Corte Suprema di Cassazione – Civile Sezione I Sentenza n. 11097 del 2006 deposito del 20 gennaio 2006 BENI IMMOBILI E MOBILI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. ? C. K., con citazione notificata il 1° agosto 1992, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Grosseto C. B., dal quale si era consensualmente separata nel 1989, e sulla premessa che il verbale di separazione non costituiva la totale e completa definizione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi – chiedeva la condanna del marito al pagamento di circa lire 90.000.000 a titolo di saldo della quota del 50% sulle somme alla medesima spettanti sulla comunione de residuo.

Nella resistenza del convenuto, il Tribunale di Grosseto, con sentenza 12 agosto 1997: (a) rigettava la domanda di pagamento in relazione ai maggiori esborsi sopportati nell’acquisto della casa coniugale, caduta in comunione, perché – essendo stato il bene acquistato durante il matrimonio – non v’era la prova della dichiarazione di cui all’art. 179, primo comma, lettera f), con cui l’attrice avrebbe potuto dare atto che parte del prezzo era stato pagato con risorse facenti parte del patrimonio personale (b) rigettava la domanda di restituzione della somma di lire 5.000.000, pari alla metà di quanto versato dal B. per l’acquisto di quote del fondo Eptafund, dato che la relativa somma era stata da lui incassata prima della separazione, e non v’era prova che fosse residuata al momento dello scioglimento della comunione; (c) condannava il B. a pagare alla moglie la somma di lire 50.000.000, oltre interessi, pari alla metà dell’importo complessivamente pagato per l’acquisto delle quote dei fondi Imirend e Imicapital, sul rilievo che il convenuto, benché avesse dichiarato che tale importo costituiva il prezzo della vendita di un appartamento acquistato prima del matrimonio, non aveva in realtà prodotto l’atto di vendita, e quindi mancava la dichiarazione di cui al citato art. 179, primo cozza, lettera f), cod. civ., indispensabile per il riconoscimento del carattere personale del bene.

2. – La Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 104, depositata il 2 febbraio 2002, accogliendo uno dei motivi dell’appello principale proposto dal B. e rigettando l’appello incidentale della K., respingeva la domanda di quest’ultima in relazione all’acquisto di quote dei fondi di investimento Imirend e Imicapital, così riformando l’impugnata sentenza, che confermava nel resto, dichiarando compensate fra le parti le spese dei due gradi di giudizio.

Per quanto qui interessa, la corte d’appello – affermata la validità delle clausole dell’accordo di separazione implicanti l’attribuzione di beni ad uno o ad entrambi i coniugi rilevava che nell’accordo di separazione i coniugi avevano convenuto di "confermare" la loro rispettiva comproprietà dell’immobile al 50%, senza accennare ad alcun credito dell’un coniuge o dell’altro, sicchè la K. non poteva "smentire la rinuncia al proprio credito, quale inequivocamente

implicata dall’accordo", a nulla rilevando che costei avesse contribuito all’acquisto della casa coniugale con denaro non facente parte della comunione.

In relazione all’acquisto di quote dei fondi comuni di investimento, la corte territoriale – ritenuta raggiunta la prova, "in riferimento alla consecuzione dei fatti, quale emergente dalle prove orali assunte e dalla documentazione acquisita", che "le quote dei fondi Imirend e Imicapital furono acquistate dal B. nel maggio 1986 con il prezzo della vendita, avvenuta quello stesso mese, della piena proprietà di un immobile acquistato nel 1974, ossia prima del matrimonio, e del quale egli era nudo proprietario, mentre la madre era titolare del diritto di usufrutto" – affermava che esse dovevano considerarsi beni personali del marito, ai sensi dell’art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ., con conseguente estraneità alla comunione. Questa conclusione non era ostacolata dal fatto che il B. non avesse effettuato la dichiarazione prevista dalla citata disposizione, giacché – osservava la Corte territoriale – l’attestazione della provenienza personale del corrispettivo è necessaria solo quando è obiettivamente incerto se l’acquisto realizzi o meno il reinvestimento di danaro o beni personali, mentre il relativo onere non sussiste allorché, come nella specie, sia obiettivamente corto il carattere personale del corrispettivo. La Corte fiorentina riteneva priva di pregio l’obiezione della K. secondo cui il prezzo ricavato dalla vendita immobiliare sarebbe transitato, prima di essere investito nell’acquisto delle quote, in due conti correnti di pertinenza della comunione.

3. – Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la K., con atto notificato il 4 marzo 2003, deducendo due motivi di censura, ai quali ha resistito con controricorso il B..

Motivi della decisione

l. – Preliminarmente, deve ritenersi non sussistente la preclusione – che il controricorrente denuncia con il proprio atto, sollecitando questa Corte a rilevarla d’ufficio – che si sarebbe determinata per effetto della proposizione, da parte della K., di una domanda nuova con l’appello incidentale, con conseguente inammissibilità dello stesso per violazione dell’art. 345 cod. proc. civ.

Risulta infatti dagli atti di causa – ai quali è possibile accedere, trattandosi di acclarare l’esistenza o mano di una preclusione all’esercizio della giurisdizione – che, sia dalla citazione introduttiva del giudizio di primo grado, la K. ebbe a chiedere la condanna del marito al pagamento di una somma di denaro, pari a circa lire 90.000.000, derivante dallo scioglimento della comunione legale tra gli stessi coniugi, in particolare deducendo tanto il maggior impegno finanziario da essa sostenuto nell’acquisto della casa coniugale quanto la caduta in comunione dell’acquisto, effettuato dal B., delle quote dei fondi comuni di investimento mobiliare Imirend e Imicapital.

Questa domanda, ribadita in sede di precisazione delle conclusioni, è stata puntualmente riproposta con l’appello incidentale, con cui la K. ha chiesto la condanna del B. a restituire e pagare, a titolo di rimborso, la quota da essa versata in eccedenza per l’acquisto della casa coniugale e la conferma, per il resto, della sentenza di primo grado, che aveva condannato il B. a pagare alla moglie la somma di lire 50.000.000, oltre interessi, pari alla metà dell’importo complessivamente investito per l’acquisto delle quote dei fondi Imirend e Imicapital.

Non vi è stata, pertanto, alcuna domanda nuova della K. in appello.

2. – Devesi, pertanto, esaminare il ricorso principale.

3. – Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3), cod. proc. civ. Sulla premessa di avere contribuito all’acquisto della casa coniugale in misura notevolmente maggiore rispetto al marito (avendo investito la somma di lire 70.000.000, provenienti dalla eredità paterna, laddove il marito aveva in realtà impiegato denaro della comunione), la ricorrente ritiene che nella specie avrebbe dovuto essere fatta applicazione dell’art. 192, .terzo comma, cod. civ., concernente il rimborso delle somma prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune. Erroneamente la Corte d’appello avrebbe dato rilievo all’accordo intervenuto in sede di separazione personale, giacché l’attribuzione, in esso contenuta, della proprietà della casa coniugale in ragione del 50% a ciascuno dei coniugi non eliminerebbe il riconoscimento, ad opera dello stesso accordo, del fatto storico della diversa contribuzioni, con denaro personale per quanto riguarda la moglie ed invece con denaro della comunione per quanto riguarda il marito. 4. – Il motivo è inammissibile.

4.1. – Il giudice del merito, interpretando l’accordo di separazione stipulato dai coniugi, che recava clausole finalizzate a regolare l’assetto patrimoniale in conseguenza dell’allentamento del vincolo coniugale, con particolare riguardo al godimento e alla proprietà dei beni, ha ritenuto che il riconoscimento, in esso contenuto, della comproprietà della casa coniugale al 50%, e – al contempo – l’assenza di qualsiasi riferimento a rapporti di dare ed avere tra i coniugi, nonostante gli apporti di diversa misura in relazione all’acquisto di tale immobile, implicasse inequivocamente – rinuncia al proprio credito" da parte della K..

4.2. – La ricerca della comune intenzione delle parti nella stipulazione di un accordo di separazione è compito del giudice di merito e costituisce una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da una motivazione adeguata e immune dalla violazione delle norme dettate per l’interpretazione negoziale.

La ricorrente non denuncia l’interpretazione della portata dell’accordo per vizi di motivazione o per violazione dei canoni di ermeneutica negoziale, la doglianza di mancata applicazione dell’art. 192, terzo comma, cod. civ, non essendo idonea a veicolare una utile censura di violazione delle regole di interpretazione negoziale nel ragionamento seguito dal giudice del merito, tanto più che – come questa Corte ha già statuito (cfr. Cass. 4 febbraio 2005, n. 2354; Cass. 24 maggio 2005, n. 10896) – detta norma non può essere invocata per riequilibrare, in sede di scioglimento della comunione legale, attraverso il meccanismo dei rimborsi e delle restituzioni, il maggiore impegno finanziario sostenuto da un coniuge rispetto all’altro ai fini dell’acquisto di un bene in comunione legale.

In definitiva, il motivo di ricorso si risolve nella mera contrapposizione di un’interpretazione dell’accordo di separazione diversa da quella adottata dalla Corte territoriale.

5. – Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 179 cod. civ., in relazione agli artt. 177 e 195 cod. civ. Premette la ricorrente che il denaro per l’acquisto dei fondi è entrato nel conto corrente intestato al marito: ed essendo questa transazione intervenuta durante il matrimonio, il conto corrente, benché intestato al marito, doveva considerarsi appartenente alla comunione familiare, secondo quanto del resto statuito dalla giurisprudenza penale della Corte di cassazione (Cass. pen. 13 novembre 1997, Airoldi). Erroneamente, pertanto, la Corte d’appello avrebbe applicato l’art. 179 cod. civ. relativamente all’acquisto delle quote dei fondi comuni di investimento, essendo stato impiegato per tale acquisto denaro transitato nel conto corrente e quindi divenuto, in forza della presunzione di cui agli artt. 177 e 195 cod. civ., oggetto della comunione legale.

6. – La doglianza è priva di fondamento.

6.1. – La Corte d’appello ha escluso che l’acquisto di quote di fondi comuni di investimento mobiliare da parte del marito fosse caduto in comunione legale, e ciò trattandosi della surrogazione di un bene personale (il prezzo ricavato dalla vendita di un immobile di cui il B. era proprietario prima del matrimonio) ai sensi dell’art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ. ed ha giudicato non rilevante l’omissione della prevista dichiarazione, perché essa sarebbe necessaria solo quando è obiettivamente incerto se l’acquisto realizzi o meno il reinvestimento di denaro personale, non già quando – come nella specie – é certa il carattere personale (ai sensi dell’art. 179, primo comma, lettera a) del corrispettivo.

6.2. – La ricorrente contesta questa conclusione, osservando che il denaro ricavato dalla vendita del bene personale, essendo stato depositato, prima del reinvestimento in quote di fondi comuni, su un conto corrente del marito, sarebbe caduto, per ciò solo, in comunione legale.

La tesi della ricorrente – secondo cui il denaro depositato su un conto corrente intestato ad un coniuge in regime di comunione legale entrerebbe a far parte della comunione – non può essere condivisa.

6.3. – Vero è che una pronuncia della Corte di cassazione penale (sentenza 13 novembre 1997; depositata il 23 gennaio 1998; Airoldi) ha statuito che -anche il denaro depositato in un istituto bancario è oggetto della comunione in via assoluta ai sensi dell’art. 177, primo comma, lettera c), cod. civ., senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell’ultima parte dell’art. 195 cod. civ., sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi", ritenendo di conseguenza legittimo il provvedimento di sequestro conservativo avente ad oggetto la metà dei valori esistenti in conti correnti e depositi intestati esclusivamente al coniuge dell’imputato.

Ma la giurisprudenza della Cassazione civile segue un indirizzo diverso. La sentenza della V Sezione 1° aprile 2003, n. 4959 – sulla premessa che "la comunione legale tra coniugi di cui all’art. 177 cod. civ. riguarda gli acquisti, vale a dire gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà di un bene o la costituzione di diritti reali sullo stesso, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro natura relativa e personale, pur se strumentali e finalizzati all’acquisto di un bene, non sono suscettibili di rientrare in una comunione legale dei beni" – ha escluso che possa comprendersi nella comunione legale dei beni il contratto di conto corrente concluso con la banca dal coniuge intestatario, essendo detto contratto "fonte, a seguito di saldo attivo, di un diritto di credito spettante esclusivamente a quest’ultimo". Ritiene configurabile una comunione de residuo, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lettera c), sui redditi depositati su conto corrente (nella specie, cointestato), Cass., sez. I, 17 novembre 2000, n. 14897, la quale conferma la decisione di merito che aveva considerato rientranti nella comunione de residuo le somme depositate sul conto cointestato, ritirate prima della separazione ed asseritamente utilizzate per l’attività dì impresa del coniuge prelevante. Più di recente, questa Sezione (con la sentenza 27 aprile 2004, n. 8002) ha precisato che il regime di cui all’art. 177 cod. civ. viene in realtà ad indirizzarsi sui soli acquisti di beni e non viene ad inerire, invece, all’instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali, ove mai fatti oggetto di cointestazione nell’ambito di un conto corrente bancario, non esorbitano dalla logica di un tal tipo di rapporti e non conoscono, quindi, alcuna preclusione legata al preventivo scioglimento della comunione legale coniugale".

6.4. – Ritiene il Collegio che il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga, come nella specie, dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, primo coma, lettera a), cod. civ., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.

Correttamente, pertanto, la Corte d’appello è pervenuta alla conclusione che il coniuge potesse utilizzare le somme accantonate sul di lui conto corrente, provenienti dall’alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all’art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ.

7. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso della spose di questa fase del giudizio, liquidate in euro 1.600,00, di cui euro 1.500,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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