Cass. pen., sez. III 13-06-2006 (19-04-2006), n. 20192 IMPUGNAZIONI – SOGGETTI DEL DIRITTO DI IMPUGNAZIONE – PARTE CIVILE – Omessa impugnazione della parte civile – Impugnazione da parte del pubblico ministero

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 17 dicembre 2003 – 9 aprile 2004 la quarta sezione penale di questa Corte annullava con rinvio ad altra sezione la sentenza pronunciata dalla prima sezione della Corte di Appello di Caltanissetta del 12 dicembre 2002 che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti di R.G. in ordine al reato di omicidio colposo, così confermando la sentenza pronunciata in primo grado dal tribunale di Gela dell’1 marzo 2001, che, concedendo all’imputato le attenuanti generiche, aveva già dichiarato l’estinzione del reato (fatto commesso il [?].

Questa la vicenda che ha originato il processo penale. Il R., medico del servizio di pronto soccorso dell’ospedale di Gela, era imputato di avere cagionato la morte della paziente S.A. per negligenza ed imperizia professionali.

La S., affetta da HBS-beta thalassemia e da "drepanocitosi allo stato eterozigote", il [?] veniva ricoverata nel nosocomio di Gela in condizioni di grave crisi da iperemolisi.

Nonostante gli evidenti sintomi manifestati dalla paziente e malgrado il sanitario fosse stato messo sull’avviso dai familiari, l’imputato non aveva effettuato la diagnosi, aveva omesso di apprestare le opportune misure terapeutiche, si era rifiutato di chiamare il medico responsabile del reparto di medicina e aveva così privato la donna della necessaria assistenza, concorrendo a cagionarne la morte avvenuta per scompenso cardiocircolatorio in soggetto gravemente anemizzato per imponenti crisi emolitiche. I giudici della Corte di appello avevano confermato l’addebito di grave negligenza formulato a carico del dottor R. che, in base agli elementi a sua conoscenza sullo stato di salute della S., avrebbe dovuto immediatamente disporre l’effettuazione di un’analisi del liquido ematico onde orientate da subito il trattamento terapeutico che egli aveva invece limitato alla mera somministrazione di farmaci antidolorifici.

Su ricorso dell’imputato, questa Corte osservava che il ragionamento dei giudici di merito doveva ritenersi viziato sotto il dato "fattuale e logico". Ferma l’accertata negligenza e imperizia professionale del R. e quindi la sua colpa professionale, non risultava provata nel processo l’incidenza causale della condotta colposa sull’evento letale. Sotto tale profilo errata doveva ritenersi l’affermazione dei primi giudici che sulla base della relazione di consulenza tecnica avevano riconosciuto all’operato del sanitario la connotazione di condizione equivalente del verificarsi dell’evento, dando rilievo ai fini del rapporto causale anche e soltanto alle "serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita della S. sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata"; tale affermazione si poneva in assoluto contrasto con quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza del 10 luglio 2002 n. 27, Franzese. Illogica doveva poi ritenersi – secondo la cit. pronuncia rescindente di questa Corte – l’affermazione che sarebbe stata necessario disporre perizia medico- legale sulla derivazione causale della morte della S. dalla condotta professionale del R. e nel contempo, in assenza di espletata prova sul rapporto causale, prosciogliere il predetto per prescrizione del reato con valutazione di colpevolezza necessariamente connessa alla concessione delle attenuanti generiche.

La sentenza della Corte di appello di Caltanissetta veniva quindi annullata con rinvio ad altra sezione per nuovo esame.

2. Con sentenza del 1.12.2004 – 8.2.2005 la Corte d’Appello di Caltanissetta ha rigettato l’appello confermando la pronuncia di primo grado.

Osserva la Corte territoriale che i periti d’ufficio avevano definito "sconcertante" la condotta dei sanitari che di lei si occuparono negli ultimi giorni di vita. La gravità e le peculiari caratteristiche della S. erano note perchè avevano dato luogo a trasfusioni nella fase pre-parto (al settimo mese a seguito di una crisi emolitica si era dovuto fare ricorso ad una intensiva terapia trasfusionale). Ricoveratasi alle 2,00 del [?] nell’ospedale di Gela con evidenti sintomi di crisi emolitica in atto in paziente che, nella diagnosi di entrata, si assumeva affetta da thalassemia, la S. rimaneva priva di specifica terapia per circa nove ore. I periti hanno stigmatizzato il mancato "immediato" ricorso a terapia trasfusionale, specificando come detto immediato trattamento era la sola condizione per salvare la vita della paziente e hanno indicato indiscutibilmente in tale omissione una possibile concausa del decesso poichè quando la stessa giungeva alle 12,30 del 31 maggio all’ospedale di Catania, ove il marito aveva voluto trasferirla per sfiducia nella struttura sanitaria di Gela che con la sua inerzia aveva prodotto il precipitare delle condizioni della paziente, la stessa era già gravemente anemizzata (16% di ematocrito) ed in condizioni cardiocircolatorie già compromesse.

ÿ in questa inerzia e nell’omissione della sola terapia utilmente praticabile alla paziente per poterle salvare la vita che i consulenti hanno individuato indiscutibilmente una condizione colposa dell’evento che si innestava su una terapia forse non tutto efficace praticata nell’ospedale di Catania, che peraltro aveva ricevuto la paziente già in condizioni critiche in quanto la grave anemia aveva creato una precaria situazione cardiocircolatoria, il precipitare della quale produceva il decesso. L’apparente momentanea ripresa della donna dopo la trasfusione praticatale a Catania non era in contrasto con il giudizio dei periti, poichè lo scompenso cardiocircolatorio con occlusione dei vasi era indicato come effetto delle "imponenti crisi emolitiche" che la donna aveva dovuto subire a causa dei precedenti ritardi nella pratica delle dovute terapie.

Osserva quindi la Corte d’appello che i giudici del Tribunale di Gela avevano accertato la responsabilità dell’imputato R. per il decesso della S. alla stregua del diritto vivente al tempo della loro pronuncia.

In base a quella giurisprudenza – osservava ancora la Corte d’appello – l’accertamento di responsabilità del R. appariva del tutto giustificato anche senza il ricorso alla perizia, ricorso inevitabile invece in base allo standard probatorio richiesto dalla più recente giurisprudenza nell’accertamento del nesso di causalità, non essendo più sufficiente stabilire che la condotta colposa del sanitario sia stata probabile condizione del decesso del paziente, occorrendo invece una prova più specifica e stringente del nesso di causalità nel caso concreto e quindi la prova che detta condotta sia stata anche la causa sufficiente, con la dimostrazione che nel caso concreto, tenuto conto di tutte le specifiche variabili in gioco, quel singolo caso si sarebbe risolto con la salvezza del paziente se allo stesso fosse stata praticata la dovuta terapia in attuazione della corretta condotta professionale. Una tale prova non era affatto necessaria in base ai criteri vigenti al tempo della pronuncia dei giudici del tribunale di Gela sicchè costoro ben avevano potuto accertare la responsabilità del R. nonostante i consulenti tecnici avessero concluso la loro relazione rilevando come non vi fosse certezza che un tempestivo e adeguato intervento medico avrebbe salvato la vita della S..

Avevano quindi formulato un giudizio astratto e basato sul criterio dell’alto grado di possibilità di successo, criterio ovviamente che prescinde dal quello della certezza nel caso concreto, come rilevato dai consulenti. Per costoro la mancanza di adeguata e tempestiva terapia aveva consentito alla malattia di produrre il suo effetto letale. Era, infatti, venuta meno la sola terapia che avrebbe potuto salvare la paziente. Sulla base degli accertamenti eseguiti non era possibile per il tribunale affermare con certezza che la donna si sarebbe salvata, ma si poteva correttamente ritenere, alla luce delle affermazioni dei consulenti, che senza l’adeguata e tempestiva terapia la paziente era destinata con certezza a morire.

Sulla base di tali premesse la Corte d’appello si è trovata a dover decidere sulla base di un materiale istruttorio che poteva considerarsi insufficiente a pervenire ad affermazione di responsabilità alla stregua del più rigoroso criterio di accertamento del nesso di causalità individuale; si è posta quindi l’alternativa se, in presenza di una causa estintiva del reato, dovesse prosciogliersi l’imputato ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, ovvero se, non potendosi parlare di "evidenza" dell’innocenza dell’imputato, questi dovesse essere prosciolto ribadendosi la formula dell’estinzione del reato.

Ha ritenuto la Corte d’appello che l’alternativa dovesse essere risolta nel secondo senso potendo ritenersi estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S. avesse trovato concausa determinante nell’inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che precedettero il suo trasferimento a Catania.

3. Avverso questa pronuncia il R. ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi illustrati anche con una successiva memoria difensiva.

Le parti offese, costituite parti civili, B.G. e B. M.S. hanno presentato due memorie difensive.

L’imputato ricorrente ha presentato anche motivi nuovi.

Motivi della decisione

1. Va premesso che la parte civile, ritualmente costituita in primo grado senza che a ciò abbia rinunciato nelle successive fasi del processo, può comunque stare in giudizio anche se non ha proposto impugnazione.

L’art. 76 c.p.p., comma 2, infatti prevede che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, sancendo il c.d. principio di immanenza della costituzione di parte civile.

La parte civile non può però giovarsi dell’eventuale impugnazione del P.M..

Infatti – come già affermato da questa Corte (Cass., sez. 2^, 9 maggio 2000, Caniglia) – qualora la parte civile, a fronte della sentenza di assoluzione dell’imputato in primo grado, non si sia avvalsa della facoltà di impugnazione prevista dall’art. 576 c.p.p., il giudice d’appello, nell’affermare, su gravame del solo P.M., la penale responsabilità dello stesso imputato, non può statuire sulla domanda di risarcimento del danno derivante dal reato, non potendosi in contrario invocare il menzionato principio di immanenza della costituzione di parte civile.

Quindi la parte civile, pur in presenza di una pronuncia di merito dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, dalla stessa non impugnata, può stare in giudizio anche nel giudizio di Cassazione; può prendere la parola e rassegnare delle conclusioni (in termini di rigetto del ricorso, ad es., ma non di richiesta di risarcimento del danno).

2. Il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la violazione del principio di diritto affermato dalla menzionata sentenza rescindente, è inammissibile.

ÿ sufficiente rilevare che il ricorrente, invece di censurare la sentenza impugnata, si limita testualmente a trascrivere la deposizione del teste C., assunto dalla Corte d’appello all’udienza del 12 marzo 2002, prima della pronuncia rescindente.

Quindi invoca un’inammissibile rinnovazione della valutazione del materiale probatorio.

3. Il secondo motivo è infondato.

3.1. La Corte d’appello ha ribadito il giudizio in ordine all’affermazione della colpa (ritenuta gravissima) dell’imputato, che pur conoscendo la patologia congenita di cui era affetta la S., non ha effettuato alcuna analisi del sangue nè ha predisposto quanto necessario per la terapia trasfusionale; ossia non ha preso quelle iniziative che sarebbero state adottate dopo circa quattro ore dal dott. C. il quale, appena preso servizio nel reparto, subentrò all’imputato.

Ma in realtà il carattere colpevole e negligente della condotta dell’imputato è pacifico e già accertato nelle precedenti fasi del giudizio atteso che la sentenza rescindente di questa Corte ha riguardato unicamente la valutazione del nesso di causalità da farsi alla luce della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte. Orbene quanto al nesso causale la Corte d’appello, con valutazione in fatto sufficientemente e non contraddittoriamente motivata, ha affermato come fosse "estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S. abbia trovato concausa determinante nell’inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che precedettero il suo trasferimento a Catania".

In punto di fatto questo elevato grado di probabilità è desunto dalla Corte d’appello: dalle stesse dichiarazioni dell’imputato in sede di interrogatorio al P.M., che si è mostrato consapevole della necessità di un’immediata trasfusione di sangue; dalle precedenti crisi da iperomolisi superate dalla donna (in occasione di una minaccia di aborto nonchè dello stesso parto); la crisi emolitica dei soggetti affetti da difetto emoglobinico allo stato di eterozigote è controllabile, secondo la letteratura medica, ben più della talassemia allo stato di monozigote; dalla mancanza di specifiche patologie ulteriori e aggiuntive.

La Corte ha poi ritenuto che l’impossibilità per l’accusa di fornire la prova piena del nesso di causalità non impediva di affermare che, stante lo stato del processo, non emergeva l’evidenza dell’innocenza dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2. 3.2.

In diritto vanno richiamati i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SS.UU. 10 luglio 2002, Franzese), secondo cui: a) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbeverificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; b) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica".

Sulla base di questo arresto giurisprudenziale la verifica dell’esistenza del nesso di causalità nel caso di condotta omissiva va operata in concreto, in termini di ragionevole certezza, secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l’azione impeditiva dell’evento.

Questa prova del nesso di causalità è però necessaria per pervenire ad un’affermazione di responsabilità dell’imputato. Quando invece si è verificata una causa estintiva del reato è sufficiente che, a quello stadio del processo, sussista una ragionevole probabilità del nesso causale per escludere l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2. In questo caso la prova sarebbe si insufficiente (art. 530 c.p.p., comma 2) per pervenire ad un’affermazione di responsabilità mancando quella verifica in concreto richiesta dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite; ma neppure, all’opposto, sussiste la prova che l’imputato non ha commesso il fatto o che il fatto non sussiste. Nè è possibile procedere ad ulteriori accertamenti (quali una consulenza tecnica) per sciogliere il nodo della verifica in concreto dell’esistenza del nesso di causalità, stante l’estinzione del reato per prescrizione.

Correttamente pertanto i giudici di merito hanno adottato una pronuncia (processuale) di non doversi procedere per essere estinto il reato per prescrizione e non già una pronuncia (nel merito) di assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto.

4. In conclusione il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore della parte civile nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione di spese ed onorari di parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila) oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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