Cass. pen., sez. VI 29-03-2006 (15-03-2006), n. 10951 MISURE CAUTELARI – CASSAZIONE- Vizio della motivazione – Incompatibilità con atti del processo – Sindacato del giudice di legittimità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto

1. F.C. ricorre per cassazione avverso l’ordinanza in data 22 giugno 2005 del Tribunale di Firenze che ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti per il reato di cui all’art. 74 del d.P.R. 309/1990.

2. Con l’unico motivo di ricorso si denunzia la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione sul rilievo che l’ordinanza impugnata – pur qualificando il ricorrente come pedina essenziale dell’organizzazione finalizzata al traffico di stupefacenti – non ha indicato i motivi per cui i fatti esposti si colleghino al C.

Inoltre la difesa sottolinea che:

a) non vi è rispondenza tra la esposizione delle risultanze delle indagini contenuta nell’ordinanza impugnata (nella quale si sostiene che il coindagato Q., arrestato a Livorno, ha ammesso che il carico di droga di cui era latore gli era stato consegnato per il recapito ad Olbia dove era diretto al C.) e la nota di polizia giudiziaria del 6 maggio 2005 nella quale mancherebbe il riferimento al C.;

b) non vi è rispondenza tra la esposizione dei contenuti delle intercettazioni da parte del Tribunale del riesame e la suddetta nota di polizia giudiziaria.

Diritto

1. Preliminarmente il collegio osserva che il termine per la presentazione di "motivi nuovi" previsto dall’art. 10, comma 5, della legge 46/2006 non si applica ai procedimenti de libertate ex art. 311 c.p.p. (e non determina perciò il rinvio a nuovo ruolo da disporre in assenza della parte privata difensore) in quanto:

a) il quinto comma del citato art. 10 della legge 46/2006 non richiama l’art. 311, comma 4, c.p.p., norma speciale che regola il procedimento incidentale dinanzi alla Corte di cassazione prevedendo termini diversi da quelli contemplati dall’art. 585, comma 4, c.p.p.;

b) il comma 5 dell’art. 311 c.p.p. prevede che la Corte di cassazione decida i procedimenti de libertate entro trenta giorni dalla ricezione degli atti. Ne consegue che non può trovare applicazione, nel presente procedimento, la norma transitoria dettata dall’art. 10, comma 5, della legge 46/2006 per regolare la fase di passaggio alla nuova disciplina dei "casi di ricorso" per cassazione prevista dal novellato art. 606 del codice di rito.

2. Il collegio ritiene che, nel presente procedimento, debba trovare applicazione l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. nella sua nuova formulazione perché la legge 46/2006 – che ha novellato la norma del codice di rito – è entrata in vigore il 9 marzo 2006 ed essa deve essere applicata "ai procedimenti in corso" in conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, dell’art. 10 della stessa legge.

Ne deriva che laddove – come nel caso in esame – il ricorso richiami "atti del processo" ritenuti idonei a dimostrare la carenza o la manifesta illogicità della motivazione, il collegio deve esaminare il motivo di ricorso alla luce del testo novellato dall’art. 606, comma 1, lett. e), del codice di procedura.

Inoltre il fatto che il legislatore, nell’ampliare la sfera del controllo della Corte di cassazione, abbia fatto riferimento al vizio della motivazione risultante da "atti del processo" non esclude che la norma sia applicabile, nella sua nuova formulazione, anche alla motivazione dei provvedimenti adottati nella fase del "procedimento", avverso i quali sia proponibile il ricorso per cassazione.

Se è vero che il codice di procedura penale distingue tra "procedimento" e "processo", una interpretazione che restringesse l’applicazione del nuovo art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. ai soli provvedimenti emessi nell’ambito del "processo" (ritenendoli gli unici per i quali il vizio motivazionale può risultare da atti del processo in senso stretto) sarebbe in palese contrasto con gli artt. 3 e 13 della Carta costituzionale.

Una tale interpretazione aprirebbe infatti la strada ad una rilevante diversità di trattamento tra coloro che ricorrono per cassazione avverso provvedimenti in materia di libertà personale adottati nel corso del procedimento e coloro che propongono ricorrono avverso le pronunce (o le stesse decisioni in materia di libertà) emesse nel corso del processo.

Si tratterebbe, con tutta evidenza, di una ingiustificata disparità di trattamento, soprattutto se si considera che nei procedimenti de libertate è in causa il bene primario della libertà personale.

Disparità di trattamento che è possibile e necessario evitare attraverso una lettura costituzionalmente orientata della nuova normativa che interpreti in senso lato il riferimento contenuto nella lett. e) del nuovo art. 606 del codice di rito, agli atti del processo, considerandolo estensibile, nei procedimenti de libertate, agli atti del procedimento.

3. Il testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), del c.p.p. – novellato dall’art. 8 della legge 46/2006 – stabilisce che il ricorso per cassazione può essere proposto per "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame".

Se si confronta il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), con quello anteriore alla novella si rileva che le innovazioni introdotte riguardano:

a) la statuizione relativa alla "contraddittorietà" della motivazione, che si aggiunge alle ipotesi di mancanza o di manifesta illogicità della motivazione stessa contemplate nel vecchio testo della norma;

b) la previsione che il vizio della motivazione possa risultare (oltre che dal testo del provvedimento impugnato) da "altri atti del processo";

c) l’indicazione che si deve trattare di atti "specificamente indicati nei motivi di gravame".

4. Alla luce della nuova formulazione della norma, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia:

a) sia "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;

c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico.

5. Non è sufficiente, dunque, che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. Occorre invece che gli "atti del processo" su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva il ricorrente – per dimostrare la sussistenza del vizio logico-giuridico di cui all’art. 606, lett. e), c.p.p. – non può limitarsi ad addurre l’esistenza di "atti del processo" non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o di "atti" processuali che non sarebbero stati correttamente o adeguatamente interpretati dal giudicante ma deve invece:

a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento;

b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata;

c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda;

d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

6. Sotto altro e concorrente profilo occorre tenere presente che il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett., e) c.p.p. – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581, lett. c), c.p.p. (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere l’"indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta").

Con il risultato di porre a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p. – anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali che intende far valere, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi (integrale esposizione e riproduzione, nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia).

Dal canto suo il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo".

Controllo che, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Un diverso modo di procedere – ed in particolare un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi – si risolverebbe in una impropria riedizione del giudizio di merito e non assolverebbe alla funzione essenziale del sindacato sulla motivazione.

Al giudice di legittimità resta infatti preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa).

Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

7. Esaminata in quest’ottica la motivazione della pronuncia impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse perché il provvedimento impugnato – con motivazione esente da evidenti incongruenze e da interne contraddizioni – ha rappresentato le ragioni che hanno indotto il giudice a ravvisare, a carico del ricorrente, i gravi indizi di colpevolezza per i fatti a lui contestati mentre quest’ultimo non ha indicato in maniera specifica vizi di legittimità o profili dì illogicità della motivazione della decisione impugnata ma ha mirato solo a prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti indicata come preferibile rispetto a quella adottata dai giudici del merito.

In particolare il giudice ha rappresentato in termini lineari e coerenti il ruolo del ricorrente nella vicenda criminosa di importazione di droga, illustrando – sulla scorta di numerose intercettazioni e delle investigazioni della Polizia – la sua posizione di pedina essenziale dell’associazione finalizzata al traffico nonché i rapporti tra F. e M. C. e la coppia di trafficanti composta da M.A. e R.R. nel quadro di un solido e stabile accordo criminoso per il trattamento di consistenti quantitativi di cocaina.

Né la motivazione del Provvedimento risulta inficiata dalla asserita mancanza di rispondenza tra la esposizione delle risultanze delle indagini contenuta nell’ordinanza impugnata e la nota di polizia giudiziaria del 6 maggio 2005.

Secondo il ricorrente, infatti, la nota di polizia giudiziaria espone che vi è stata la confessione di un soggetto, il Q., coinvolto nel traffico di droga che, arrestato a Livorno, ha ammesso le proprie responsabilità ed ha affermato di aver avuto incarico di consegnare la droga ad Olbia per il compenso di 1500 euro, senza menzionare il C. come destinatario della sostanza stupefacente come fa il provvedimento impugnato.

Ma il ricorrente non considera che il Tribunale ha desunto tale ultima circostanza dall’analisi dei complessivi sviluppi investigativi successivi all’arresto del Q., sviluppi analiticamente esposti nell’ordinanza di custodia cautelare e ripresi, sia pure in termini sintetici e riassuntivi, nell’ordinanza impugnata.

Per quanto attiene poi alla postulata differenza tra l’esposizione, nell’ordinanza, dei contenuti delle intercettazioni e la suddetta nota di polizia, il collegio osserva in primo luogo che il ricorrente non si è dato carico di indicare con la necessaria specificità dove sia rintracciabile il passo della nota di polizia giudiziaria da lui citato e per quali ragioni la rilevata differenza abbia l’effetto di vanificare o rendere contraddittoria la motivazione e, in secondo luogo, che l’ordinanza custodiale e quella del Tribunale del riesame si fondano su di una pluralità di conversazioni intercettate, tra cui quelle intervenute tra i fratelli C., che non sono minimamente menzionate nel motivo di ricorso.

Si è perciò di fronte a censure per un verso generiche e per altro verso frammentarie, del tutto inidonee a dimostrare che, nel suo complesso, la motivazione è inesistente o affetta da gravi vizi logici o strutturata in modo da accogliere in sé prospettazioni disarmoniche ed inconciliabili tra di loro.

3. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma – ritenuta equa – di euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.

Va dato mandato alla cancelleria per gli adempimenti ex art. 94-1-ter disp. att. c.p.p.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle ammende.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti ex art. 94-1-ter disp. att. c.p.p.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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