Corte Costituzionale, Sentenza n. 274 del 2005 IMPOSTE E TASSE IN GEN. Contenzioso tributario Procedimento avanti le Commissioni tributarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 9 dicembre 1997 la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), «nella parte in cui preclude ai giudici, nella declaratoria di estinzione della controversia per cessazione della materia del contendere, di condannare l’Amministrazione virtualmente soccombente al pagamento delle spese».

Con successiva ordinanza del 14 ottobre 2003 il medesimo giudice ha rinnovato l’ordine di trasmissione degli atti a questa Corte, rimasto precedentemente ineseguito.

1.1.– Il giudizio a quo ha ad oggetto l’impugnativa di una cartella di pagamento emessa nell’anno 1996 dal I Ufficio IVA di Napoli nei confronti di una società in liquidazione, per l’importo di £. 1.401.962.497.

In punto di fatto, il giudice adito ha accertato che, successivamente all’instaurazione del giudizio, l’Ufficio impositore aveva disposto lo sgravio, in sede di autotutela, dell’intera somma iscritta a ruolo.

Cessata di conseguenza la materia del contendere, rileva il rimettente che andrebbe dichiarata l’estinzione del giudizio, ai sensi dell’art. 46, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992, con conseguente applicabilità della disposizione di cui al comma 3 dello stesso articolo, secondo cui «le spese del giudizio estinto a norma del comma 1 restano a carico della parte che le ha anticipate, salvo diverse disposizioni di legge».

Si tratta – continua il rimettente – di una disposizione che preclude l’applicabilità, nel processo tributario, della disciplina propria del processo civile, secondo la quale il regolamento delle spese, nel caso di cessazione della materia del contendere, consegue invece alla valutazione della soccombenza virtuale rimessa al giudice della causa.

1.2.– Ad avviso del medesimo rimettente, la norma in questione si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali sotto un duplice profilo.

In primo luogo – tenuto conto che, per la particolare natura del processo tributario, solo il contribuente può assumere la veste di ricorrente e d’altro canto la cessazione della materia del contendere consegue, normalmente, ad atti compiuti dall’amministrazione convenuta in via di autotutela – sarebbe leso il principio di uguaglianza di trattamento tra le parti del processo, esonerandosi irragionevolmente l’amministrazione dall’onere del pagamento delle spese anticipate dalla controparte.

In secondo luogo, considerata l’esistenza dell’obbligo di difesa tecnica per le cause di valore superiore a £. 5.000.000, la norma di cui si tratta costituirebbe un indubbio ostacolo all’esercizio, da parte del contribuente, del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione.
Considerato in diritto

1.– La Commissione tributaria provinciale di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), secondo cui, in caso di estinzione del giudizio per definizione delle pendenze tributarie o per qualsiasi altra ipotesi di cessazione della materia del contendere, le spese restano a carico della parte che le ha anticipate, salvo diverse disposizioni di legge.

La norma impugnata violerebbe il principio di eguaglianza, favorendo ingiustamente l’amministrazione finanziaria nei confronti della controparte, e si porrebbe altresì in contrasto con il diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, operando in funzione obiettivamente dissuasiva rispetto all’esercizio, da parte del contribuente, del diritto alla tutela giurisdizionale.

2.– L’art. 46, comma 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992 è stato più volte oggetto di scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento a diversi parametri ed anche all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell’asserita violazione del principio di eguaglianza rispetto al tertium comparationis rappresentato dalla disciplina del processo civile. Le relative questioni sono state dichiarate non fondate (sentenza n. 53 del 1998), manifestamente infondate (ordinanze n. 465 del 2000, n. 265 e n. 77 del 1999, n. 368 del 1998) o manifestamente inammissibili (ordinanza n. 68 del 2005).

La questione di legittimità costituzionale della stessa norma deve essere ora esaminata sotto il diverso aspetto, anch’esso evocato dal rimettente, della irragionevolezza della norma censurata.

Il rimettente, infatti, nel rilevare che la norma avvantaggia in maniera ingiustificata la parte che determina con un proprio comportamento volontario la cessazione della materia del contendere (il che, egli afferma, «può avvenire – e avviene con maggior frequenza – per effetto di ravvedimento dell’Amministrazione finanziaria nel corso della controversia attraverso l’istituto dell’autotutela») denuncia solo apparentemente una violazione del principio di eguaglianza tra le parti del processo – proprio in quanto, come egli stesso implicitamente riconosce, della norma può giovarsi talvolta anche il contribuente – ma in realtà pone in dubbio la ragionevolezza stessa del regolamento delle spese dettato, in riferimento a tale ipotesi astratta, dalla norma impugnata.

2.1.– La questione, prospettata in tali termini, è fondata.

Occorre muovere dalla premessa che il processo tributario è in linea generale ispirato – non diversamente da quello civile o amministrativo – al principio di responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano l’art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione della commissione tributaria (a norma dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile), e l’art. 44 del medesimo decreto legislativo, secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro.

La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce, dunque, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio.

L’intrinseca irragionevolezza della norma, in quanto riferita all’ipotesi di ritiro dell’atto impugnato, che ricorre nel giudizio a quo, emerge del resto con particolare evidenza anche nel confronto con la disciplina prevista per l’ipotesi di annullamento o riforma dell’atto, in via di autotutela, nel corso del processo amministrativo, avente analoga natura impugnatoria. L’art. 23, settimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), dispone infatti, in tal caso, che «il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese», anche, ovviamente, dichiarandone la compensazione qualora ne ricorrano i presupposti.

3.– L’art. 46, comma 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992 risulta in definitiva lesivo, sotto l’aspetto considerato, del principio di ragionevolezza, riconducibile all’art. 3 della Costituzione, e ne va di conseguenza dichiarata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui si riferisce alle ipotesi – cui esclusivamente ha riguardo l’ordinanza di rimessione – di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, dovendo, pertanto, in tali ipotesi la commissione tributaria pronunciarsi sulle spese ai sensi dell’art. 15, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992.

Resta assorbita ogni altra e diversa censura avanzata dal rimettente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il4 luglio 2005.

Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2005.

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