Cass. Pen., sez. I, 22.11. 2011, n. 40993. La maternità è un’articolata esperienza psicologica individuale”. Una lettura in chiave soggettiva della nozione di abbandono materiale e morale dell’art. 578 c.p.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

RITENUTO IN FATTO
1. Il 24 giugno 2008 il gup del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava G.M.R. colpevole dei delitti di omicidio volontario aggravato in danno del proprio figlio (art. 575 c.p, art. 577 c.p., n. 1) e di occultamento di cadavere (artt. 412, 61 n. 2 c.p.) e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, dichiarate equivalenti alla contestata aggravante, la condannava alla pena di sedici anni di reclusione.
2. Il giorno 1 dicembre 2009 la Corte d’assise d’appello di Napoli, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava le già concesse circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e, per l’effetto, rideterminava la pena di dodici anni di reclusione, confermando nel resto la decisione di primo grado.
3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva la seguente ricostruzione dei fatti. Il (OMISSIS), verso l’alba, l’imputata partoriva nel bagno di casa, senza l’assistenza e l’aiuto di alcuno dei familiari, un bambino, provvedendo poi da sola al taglio del cordone ombelicale con un paio di forbici prelevate in cucina. Imbavagliato il neonato, lo avvolgeva, una volta che aveva smesso di dare segni di vita, in un sacco dell’immondizia e lo gettava nel cassonetto dei rifiuti, posto nel piazzale antistante l’abitazione.
I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità della G. sulla base di plurimi e concordanti elementi probatori.
L’autopsia evidenziava che il piccolo aveva respirato dopo il parto, che la morte doveva essere collocata in un momento successivo alla nascita e che la causa del decesso era riconducibile all’asfissia, dovuta all’occlusione degli orifizi respiratori.
La Dott.ssa B., riferiva di avere sottoposto a visita ginecologica e a controllo ecografia), intorno alle ore (OMISSIS) del (OMISSIS), presso la casa di cura S. Michele di (OMISSIS), la G., che si era rivolta a lei riferendo di essere incinta e di non avvertire movimenti fetali dal giorno precedente. In tale occasione aveva riscontrato lacerazioni vaginali, presumibilmente derivanti da parto spontaneo, e un aumento di volume dell’utero, tipico della fase puerperale iniziale. A seguito di sue reiterate sollecitazione volte a conoscere la reale dinamica dei fatti, la G. dapprima aveva dichiarato di avere partorito un bambino morto e di averlo affidato al padre per le esequie e, infine, aveva ammesso di avere personalmente posto il corpo del neonato nel bidone dell’immondizia davanti alla sua abitazione.
Le attività di indagine immediatamente svolte dai Carabinieri portavano effettivamente al rinvenimento in tale luogo del corpo di un neonato, raggomitolato in posizione fetale, avvolto in un sacco dell’immondizia, insieme a due pannoloni e ad un asciugamano intriso di sangue. Intorno al viso del piccolo era stata stretta con forza – tale da produrre escoriazioni di secondo grado e da determinare il ristagno della circolazione sanguigna – una canottiera che occludeva la bocca e il naso, mentre il cordone ombelicale risultava reciso, ma non annodato.
L’imputata, sottoposta a numerosi interrogatori, dichiarava che il bambino era nato da una relazione con uomo sposato, Z. S., di ventotto anni più grande, il quale, preannunciando il suo rifiuto di riconoscere in futuro il bambino, aveva riservato alla donna ogni decisione sulla sua sorte. Aggiungeva di avere taciuto la notizia della gravidanza ai familiari per paura delle loro reazioni.
Gli esami genetici svolti attribuivano proprio al suddetto Z. la paternità del piccolo.
I familiari dell’imputata ( D.V.F. e G. M., rispettivamente madre e padre, V. e G. A., fratelli) riferivano concordemente di non essersi accorti dello stato di gravidanza di M.R., pur ammettendo (cfr. testimonianze di V. e G.A.) di avere notato un forte aumento di peso della donna, di costituzione minuta.
Aggiungevano di non avere percepito alcun rumore o movimento strano la mattina del (OMISSIS) e di non essersi insospettiti per la presenza di macchie di sangue sul pavimento della cucina e di asciugamani sporchi di sangue in bagno, nonchè per la prolungata permanenza in bagno di M.R. e per la sua evidente spossatezza.
Da altre deposizioni ( D.L.C., V.D.F., Z.S.) emergeva, invece, che era immediatamente percepibile lo stato di gravidanza di G.M.R. che, però, non aveva mai formato oggetto di commenti espliciti con i parenti più stretti della giovane a causa del loro comportamento improntato alla più totale negativa. Il timore della violenta reazione dei propri familiari era anche alla base del netto rifiuto opposto da G.M.R. a qualsiasi offerta di aiuto nel dare notizia ai genitori della sua condizione.
Dagli accertamenti svolti e dalle dichiarazioni rese da G. M. risultava che l’imputata e i suoi parenti vivevano in un’abitazione composta da due stanze: una camera da letto matrimoniale, in uso alla nonna dell’imputata (che occupava un letto singolo), a G.M.R. e alla madre (le quali dormivano insieme nel letto matrimoniale); un soggiorno, arredato con un divano letto e due poltrone letto, ove dormivano il padre e i fratelli della ricorrente. Risultava, inoltre, che la donna era priva di occupazione, mentre in precedenza aveva lavorato in un asilo nido.
4. Il fatto veniva qualificato dai giudici di merito come omicidio volontario e non come infanticidio in condizioni di abbandono materiale o morale (secondo quanto prospettato dalla difesa), atteso che tale stato aveva costituito un fatto contingente legato al momento culminante della gravidanza e al rifiuto del padre del bambino di riconoscerlo e prendersene a causa dello stato di coniugio con un’altra donna, ma non si era tradotto nell’isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale. A sostegno di tale conclusione venivano richiamate, in particolare, le dichiarazioni rese da D.L.C. (marito di G.M.), evidenzianti la disponibilità al sostegno economico o logistico dell’imputata, e le risultanze della consulenza psichiatrica che aveva concluso per la piena capacità di intendere e di volere della G. al momento del fatto e aveva argomentato che tutte le sue manifestazioni psichiche (nevrosi ansioso-depressiva di tipo reattivo) erano palesemente riconducibili ad un evento esterno, identificabile nella perdita di una persona cara, mentre non sussistevano elementi indicativi di un "particolare abbandono morale e materiale nella quale si sarebbe trovata la giovane donna" (cfr. f.
5 della sentenza di primo grado).
5. Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, G.M.R., la quale formula le seguenti doglianze.
Innanzitutto lamenta violazione di legge con riferimento all’esclusione dell’ipotesi prevista dall’art. 578 c.p., fondata su un’erronea lettura degli elementi probatori acquisiti in merito alle condizioni di abbandono morale e materiale in cui versava l’imputata, tenuto conto del contesto di isolamento, ipocrisia, negazione, degrado socio-economico in cui è maturato il gesto della donna, dello scarso livello culturale della famiglia G., ancorata ad una visione arcaica della vita e dei rapporti interpersonali, nonchè della scarsa credibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da D.L.. Le conclusioni della sentenza non appaiono coerenti con il complessivo quadro probatorio acquisito, sicchè lo sviluppo dell’iter argomentativo del provvedimento impugnato è caratterizzato da insanabili contraddizioni.
Deduce, in secondo luogo, violazione di legge in relazione alla ritenuta configurabilità del delitto previsto dall’art. 412 c.p., tenuto conto del fatto che fu proprio l’imputata a far ritrovare il cadavere del neonato. In subordine sollecita l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, alla luce della condotta collaborativa serbata dalla G..
Con un quarto e ultimo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e carenza della motivazione in ordine alla dosimetria della pena.
6. All’udienza pubblica del 7 ottobre 2010 il Collegio respingeva, per insussistenza dei presupposti di legge, l’istanza di rinvio fatta pervenire dal difensore dell’imputata.
OSSERVA IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso, avente carattere pregiudiziale ed assorbente rispetto al quarto, è fondato.
1. La sentenza d’appello ha escluso l’ipotesi dell’infanticidio in base alla considerazione che la situazione di abbandono materiale e morale non può essere intesa come fatto contingente, ma come una condizione di vita che si sostanzia nell’isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale, isolamento produttivo di un profondo turbamento spirituale che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza.
Sulla base di tale premessa i giudici di merito osservavano che, nel caso di specie, la G., per sua libera scelta, non aveva rivelato ai familiari di essere incinta e che la paura di parlare dello stato di gravidanza non era riconducibile ad "una situazione di fatto a lei oggettivamente ostile, ma piuttosto ad una supposizione, probabilmente fondata, di una reazione non favorevole", considerato l’ambiente sociale, familiare, culturale in cui s’inquadra la vicenda. Per confutare la configurabilità dello stato di abbandono, veniva, inoltre, essere messa in luce la circostanza che uno dei familiari ( D.L.C.) della donna, rendendosi conto della sua grande solitudine, si era offerto di aiutarla non solo da un punto di vista economico e logistico, ma anche nel comunicare la notizia ai suoi genitori, ricevendo, peraltro, un netto rifiuto correlato al timore di violente reazioni.
2. L’interpretazione dell’art. 578 c.p., contenuta nella sentenza impugnata, non appare corretta.
L’attuale formulazione del reato di infanticidio è il risultato di un lungo e travagliato iter parlamentare conclusosi nel 1981.
Il codice del 1930, innovando la previsione contenuta nel codice Z., che lo inseriva tra le attenuanti dell’omicidio, provvedeva ad un inquadramento giuridico autonomo della fattispecie, costruita su un referente tutto sociologico: la ragione di un attenuato rigore sanzionatorio veniva individuata nella causa d’onore, ossia nella necessità, in adesione alle concezioni sociali del momento, di salvare il proprio onore sessuale. La validità di una simile scelta legislativa è stata successivamente messa in forse dai rapidi mutamenti occorsi nel costume e nella sensibilità sociale in materia di rapporti familiari, tali da indurre ad una riformulazione della fattispecie con la L. 5 agosto 1981, n. 442.
La ragione giustificativa della fattispecie novellata e del differente regime sanzionatorio rispetto al delitto di omicidio volontario deve essere colta non sotto il profilo oggettivo, trattandosi comunque di un’offesa arrecata al bene giuridico della vita umana, bensì sul piano soggettivo, dato che il fatto è meno "colpevole" in considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà in cui esso viene a collocarsi.
Espressione di questa ratio della norma sono la sua configurazione come reato proprio (soggetto attivo del reato è, infatti, la madre e non "chiunque") e il differente regime sanzionatorio previsto nei confronti dei correi a seconda che abbiano o meno agito "al solo scopo di favorire la madre".
Gli elementi specializzanti la fattispecie oggettiva sono due: a) il dato cronologico, atteso che il fatto deve essere commesso durante o "immediatamente dopo" il parto; b) le condizioni di "abbandono materiale e morale" della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione.
3. E’ indubbio e incontestato che le condizioni di "abbandono materiale e morale" debbono sussistere oggettivamente e congiuntamente e devono essere connesse al parto, nel senso che, in conseguenza della loro obiettiva esistenza, la madre non ritiene di potere assicurare la sopravvivenza del figlio subito dopo il parto (Sez. 1^, 26 maggio 1993, Paniconi, 194870; Sez. 1, 16 aprile 1985, Vicario, 170384).
Ciò posto, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano orientamenti interpretativi difformi sull’interpretazione della nozione di "abbandono materiale e morale", contraddistinta da una portata semantica assai lata ed incerta.
Alla stregua di un primo indirizzo, la situazione di abbandono richiesta dalla norma si configura soltanto quando, da un punto di vista oggettivo, la donna, al momento del parto, si trova in una situazione "di assoluta derelizione ovvero di isolamento tale che non consente l’intervento o l’aiuto di terzi nè un qualsiasi soccorso fisico o morale" (Sez. 1^, 26 maggio 1993, n. 7756; Sez. 1^, 3 ottobre 1986, n. 1007; Sez. 1^, 15 aprile 1999, n. 9694; Sez. 1^, 9 marzo 2000, n. 2906; Sez. 1^, 17 aprile 2007, n. 24903).
In tale contesto esegetico si collocano alcune decisioni – espressamente richiamate, in senso adesivo, dalla sentenza impugnata – che riducono ulteriormente l’ambito applicativo della norma, argomentando che lo stato di abbandono della madre non deve essere determinato da una situazione contingente correlata al momento culminante della gravidanza, ma deve esistere da tempo e costituire una condizione di vita, che si sostanzia nell’isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale, produttivo di un profondo turbamento spirituale, che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza, in molte partorienti immuni da processi morbosi mentali e, tuttavia, coinvolte psichicamente al punto da smarrire almeno in parte il lume della ragione (Sez. 1^, 25 novembre 1999, n. 1387; Sez. 1, 7 ottobre 2009, n. 41889).
Questa interpretazione restrittiva della nozione di "abbandono materiale e morale" mal si concilia con una lettura logico- sistematica e con la ratio della norma, il cui ambito applicativo viene relegato ad alcune ipotesi del tutto eccezionali e di scuola in cui, come osserva un’autorevole dottrina, la donna si trova a partorire "in una landa molto isolata, oggettivamente priva di qualunque assistenza".
Un diverso e minoritario indirizzo interpreta, invece, il requisito dell’abbandono materiale e morale in senso "individualizzante" e ritiene applicabile la fattispecie prevista dall’art. 578 c.p., anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto di presidi sanitari (Sez. 1^, 13 giugno 1991, n. 8489) o di altre strutture, ma la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna le impedisce di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione. In tale prospettiva, ai fini della configurazione del reato, è stata ritenuta irrilevante la disponibilità, da parte dell’imputata, di idonei mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare totalmente indifferente al dramma umano della donna (Sez. 1^, 16 aprile 1985, n. 7997; Sez. 1^, 15 aprile 1999, n. 9694). Nella medesima ottica è stato attribuito rilievo anche alla totale incomunicabilità e all’assoluta incapacità dell’ambiente familiare di cogliere l’evidenza dello stato della donna e di avvertire ogni esigenza di aiuto e di sostegno necessari alla stessa (Sez. 1^, 18 novembre 1991, n. 311).
4. Ad avviso del Collegio l’abbandono "materiale e morale" costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere "in chiave soggettiva": in altri termini, la concreta situazione di abbandono, pur rappresentando un dato concreto e indiscutibile che deve effettivamente sussistere, trattandosi di un elemento del fatto tipico, non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto.
Una conclusione del genere pare maggiormente coerente con la lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, sostenuta dalla constatazione che diversi fattori, tanto biologici quanto sociali e relazioni, possono svolgere un ruolo attivo nel determinismo dell’evento delittuoso: da un lato la condizione di severo stress psicofisico che accompagna il parto e, dall’altro, il contesto di particolare sfavore e solitudine nel quale si collocano dapprima la gestazione e poi il parto (gravidanza nascosta oppure osteggiata, solitudine materiale e affettiva, povertà estrema, etc).
L’esegesi della nozione lata contenuta nell’art. 578 c.p., non può, inoltre, prescindere dalle più moderne acquisizioni scientifiche, alla stregua delle quali è improprio ricondurre la maternità ad un ambito esclusivamente medico-sanitario, il cui percorso è scandito da analisi di laboratorio e da protocolli diagnostici vincolanti ai fini del parto, così come pure limitare la condizione della donna in gravidanza ad una dimensione squisitamente fisiologica. I problemi della gestante non si limitano alle eventuali difficoltà di un corpo che partorisce e la maternità non si esaurisce nel parto.
Gli studi basati sull’osservazione e sulla clinica, in opposizione ad un approccio esclusivamente medicale alla gravidanza che, invece, isola sia il corpo materno che l’embrione-feto, parlano di "vissuto interiore" della maternità ed evidenziano che diventare "madre" è un processo complesso, che ha inizio ben prima della nascita del figlio e che richiede alla donna di sottoporsi ad un’articolata esperienza psicologica individuale, ad un difficile percorso di riadattamento della propria organizzazione psichica, ad una profonda trasformazione identitaria, implicante la rivisitazione dei rapporti familiari (in particolare quello con la genitrice) al fine di elaborare una propria identità di madre. In proposito, un’autorevole dottrina sottolinea che, nel corso della gravidanza, la donna deve transitare dal periodo di identificazione ed accettazione del feto quale parte di sè, alla formulazione di un nuovo io che comprende anche il feto, in una sorta di "unità duale", e da questa giungere all’elaborazione del concetto del feto quale "altro da sè", posizione propedeutica alla sua separazione.
5. Alla luce dei principi sin qui esposti, la sentenza impugnata è viziata sotto vari profili.
Innanzitutto appare il frutto di un’erronea interpretazione dell’art. 578 c.p., in quanto muove da una restrittiva e non condivisibile esegesi in chiave rigidamente oggettiva del concetto di "abbandono materiale e morale", inteso come condizione di vita che si sostanzia nell’isolamento, materiale e morale, della donna dal contesto familiare e sociale, che, come in precedenza detto, non è coerente con la lettura logica-sistematica della norma e con la ratio scusante sottesa alla fattispecie in esame.
In secondo luogo contiene un’insanabile frattura logico- argomentativa: mentre pare, infatti, escludere la sussistenza di una situazione di fatto oggettivamente ostile alla donna, ritiene, al contempo, fondata e suffragata dall’intero contesto sociale, ambientale, culturale la convinzione dell’imputata riguardo ad una reazione non favorevole dei familiari all’eventuale notizia della gravidanza.
Inoltre, contraddicendo la premessa maggiore in ordine alla lettura della nozione di abbandono intesa come vera e propria condizione di vita che prescinde dal ristretto periodo della gravidanza e del parto, i giudici di merito hanno ritenuto che l’offerta di aiuto di D.L.C., intervenuta nel corso della gestazione, pur se priva di alcun seguito concreto, fosse di per sè idonea a comprovare l’insussistenza di uno stato di effettiva derelizione della donna.
Di conseguenza, in sede di rinvio, la Corte d’assise d’appello di Napoli dovrà, sulla base dell’interpretazione del requisito dell’abbandono "materiale e morale" quale requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, secondo quanto precisato al paragrafo precedente, procedere ad una nuova valutazione della concreta situazione di isolamento in cui versava la G., tenendo presente che tale condizione non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, essendo sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dall’imputata nel contesto di una difficile e complessa esperienza psicologica individuale legata allo stato di gravidanza e, quindi, al parto (cfr. par. 4).
Per tutte queste ragioni s’impone, quindi, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione del fatto e il rinvio, per nuovo giudizio sul punto, ad altra Sezione della Corte d’assise d’appello di Napoli.
6. Non fondati, invece, sono il terzo e il quarto motivo di ricorso.
Il delitto previsto dall’art 412 c.p., si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica, in conseguenza dell’azione del colpevole, un evento costituente occultamento; si tratta, dunque, di un reato istantaneo con effetti permanenti (Sez. 1^, 24 aprile 1990, n. 1119).
In tale ottica, la sentenza impugnata ha correttamente sottolineato l’irrilevanza, ai fini della consumazione del reato in questione, della circostanza che fu proprio la G. a far ritrovare il corpo del neonato.
Parimenti priva di pregio è la doglianza con la quale si lamenta l’omesso riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6.
La circostanza è pacificamente di natura soggettiva e trova fondamento nella minore capacità a delinquere del colpevole, il quale, per ravvedimento, dopo la consumazione del reato, ma prima del giudizio, si adopera per eliderne le conseguenze dannose o pericolose. Essa, conseguentemente e per espressa previsione normativa, è ravvisabile solo se l’azione diretta ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato è spontanea (oltrechè efficace), cioè determinata da motivi interni all’agente e non influenzata in alcun modo da fattori esterni che operino come pressione sulla spinta psicologica (Sez. 6^, 11 maggio 1989, 8238;
Sez. 6^, 10 febbraio 1990, n. 8336; Sez. 1^, 9 giugno 2004, n. 28554).
Nel caso di specie è sufficiente rammentare che la ricorrente si determinò a confessare e fornire le notizie necessarie al ritrovamento del cadavere solo dopo che la ginecologa che l’aveva sottoposta a visita l’ebbe convinta a raccontare il reale svolgimento dei fatti, provvedendo, quindi, ad informare i Carabinieri, i quali, all’esito del sopralluogo, rinvennero il corpo del piccolo nel cassonetto dell’immondizia, come indicato dalla madre.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione del fatto e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d’assise d’appello di Napoli.
Così deciso in Roma, in Pubblica udienza, il 7 ottobre 2010.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere lega

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *