Cass. pen., sez. Unite 10-05-2006 (11-04-2006), n. 15983 REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA – DELITTI – FALSITÀ IN ATTI – FALSITÀ IDEOLOGICA – Falsa attestazione della propria presenza in ufficio da parte di pubblico dipendente

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il 19 ott. 2004 la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del 7 mar. 2002 del Tribunale di Agrigento, con la quale G. S. e V. C., riconosciute loro le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, erano stati condannati a pene ritenute di giustizia per imputazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, di cui agli art. 61, n. 9,81, cpv. n. 1, c.p. e61, n. 2,81, cpv., 479, in relazione all’art. 476, c.p..

Si contestava a tali imputati, nella loro qualità di pubblici dipendenti della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, di aver falsamente attestato la loro presenza al lavoro nell’ufficio regionale presso il quale prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo, facendo così risultare orai di entrata e di uscita non rispondenti a quelli effettivi.

I giudici del merito ritenevano accertato che, in più occasioni, gli imputati avevano timbrato il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo all’inizio ed alla fine della giornata di lavoro, ma non avevano fatto risultare, mediante analoga marcatura, i propri allontanamenti dal luogo di lavoro, non dovuti a motivi di servizio; e che tanto integrava gli estremi dei contestati reati di truffa aggravata e di falso.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

G. S. denunzia: vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 640 e 479 c.p.

Quanto alla imputazione di truffa, deduce che i giudici dell’appello avevano omesso di considerare le specifiche censure dell’atto di gravame, con le quali si era rappresentata la insussistenza sia degli artifici e raggiri sia del danno, posto che le sue assenze al luogo di lavoro erano da riconnettersi alle modalità di espletamento dell’attività di ufficio, il comportamento?, così come assunto nello schema dell’accusa e quindi della sentenza, era perfettamente noto nell’ambito dell’ufficio?: in particolare, le sue assenze temporanee dal luogo di lavoro erano da riconnettersi alle sue funzioni di ufficiale rogante di atti pubblici da stipulare presso studi notarili, tanto non avendo consentito ne la realizzazione di un certo ingiusto profitto?, ne un danno alla p.a.

Quanto alla imputazione di falso, lamenta che neppure al riguardo i giudici di appello avevano considerato le specifiche censure alla sentenza di primo grado, proposte con l’atto di appello.

Rileva che in quella sede si era rappresentato che è carente? sia l’elemento costitutivo del reato rappresentato dalla specifica condotta della immutatio veri, sia la consapevolezza della concreta e sostanziale immutatio veri; essendosi ipotizzata la condanna di falso per non aver indicato nel cartellino segnatempo gli allontanamenti intervenuti nel corso della intera giornata lavorativa, facendo apparire come se questa si fosse svolta con la costante presenza in ufficio, dall’indicato orario di entrata e quello segnato come orario di uscita, si era omesso di considerare che in questo quadro il reato di falso non sussiste, per carenza di una condotta immutatrice dell’effettivo vissuto.

Il reato di falso, soggiunge la ricorrente, sarebbe stato configurabile solo se l’agente avesse segnato, nell’intermedio della giornata lavorativa, un periodo di allontanamento e di rientro, adducendo insussistenti ragioni di servizio?, circostanza nella specie non sussistente.

La sentenza impugnata aveva rappresentato un quadro assolutamente ed anzi esclusivamente settoriale di valutazione del devolutum, avendo, in buona sostanza, limitato il proprio esame al solo aspetto della condotta della ricorrente, in relazione alla sua frequenza di uno studio notarile, esam0inata come avulsa dal contesto generale della sua attività d’ufficio, così individuando il substrato del reato di truffa, ma non si è posto il problema, ampiamente profilato nei motivi di appello, dell’insussistenza di un’effettiva condotta fattuale di immutatio veri?; il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 62, n. 4 c.p.

La sentenza impugnata, lamenta la ricorrente, dopo aver rilevato che il danno subito dalla p.a. ? non può considerarsi rilevante, aveva escluso tale attenuante avuto riguardo alla molteplicità delle violazioni poste in essere dall’odierna prevenuta, non presentando, perciò, il danno quella caratteristica di esiguità, che costituisce elemento della specifica attenuante in esame, laddove, invece, in tema di reato continuato il danno va valutato in relazione alle singole violazioni di legge.

G. C., dal canto suo, denunzia: vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione agli artt. 429, lett. c), 178, 179 c.p.p.

Deduce che illegittimamente la sentenza impugnata aveva disatteso l’eccezione difensiva di nullità del decreto di rinvio a giudizio per genericità dell’addebito, sull’erroneo assunto della sua tardiva proposizione, versandosi, invece, in ipotesi di nullità assoluta e non relativa; ed erroneamente aveva, altresì, ritenuto l’infondatezza nel merito della proposta eccezione, con argomenti che, a nostro avviso, hanno poco di giuridico; vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’art. 640 c.c.p.

ÿ emerso pacificamente dagli atti processuali, assume il ricorrente, che il comportamento dei dipendenti, cioè quello di allontanarsi dall’ufficio anche senza permesso, era un fatto ben noto al capo dell’ufficio stesso?, che conosceva il comportamento dei suoi dipendenti, lo autorizzava implicitamente, a fronte di ciò i dipendenti, proprio per questo modo elastico di gestire l’attività lavorativa, producevano molto di più rispetto al momento in cui vigeva l’osservanza rigida dell’orario di lavoro; vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’art. 476 c.p.

Rileva che già con i motivi di appello si era dedotto che nessun foglio di presenza era stato falsificato, ne, del pari, era stato falsificato il nastro dell’orologio segnatempo?, sicché, mancando qualsiasi documento, rectius atto pubblico, era necessario individuare con quale mezzo il falso venne realizzato, non potendosi mai configurare un falso per omissione.

Al più l’omissione poteva integrare l’artificio, non mai il falso?

Conclude rilevando che la Corte di legittimità ha più volte affermato che ne il foglio di presenza, ne il nastro dell’orologio costituiscono atti pubblici.

Il ricorso veniva assegnato alla V Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza resa all’udienza del 26 genn. 2006, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni Unite.

Disattesa una eccezione di precedente il giudicato proposta in udienza nell’interesse di V. C., e ritenuti infondati il primo e secondo motivo di ricorso dello stesso C. ed il primo motivo di ricorso di S. nella parte riguardante il reato di truffa, quanto al terzo motivo di ricorso di C. ed al primo motivo di ricorso di S. relativamente al reato di falso rilevava la sezione remittente che, premesso che i giudici del merito hanno ritenuto che la falsità addebitata agli imputati consistesse in una omissione, cioè nell’allontanarsi dall’ufficio senza marcare in uscita il cartellino marcatempo, al riguardo si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, alcune sentenze avendo ritenuto che la mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro non costituisce il reato di falso ideologico per omissione, altre avendo concluso in senso opposto; pur mostrando i giudici emittenti di aderire al primo di tali indicati orientamenti giurisprudenziali, sull’assunto che deve ritenersi? che la mancata attestazione dell’allontanamento, dopo aver timbrato in ingresso il cartellino segnatempo, non equivalga all’attestazione di interrotta presenza in ufficio?, sicché la mancata timbratura del cartellino in occasione di un temporaneo allontanamento del funzionario non da luogo alla reticente formulazione di un atto pubblico unitario, tale da tradursi in una falsa rappresentazione della realtà; ma è semplicemente l’omissione del compimento dell’atto, l’omissione di una delle molteplici autonome attestazioni che debbono essere documentate nel cartellino segnatempo, rilevavano come sia opportuno un intervento risolutore delle Sezioni Unite.

Il Primo Presidente ha fissato l’odierna udienza per la trattazione dei ricorsi.

Motivi della decisione

L’ordinanza di rimessione ha già reso statuizioni delibative in ordine ad un’eccezione di bis in idem formulata in udienza dal difensore di V. C., ed in ordine al primo e secondo motivo di doglianza dello stesso ricorrente ed al primo profilo di censura proposto da G. S. nella parte relativa al reato di truffa.

E però, hanno già avuto modo queste Sezioni Unite (sentenza del 25/10/2005, n. 41476, ric. P.G. ed altro in proc. Misiano, che ha richiamato la sua precedente sentenza del 21/9/2000, n. 17 ric. Primavera) di rilevare che nell’attuale sistema processuale non è dato che il ricorso possa essere definito in parte dalla sezione semplice della Suprema Corte ed in parte dalle Sezioni Unite, la remissione (atto amministrativo e non giurisdizionale) del procedimento a queste ultime comportando che siano solo queste, appunto, a dovere delibare il proposto gravame, nella loro interezza e completezza.

Ciò posto, il primo motivo di ricorso di C., che involge una questione di rito dalla quale si fa pregiudizialmente discendere la nullità del decreto di rinvio a giudizio e, quindi, della sentenza impugnata, è destituito di fondamento.

Contrariamente, difatti, a quanto opina il ricorrente, è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che la indeterminatezza dell’accusa, ove sussistente, non da luogo ad una nullità generale ai sensi dell’art. 1787 c.p.p., ma, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata e da quella integrativa di prime cure, ad una nullità solo relativa, ai sensi dell’art. 181 c.p.p., che deve essere eccepita entro il termine di cui all’art. 491 dello stesso codice di rito (cfr. Cass. Sez. IV, n. 39617/2002, ric. Ferraro ed altri; id., Sez. I, n. 2367/2000, ric. P.G. in proc. Mamidovic; id., Sez., VI, n. 1175/2000, ric. Tancredi ed altro; id., Sez. II, n. 3757/1996, ric. Pellegrino; id., Sez. I, n. 3801/1994, ric. Sgamba; id., Sez. III, n. 1222/1994, ric. Rindi).

E nella specie, come danno atto i giudici del merito ed implicitamente riconosce lo stesso ricorrente, la relativa eccezione venne formulata solo in sede dibattimentale di primo grado.

Tanto rende del tutto ultronea anche la considerazione che i giudici dell’appello hanno, comunque ed a prescindere dall’ammissibilità della stessa tardivamente prospettata questione, dato persuasiva contezza dell’infondatezza del merito di quest’ultima, ed a fronte di quell’apparato argomentativo il ricorrente si limita ad affermazioni assiomatiche e meramente assertorie, rilevando genericamente che non si è trattato di un unico periodo, ma di singoli episodi limitati nel tempo e che aveva il diritto di conoscere singolarmente gli episodi dai quali difendersi, di conoscere il danno arrecato nella singola ipotesi di truffa.

Infondata è anche l’eccezione di bis in idem formulata in udienza del difensore di C., che ha prodotto a sostegno di tale deduzione la sentenza in data 9 feb. 2005 del Tribunale di Agrigento (con annotazione del suo passaggio in giudicato nel maggio successivo).

Deve al riguardo rilevarsi che ha più volte ritenuto questa Suprema Corte che il divieto del bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p., che postula una preclusione derivante dal giudicato formatosi per lo stesso fatto e per la stessa persona, involge una questione di fatto riservata alla valutazione del giudice del merito, alla cui delibazione è demandato l’accertamento della identità del fatto e del passaggio in giudicato della precedente decisione, sicché essa, di norma, non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità, ove è precluso l’accertamento del fato.

E si è rilevato che la parte, nondimeno, non rimane priva di tutela, potendo eventualmente far valere la preclusione davanti al giudice dell’esecuzione (cfr. Cass., Sez. II, n. 41069/2004, ric. Chiaberti; id., Sez. VI, n. 34955/2003, ric. Rabeschi; id., Sez. V, n. 10076/1999, ric. Bugio ed altri; id., Sez. V, n. 7953/1998, ric. Saracino; id., Sez. VI, n. 9301/1995, ric. P.G., in proc. Scarpa; id., Sez. I, n. 4102/1991, ric. Caso).

Si è, tuttavia, altra volta ritenuto che la relativa questione sia proponibile per la prima volta in cassazione solo se la stessa, ratione temporis, non sia stato possibile dedurre in grado di appello, per essere la sentenza precludente passata in giudicato dopo quel giudizio (Cass., Sez. I, n. 31123/2004, ric. Cascella).

Appare opportuno al riguardo chiarire che, in effetti, i tale ultima ipotesi la questione è senz’atro proponibile per la prima volta in Cassazione, al giudice di legittimità essendo attribuita anche la cognizione delle questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (art. 609.2 c.p.p.).

In siffatta evenienza, ove l’accertamento dell’identità o meno del fatto e del suo autore postuli comunque attività di merito, di indagine e prova, e conseguentemente valutativa in fatto dei relativi accertamenti, a tanto non può, evidentemente, attendere la Corte di Cassazione, che è giudice di legittimità e non di merito.

Ove, invece, la fattispecie non proponga alcun ulteriore accertamento di merito e sia, invece, definitivamente definibile alla stregua della sola documentazione prodotta ed acquisita agli atti, non v’è ragione alcuna perché il giudice di legittimità non sia investito, con poteri definitori, di una questione, sostanzialmente rinviandola al giudice dell’esecuzione, che ha, invece, il dovere di proporsi e rilevare, ponendosi la preclusione di cui all’art. 649 c.p.p. come impeditivi della possibilità di (ulteriormente) rendere statuizioni decisorie.

Nella specie, a sostegno della propria eccezione la parte ha prodotto, com’è detto, la sentenza del Tribunale di Agrigento del 9 feb. 2005, divenuta irrevocabile nel maggio successivo, epoche, queste, posteriori a quella in cui venne resa la sentenza impugnata, il 19 ott. 2004.

Ma proprio alla stregua di tale prodotto documento (e senza necessità, quindi, di alcun diverso accertamento di merito) è dato cogliere la infondatezza della proposta eccezione, dovendosi escludere la medesimezza del fatto, ai sensi dell’art. 649 c.p.p.

La prodotta sentenza, difatti, afferisce a contestate ipotesi di falso materiale per contraffazione di firme, addebitandosi ad alcuni dipendenti di aver apposto, sul nastro dell’orologio marcatempo e sui fogli di presenza, le apocrife firme di altri colleghi per attestarne falsamente l’ingresso in ufficio; la sentenza ora impugnata, invece, afferisce solo ad ipotesi di attestazioni realmente riferibili all’imputato, che poi si allontanava dall’ufficio non facendo risultare tale circostanza.

Per quanto concerne le imputazioni di truffa contestate ai ricorrenti (per le quali sono state riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate), deve rilevarsi che si sono allo stato perenti i termini prescrizionali massimi di legge.

Tenuto conto, invero, del disposto degli artt. 157.1, n. 4, e 160.3 c.p., tale reato è contestato a C. come commesso sino alla fine di giugno 1997; dalla analitica esposizione dei vari episodi contenuta nell’integrativa sentenza di primo grado gli ultimi sono collocati al 29 maggio ed al 5 giugno 1997 (data, quest’ultima, nella quale si colloca, in imputazione, l’ultimo episodio di falso).

Pur tenuto conto delle sospensioni del termine stesso verificatesi nel corso del giudizio di appello per rinvii, dovuti ad impedimenti e richieste delle parti private, dall’udienza del 29 maggio 2003 a quella del 25 novembre 2003 (per il periodo di mesi cinque e giorni ventisette), dall’udienza del 25 novembre 2003 a quella del 2 marzo 2004 (per il periodo di mesi due e giorni sei), dall’udienza del 30 marzo 2004 a quella del 18 maggio 2004 (per il periodo di mesi uno e giorni 18), dall’udienza del 18 maggio 2004 a quella del 12 ottobre 2004 (per il periodo di mesi quattro e giorni ventiquattro), per complessivi, quindi, anni uno, mesi tre e giorni quindici, il relativo termine prescrizionale di sette anni e mezzo per tale reato è venuto a scadenza il 20 marzo 2006.

Analogamente a dire per S., per la quale il reato in questione pur viene indicato in imputazione come commesso fino alla fine di giugno 1997, e nella integrativa sentenza di primo grado l’ultimo episodio è collocato al 28 maggio, epoca in cui è determinata, in imputazione, anche la data dell’ultimo episodio di falso: il relativo termine prescrizionale per tale imputata si è, quindi, perento il 15 marzo 2006.

Non ravvisandosi ipotesi sussumibile nella previsione di cui all’art. 129.2 c.p.p., alla stregua di quanto rappresentato dalle sentenze di merito (ed i motivi di gravame si limitano solo a censurare le argomentazioni logiche che dalle indicate emergenze processuali hanno desunto i giudici del merito e le conseguenti valutazioni fattene), la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, in riferimento a tali reati, perché estinti gli stessi per prescrizione.

Per quanto riguarda le imputazioni di falso contestate ad entrambi i ricorrenti, la questione sottoposta all’esame di queste Sezioni unite (se, cioè, integri il reato di falso ideologico in atto pubblico la mancata timbratura, da parte del dipendente pubblico, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro), comporta l’esame e la soluzione di altra, preliminare questione, pure espressamente prospettata nel terzo motivo di ricorso di C. e, cioè, se il cartellino marcatempo (che meccanicamente annota gli orari di ingresso e di uscita dal luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che assolvono ad analoga funzione) dei pubblici dipendenti abbiano o meno natura di atto pubblico.

La prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte si è al riguardo positivamente orientata, sulla considerazione che tali atti svolgerebbero la loro funzione non solo in riferimento al rapporto di lavoro tra impiegati pubblici e pubblica amministrazione, ma anche in relazione all’organizzazione stessa di quest’ultima, con riflessi sulla sua funzionalità, essendo, perciò, essi destinati a produrre effetti per la stessa pubblica amministrazione, anche in ordine al controllo dell’attività e regolarità dell’ufficio; tali attestazioni, quindi, sarebbero preordinate ad attestare la certezza dello svolgimento della pubblica funzione da parte di coloro che ne sono preposti, non rilevando al riguardo la natura privatistica del rapporto di lavoro tra pubblico dipendente e pubblica amministrazione (da ultimo Sez. V, n. 5676/2005, PG in proc. Santamaria ed altro; Sez. V n. 16503/2004, Matarelli; Sez. V. n. 43844/2004, PG in proc. Amendola; Sez. V, n. 42245/2004, Orlando; Sez. V, n. 40848/2004, PM in proc. Passerella; Sez. V, n. 27509/2004, Cei; Sez. V, n. 21193/2003, PM in proc. Giambò; ecc.).

L’opposto minoritario indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla considerazione che siffatte attestazioni rilevano in via diretta ed immediata unicamente ai fini della retribuzione e comunque del regolare svolgimento della prestazione di lavoro e solo indirettamente, e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento del servizio (Sez. V, n. 44689/2005, Flavio ed altri; Sez. V, n. 2303/1988, Sariconi).

Queste Sezioni Unite ritengono di far proprio tale secondo orientamento giurisprudenziale.

Posto, difatti, che la condotta di falsificazione ideologica del pubblico ufficiale ipotizzata dall’art. 479 c.p. (come quella materiale di cui all’art. 476) deve sostanziarsi in una attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni pubblicistiche, appare ineludibile distinguere, nell’attività del pubblico impiegato, ed in un contesto in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto connotazioni privatistiche (a seguito della disciplina introdotta con il D.Lgs.vo n. 29/1993, modificata dal D.Lgs.vo. n. 80/1998, ora trasfusa nel D.Lgs.vo. n. 165/2001), gli atti che sono espressamente della pubblica funzione e/o del pubblico servizio e che tendono a conseguire gli obiettivi dell’ente pubblico da quelli strettamente attinenti alla prestazione di lavoro, ed aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano contrattuale e non anche su quello funzionale (Cass. Sez. V, n. 12789/2003, cit.).

Premesso, invero, che secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte e la prevalente dottrina, agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell’art. 2699 c.c., in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica (così, fra altre, Cass., Sez. V, n. 8151/1976, Di falco), rimane che, come si esprime autorevole dottrina, la falsa rappresentazione della realtà che viene documentata deve essere rilevante in relazione alla specifica attività del pubblico ufficiale? e ciò significa che la funzione o attribuzione pubblica, abbia la potenzialità di produrre effetti giuridici.

Quanto dire che, secondo altre voci della dottrina, la nozione di atto pubblico si fonda sulla qualità del soggetto (pubblico ufficiale o impiegato dello Stato o dia altro ente pubblico incaricato di un pubblico servizio art. 493) e sul piano del documento che si redige per una ragione inerente all’esercizio delle pubbliche funzioni o del pubblico servizio, o per uno scopo cui l’atto è destinato; e nei reati di falso, in generale, funzionali (o propri), data la posizione giuridica dell’agente (che è un pubblico ufficiale), si delinea uno stretto collegamento tra il soggetto ed il bene, in virtù del quale al cura del bene medesimo? è affidata al soggetto per essere quest’ultimo titolare di un potere pubblicistico ben individuato (il potere certificativi), attributivo di certezza pubblica.

E la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha, da tempo, puntualizzato che atti pubblico è ogni scritto redatto da un pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni (Cass., Sez. V, n. 1576/1975, Pansa).

Tale ineludibile collegamento tra esercizio di funzioni pubbliche ed attività falsificatoria dei pubblici ufficiali (che non consente di ritenere automaticamente che tutti gli atti stessi compiuti siano atti pubblici: Cass. n. 12789/2003, cit.), non può, quindi, condurre ad annoverare nella nozione di atto pubblico, rilevante ai fini penali, attività attestative che, invece, appaiono collegate direttamente ed immediatamente ad istituti sicuramente riconducibili alla disciplina privatistica (per mutuare altra espressione dottrinaria) e che, soprattutto, in tale ambito esauriscono la loro funzione di rilevanza attestativa.

Deve, allora, convenirsi che, in effetti, il cartellino marcatempo ed i fogli di presenza sono destinati ad attestare solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra il pubblico dipendente e la pubblica amministrazione, ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgono affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla P.A.

Il pubblico dipendente, in sostanza non agisce neppure indirettamente per conto della P.A., ma opera come mero soggetto privato, senza attestare alcunché in ordine all’attività della P.A. (come rileva Cass., Sez. V, n. 15271/2005, Piano Del Balzo ed altro, ancorché in fattispecie concernente attestazioni relative a missioni fuori sede del pubblico funzionario, ma con principio valido anche nella fattispecie qui in esame).

Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto: i cartellini marcatempo ed i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la P.A. (oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i lor0o effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla P.A.

Tanto ritenuto, pure torna opportuno, da ultimo, rilevare che, ove poi, tali attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite, in atti della P.A. a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per induzione, ai sensi dell’art. 48 c.p.

Alla stregua di tale principio, la sentenza impugnata va annullata, quanto alle imputazioni di falso contestate, perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio l’impugnata sentenza perché estinti per prescrizione i reati di truffa e perché il fatto non sussiste quanto al reato di falso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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