CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 6 aprile 2011, n.7882 ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA DELLA P.A.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso il C. denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. La censura attiene alla determinazione dell’utilitas della pubblica amministrazione, che nella fattispecie non è costituita dal finanziamento ottenuto dal comune, ma dall’utilizzazione dell’attività del professionista per richiedere il finanziamento.

Sostiene che l’entità dell’indennizzo andava determinata "mettendo a raffronto tra loro da una parte le spese sostenute dal prefato professionista nell’espletamento della sue attività (ciò di cui si è impoverito) e, dall’altra, la spesa che il Comune avrebbe comunque dovuto sostenere nel caso avesse dato luogo ad un regolare, cioè formale, incarico per potere essere ammesso, come poi è avvenuto, al finanziamento CEE (ciò di cui si è arricchito)". Invece la Corte d’Appello sarebbe stata di altro avviso, avendo ritenuto che l’indennizzo doveva essere rapportato non alla somma concessa dalla CEE bensì a quella di cui si era materialmente giovato l’ente "confondendo il risultato economico con l’utilità derivata all’Ente dall’attività del professionista che nella circostanza era stata svolta con il risultato di mettere a disposizione del comune ben 733.500.000, tutti a fondo perduto" La doglianza non ha pregio.

Invero pur essendo esatte le premesse del ragionamento da cui muove il ricorrente, egli tuttavia, come si è detto, non ha colto la ratio decidendi della decisione che è costituita dal richiamo all’art. 45, 5 co. DPR n. 645/1994, sia pure come parametro di valutazione) che in materia di consulenza contrattuale per i contratti di mutuo, compresi i finanziamenti ed i contributi a fondo perduto, individua il valore della "pratica" con riferimento al capitale mutuato o erogato. Nella fattispecie l’utilitas è costituita dal fatto che il "progetto" redatto dal commercialista era necessario per richiedere il finanziamento in parola, tutto ciò in conformità con la giurisprudenza di questa S.C., secondo cui: "ai fini dell’azione di arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., proposta nei confronti della P.A., non rileva l’utilità che l’ente pubblico confidava di realizzare, bensì quella che ha in effetti conseguito e che, quando la prestazione eseguita in suo favore sia di carattere professionale, può consistere anche nell’avere evitato un esborso o una diversa diminuzione patrimoniale cui, invece, sarebbe stato necessario far fronte ove fosse mancata la possibilità di disporre del risultato della prestazione medesima. Pertanto, qualora il progetto di un’opera pubblica, fornito da un professionista a un ente pubblico senza un valido conferimento di incarico, sia stato utilizzato per chiedere il finanziamento dell’opera progettata, l’ente medesimo è tenuto a indennizzare l’autore dell’elaborato nei (imiti del vantaggio conseguito attraverso l’utilizzazione concretamente fatta dello stesso, mentre è irrilevante il fatto che il finanziamento non sia stato accordato e l’opera pubblica non sia stata realizzata." (Cass. n. 16577 del 18.6.08; Cass. n. 12850 del 15/06/2005). Con il 2 motivo del ricorso si denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Si deduce che non è possibile ritenere – come ha fatto la Corte, accogliendo l’eccezione sollevata, per la prima volta, dal Comune appellante – che il tribunale avrebbe acriticamente liquidato l’importo sulla base della tariffa professionale, anche se esso era uguale a quello portato dalla parcella vidimata dall’ordine professionale, laddove lo stesso giudice aveva proceduto solo ad una "liquidazione equitativa", senza applicazione delle tariffe professionali.

Con il 3 motivo del ricorso il C. denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Egli ritorna in merito all’accoglimento della menzionata eccezione da parte del giudice d’appello, secondo cui la parcella era stata liquidata in violazione della tariffa professionale, e deduce che la sua conformità alla tariffa non era mai stata contestata in precedenza dal Comune, sottolineando che il giudice di primo grado aveva attribuito alla parcella valore solo come limite entro il quale contenere l’indennizzo. Deduce poi che la violazione della tariffa non era peraltro rilevabile d’ufficio.

Entrambe le predette doglianze – congiuntamente esaminate in quanto connesse – non hanno pregio, perché in buona sostanza mostrano di non cogliere – come si è in precedenza rilevato – la ratio decidendi che sottende la decisione impugnata, mentre appare inammissibile l’asserita violazione dell’art. 345 c.c..

Il ricorrente riconosce infatti che correttamente il giudice di primo grado aveva fatto riferimento alla tariffa professionale solo come parametro di valutazione e che in grado di appello il Comune aveva contestato, con il richiamo all’art. 66 DPR 22.10.73, la corretta applicazione di tale parametro. In merito a ciò la Corte molisana ha invece evidenziato che il tribunale aveva però ancorato la liquidazione equitativa dell’indennizzo ad un parere del consiglio dell’Ordine dei Commercialisti di Teramo che doveva ritenersi del tutto erroneo. Sostiene infatti quel giudice che l’erroneità dell’indice di riferimento cui è stata in concreto ancorata la liquidazione equitativa del danno – ha viziato anche quest’ultima, la quale invece va correttamente ancorata in questa sede al criterio tariffario di cui all’art. 45, 2 e 5 co. DPR 645/94 (criterio immotivatamente violato da citato parere)".

Con il 4 motivo del ricorso l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Lamenta di essere stato condannato al pagamento delle spese del 2 grado del giudizio, che sono state poste tutte a suo carico benché il comune fosse rimasto comunque soccombente sia pure rispetto ad una somma notevolmente minore rispetto a quella richiesta con la domanda originaria.

La censura è fondata.

In effetti risulta che il Comune è stato condannato a pagare Euro 3.029,39 a titolo di indennizzo in favore dell’attore, ma quest’ultimo, oltre a doversi fare carico delle proprie spese di primo grado (che sono state interamente compensate) deve corrispondere a sua volta al comune Euro 3.680.000 a titolo di pagamento delle spese del 2 grado, cioè una somma maggiore di quella a lui riconosciuta per l’attività professionale svolta.

La doglianza è fondata. Nella liquidazione delle spese processuali infatti soccorrono sia il principio della causalità che quello della soccombenza, che va però riferita all’esito finale della lite ed in relazione ad essi va motivata un’eventuale pronuncia sulle spese di lite, che non valga sostanzialmente a svuotare del suo contenuto economico il diritto di cui abbia invece affermato la tutela. Nella fattispecie il giudice a quo non ha evidentemente tenuto conto di tali circostanze ed ha dunque violato la norma invocata, facendo immotivatamente ricadere le spese processuali unicamente sulla parte vittoriosa.

A questo riguardo si ritiene di dover riportare quanto osservato da questa S.C.: " L’esercizio "arbitrario"…. del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali finisce con il risolversi nei non pochi casi, quale quello di specie, in cui il valore della causa sia di non rilevante entità, ovvero risulti, in concreto, economicamente incomparabile rispetto alle speme processuali necessaire per instaurarla e per concluda a termine o in quelli in cui, comunque una parte ha avuto totalmente ragione, come nella specie – nel sostanziale diniego, o del diritto alla tutela giurisdizionale (soprattutto de minimis), ovvero dell’effettiva realizzazione del diritto sostanziale accertato e riconosciuto in giudizio, vale a dire nella palese violazione sia dell’art. 24 Cost., comma 1, – il quale, garantendo a tutti la tutela giurisdizionale, non può non garantire anche il soddisfacimento "effettivo" di quel diritto (cfr., ad es., Corte Costituzionale, e pluribus, sentt. n. 419 del 199 e 26 del 1999), anche attraverso il rigoroso rispetto della legalità processuale – sia, in definitiva, del fondamentale principio secondo cui il processo non deve comunque andare a danno della parte che ha (avuto) ragione. (v. Cass. 5 maggio 1999 n. 4455 ; v. Cass. 1422 del 25/01/2006)

L’accoglimento di tale censura comporta quindi che il giudice del rinvio dovrà procedere ad un nuovo e completo esame in punto spese processuali, tenendo conto delle suesposte osservazioni.

Con il 5 motivo del ricorso il C. denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. L’esponente si duole dell’omessa valutazione dell’attualità dell’indennizzo secondo indici ISTAT per il periodo che va dall’emissione della fattura (costituzione in mora) alla data di pronuncia della sentenza.

La doglianza è infondata. Occorre sottolineare che nel caso in esame si verte in tema di indennità per indebito arricchimento per cui sia gli interessi che la rivalutazione non potevano decorrere dalla data della fattura (che tra l’altro non può valere come messa in mora) ma dal realizzarsi delle condizioni d’arricchimento, come correttamente stabilito dal giudice a quo. Conclusivamente dev’essere accolto il 4 motivo del ricorso, rigettati gli altri; dovrà essere cassata la sentenza impugnata in ragione del motivo accolto e rinviata la causa, per un nuovo esame, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’Appello dell’Aquila.

P.Q.M.

accoglie il 4 motivo del ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in ragione del motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’Appello dell’Aquila.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *