo all’ulteriore
soluzione interpretativa praticata proprio in relazione alla vicenda
oggetto del presente giudizio in sede di esecuzione del giudicato e
che fa perno sull’incidente di esecuzione regolato dall’art. 670 cod.
proc. pen. (supra, punto 1 del Ritenuto in fatto). Si tratta, in
specie, della tesi secondo la quale, quando la Corte europea abbia
accertato che la condanna e’ stata pronunciata in violazione delle
regole sull’equo processo, riconoscendo il diritto del condannato
alla rinnovazione del giudizio, il giudice dell’esecuzione sarebbe
tenuto a dichiarare l’ineseguibilita’ del giudicato, ancorche’ il
legislatore abbia omesso di introdurre «un mezzo idoneo a instaurare
il nuovo processo» (Cass., 1° dicembre 2006-25 gennaio 2007, n.
2800). Al di la’ di ogni altra possibile considerazione, il rimedio
si rivela, infatti, inadeguato: esso "congela" il giudicato,
impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo
indeterminato in una sorta di "limbo processuale". Soprattutto, la
mera declaratoria di ineseguibilita’ non da’ risposta all’esigenza
primaria: quella, cioe’, della riapertura del processo, in condizioni
che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla
Convenzione.
6. – L’assenza, nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio
diretto a tale fine e’ stata, d’altronde, reiteratamente
stigmatizzata dagli organi del Consiglio d’Europa, anche e
soprattutto in rapporto al caso concernente il condannato nel
giudizio a quo.
A questo proposito, occorre preliminarmente rilevare – a
rettifica di quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione – che la
Corte europea dei diritti dell’uomo non si e’, in realta’, mai
pronunciata sulla detta vicenda. L’atto che il giudice rimettente
qualifica come «sentenza del 9 settembre 1998» della Corte di
Strasburgo, e’, in effetti, un rapporto di pari data della
Commissione europea dei diritti dell’uomo (organo soppresso dal
Protocollo n. 11): rapporto che e’ stato recepito dal Comitato dei
ministri con decisione del 15 aprile 1999 (Risoluzione interinale
DH(99)258). Ai sensi dell’art. 32 della CEDU, nel testo anteriore
all’entrata in vigore del Protocollo n. 11 (avvenuta il 1° novembre
1998, ma con applicazione della disciplina previgente ai casi
pendenti a detta data, in forza della disposizione transitoria di cui
all’art. 5), il Comitato dei ministri era, infatti, competente a
deliberare sui casi pervenuti al suo esame dopo la redazione di un
rapporto da parte della Commissione europea, cui non seguisse il
deferimento entro tre mesi della controversia alla Corte di
Strasburgo.
La circostanza ora evidenziata non influisce, tuttavia, sulla
rilevanza della questione, giacche’ in forza dell’originario art. 32,
paragrafo 4, della CEDU, le decisioni del Comitato dei ministri erano
vincolanti per gli Stati contraenti allo stesso modo delle sentenze
definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo: avendosi,
quindi – ora per allora – una piena equivalenza delle une alle altre
ai fini considerati.
Proprio in questa prospettiva, tanto il Comitato dei ministri
(Risoluzioni interinali ResDH(2000) 30 del 19 febbraio 2002,
ResDH(2004)13 del 10 febbraio 2004 e ResDH(2005)85 del 12 ottobre
2005), quanto l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (si
veda, tra le altre, la Risoluzione n. 1516(2006) del 2 ottobre 2006)
hanno censurato, in toni via via piu’ pressanti, l’inadempienza
dell’Italia all’obbligo di rimuovere le conseguenze della violazione
accertata nel caso in esame: inadempienza correlata appunto alla
mancanza, nell’ordinamento interno, di un meccanismo atto a
consentire la riapertura del processo dichiarato "non equo".
La sollecitazione ad introdurre, «il piu’ rapidamente possibile»,
un simile meccanismo e’ stata nuovamente rivolta alle autorita’
italiane dal Comitato dei ministri anche in occasione della decisione
di chiusura della procedura di controllo relativa a detto caso:
decisione adottata dopo la ricordata pronuncia della Corte di
cassazione che aveva dichiarato ineseguibile il giudicato formatosi
nei confronti del condannato, ordinandone la liberazione (Risoluzione
finale CM/ResDH(2007)83 del 19 febbraio 2007).
7. – In sede di scrutinio della ricordata precedente questione di
legittimita’ costituzionale, sollevata dalla Corte di appello di
Bologna nell’ambito del medesimo giudizio (supra, punto 1 del
Ritenuto in fatto), questa Corte ha gia’ avuto modo di rimarcare
come, alla luce delle vicende dianzi riassunte, la predisposizione di
adeguate misure volte a riparare, sul piano processuale, le
conseguenze scaturite da accertate violazioni del diritto all’equo
processo si ponesse in termini di «evidente, improrogabile
necessita’» (sentenza n. 129 del 2008).
Cio’, tuttavia, non ha potuto impedire che tale questione – per i
termini in cui era stata formulata – si dovesse dichiarare non
fondata.
Il quesito di costituzionalita’ era diretto, infatti, ad
estendere all’ipotesi considerata lo specifico caso di revisione
previsto dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., sulla
base della denunciata violazione degli artt. 3, 10 e 27 Cost. Al
riguardo, si e’ rilevato come nessuno dei parametri evocati –
principio di eguaglianza; presunzione di innocenza, intesa come norma
di diritto internazionale generalmente riconosciuta; finalita’
rieducativa della pena – risultasse pertinente. Non il primo, stante
l’eterogeneita’ della situazione descritta dal citato art. 630, comma
1, lettera a), cod. proc. pen. rispetto a quella posta a raffronto:
giacche’ il concetto di inconciliabilita’ tra sentenze irrevocabili,
evocato dalla norma del codice, attiene all’oggettiva
incompatibilita’ tra i «fatti» (intesi in senso
storico-naturalistico) su cui si fondano le decisioni, e non alla
contraddittorieta’ logica delle valutazioni in esse effettuate. Non
il secondo, poiche’ l’art. 10, primo comma, Cost. non comprende le
norme pattizie che non riproducano principi o norme consuetudinarie
del diritto internazionale; cio’, senza considerare che la
«presunzione di innocenza» non ha, di per se’, «nulla a che vedere
con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali errores,
in procedendo o in iudicando che siano», dissolvendosi – quella
presunzione – nel momento stesso in cui il processo giunge al suo
epilogo. Neppure, da ultimo, era conferente il terzo parametro, posto
che la pretesa del rimettente di assegnare alle regole del «giusto
processo» una funzione strumentale alla «rieducazione» del condannato
avrebbe determinato «una paradossale eterogenesi dei fini, che
vanificherebbe – questa si’ – la stessa presunzione di non
colpevolezza» (sentenza n. 129 del 2008).
Nel respingere la questione, questa Corte non ha mancato,
tuttavia, di rivolgere un «pressante invito» al legislatore,
affinche’ colmasse, con i provvedimenti ritenuti piu’ idonei, la
lacuna normativa in contestazione. Ma, nonostante il tempo trascorso,
tale esortazione e’ rimasta senza seguito.
8. – A diversa conclusione deve pervenirsi circa la questione di
legittimita’ costituzionale oggi in esame, la quale, per un verso,
investe l’art. 630 cod. proc. pen. nel suo complesso, e, per altro
verso, viene proposta in riferimento al diverso e piu’ appropriato
parametro espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., assumendo,
quale «norma interposta», l’art. 46 (in correlazione all’art. 6)
della CEDU.
A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la
giurisprudenza di questa Corte e’ costante nel ritenere che le norme
della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse
interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della
Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro
costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella
parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1 del
2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n.
39 del 2008; sulla perdurante validita’ di tale ricostruzione anche
dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre
2007, sentenza n. 80 del 2011). Prospettiva nella quale, ove si
profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma
della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la
praticabilita’ di una interpretazione della prima in senso conforme
alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua
disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a
cio’ rimediare tramite la semplice non applicazione della norma
interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata
incompatibilita’, proponendo questione di legittimita’ costituzionale
in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte
costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare
l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta
legittimata a verificare se la norma della Convenzione – la quale si
colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga
eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione:
ipotesi nella quale dovra’ essere esclusa la idoneita’ della norma
convenzionale a integrare il parametro considerato.
Nella specie, si e’ gia’ rimarcato (supra, punto 4 del
Considerato in diritto) come la Corte di Strasburgo ritenga, con
giurisprudenza ormai costante, che l’obbligo di conformarsi alle
proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti contraenti
dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, comporti anche l’impegno degli
Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su
richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai
fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di
violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione,
particolarmente in tema di equo processo.
Tale interpretazione non puo’ ritenersi contrastante con le
conferenti tutele offerte dalla Costituzione. In particolare – pur
nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilita’
della cosa giudicata – non puo’ ritenersi contraria a Costituzione la
previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza
di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate
dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria
nel suo complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali
della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni
dell’art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel
vigente testo dell’art. 111 Cost.
Il giudice a quo ha, per altro verso, non ingiustificatamente
individuato nell’art. 630 cod. proc. pen. la sedes dell’intervento
additivo richiesto: la revisione, infatti – comportando, quale mezzo
straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del
processo, che implica una ripresa delle attivita’ processuali in sede
di cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove – costituisce
l’istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale
penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui
introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformita’
dell’ordinamento nazionale al parametro evocato.
Contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura dello Stato,
d’altro canto, all’accoglimento della questione non puo’ essere di
ostacolo la circostanza che – come pure si e’ avuto modo di rilevare
(supra, punto 5 del Considerato in diritto) – l’ipotesi della
riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla CEDU
risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione attualmente
contemplati dalla norma censurata, sia perche’ fuoriesce dalla
logica, a questi sottesa, della composizione dello iato tra "verita’
processuale" e "verita’ storica", emergente da elementi "esterni" al
processo gia’ celebrato; sia perche’ a detta ipotesi non si attaglia
la rigida alternativa, prefigurata dalla disciplina vigente quanto
agli esiti del giudizio di revisione, tra proscioglimento e conferma
della precedente condanna.
Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via
interpretativa – tanto piu’ se attinente a diritti fondamentali – la
Corte e’ tenuta comunque a porvi rimedio: e cio’, indipendentemente
dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al
contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente
pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Ne’,
per risalente rilievo di questa Corte (sentenza n. 59 del 1958), puo’
essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimita’
costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o
apparente – che da essa puo’ derivarne, in ordine a determinati
rapporti. Spettera’, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre
dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo,
avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e,
dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare,
nel modo piu’ sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero
bisognevoli di apposita regolamentazione.
Nella specie, l’art. 630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo proprio perche’ (e nella parte in cui)
non contempla un «diverso» caso di revisione, rispetto a quelli ora
regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito
con una delle pronunce indicate nell’art. 629 cod. proc. pen.) la
riapertura del processo – intesa, quest’ultima, come concetto di
genere, funzionale anche alla rinnovazione di attivita’ gia’
espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando
la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46,
paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva
della Corte europea dei diritti dell’uomo (cui, per quanto gia’
detto, va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri
a norma del precedente testo dell’art. 32 della CEDU).
La necessita’ della riapertura andra’ apprezzata – oltre che in
rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (e’ di
tutta evidenza, cosi’, ad esempio, che non dara’ comunque luogo a
riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata del
processo, di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa
delle attivita’ processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo
naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della
cui esecuzione si tratta, nonche’ nella sentenza "interpretativa"
eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei
ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della CEDU.
S’intende, per altro verso, che, quando ricorra l’evenienza
considerata, il giudice dovra’ procedere a un vaglio di
compatibilita’ delle singole disposizioni relative al giudizio di
revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni
che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con
l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui
si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non gia’
rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del
giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra
tutte – per quanto si e’ osservato – quelle che riflettono la
tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo
proscioglimento del condannato. Cosi’, per esempio, rimarra’
inoperante la condizione di ammissibilita’, basata sulla prognosi
assolutoria, indicata dall’art. 631 cod. proc. pen.; come pure
inapplicabili saranno da ritenere – nei congrui casi – le previsioni
dei commi 2 e 3 dell’art. 637 cod. proc. pen. (secondo le quali,
rispettivamente, l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro
il proscioglimento dell’interessato, e il giudice non lo puo’
pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione
delle prove assunte nel precedente giudizio).
Occorre considerare, d’altro canto, che l’ipotesi di revisione in
parola comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza
di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per
cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa
prospettiva, il giudice della revisione valutera’ anche come le cause
della non equita’ del processo rilevate dalla Corte europea si
debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla
stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i
conseguenti provvedimenti per eliminarli.
9. – Giova ribadire e sottolineare che l’incidenza della
declaratoria di incostituzionalita’ sull’art. 630 cod. proc. pen. non
implica una pregiudiziale opzione di questa Corte a favore
dell’istituto della revisione, essendo giustificata soltanto
dall’inesistenza di altra e piu’ idonea sedes dell’intervento
additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di
regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione
di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento
alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di
dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non
potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali
(quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la
presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere
dalla definitivita’ della sentenza della Corte europea). Allo stesso
modo, rimane affidata alla discrezionalita’ del legislatore la scelta
dei limiti e dei modi nei quali eventualmente valorizzare le
indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri
del Consiglio d’Europa, piu’ volte richiamata, nella parte in cui
prospetta la possibile introduzione di condizioni per la riapertura
del procedimento, collegate alla natura delle conseguenze prodotte
dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima della
violazione accertata (punto II, i e ii).

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 630 del codice
di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso
di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine
di conseguire la riapertura del processo, quando cio’ sia necessario,
ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei
diritti dell’uomo.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 aprile 2011.

Il Presidente: De Siervo

Il redattore: Frigo

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 7 aprile 2011

Il cancelliere: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *