Cass. pen., sez. III 20-01-2006 (09-11-2005), n. 2648 REATI CONTRO L’ECONOMIA PUBBLICA, L’INDUSTRIA E IL COMMERCIO – DELITTI CONTRO L’INDUSTRIA E IL COMMERCIO – VENDITA DI PRODOTTI INDUSTRIALI CON SEGNI MENDACI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

Con ordinanza del 5 maggio 2005 il tribunale di Trieste respingeva la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di Axx, indagato per il delitto di cui agli artt. 56 e 517 c.p., nei confronti del decreto di sequestro probatorio adottato dal PM avente ad oggetto alcuni capi di abbigliamento importati dalla Moldavia ad opera della Tasci srl della quale il predetto era legale rappresentante.

Conseguentemente confermava il decreto.

Il sequestro aveva colpito capi di abbigliamento provenienti da quel paese sui quali era tuttavia apposta la targhetta "designed & produced by Alfa srl Rovereto Italy ", ritenuta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’origine e provenienza del prodotto.

Nella richiesta di riesame la difesa aveva fatto presente che all’estero, per i noti motivi concernenti il rispam1io sul costo della mano d’opera, veniva effettuata solo la lavorazione del prodotto che però doveva essere conforme ai campioni presentati dal cliente, cioè a dire la ditta dell’indagato, che forniva anche la materia prima per la lavorazione.

Aveva ricordato che l’art. 517 del c.p. nel riferirsi all’origine e provenienza del prodotto non adotta un concetto di tipo geografico e che l’entrata in vigore dell’art. 4 comma 49 della legge 350 del 2003 (finanziaria del 2004) non aveva inciso su tale concetto.

Nella sua articolata risposta il tribunale premette che a differenza degli artt. 473 e 474 del c.p., che sono preposti alla tutela del marchio, il successivo art. 517 si propone invece la tutela dell’ordine economico e quindi sia del produttore, che deve essere protetto dalla concorrenza sleale, sia del consumatore che non deve essere sorpreso nella sua buona fede da segni o diciture mendaci di qualsiasi tipo apposte sul prodotto. Dopodiché osserva come non sempre il fenomeno della delocalizzazione della produzione possa considerarsi neutro rispetto alla qualità del prodotto e quindi alla tutela della buona fede del consumatore. In particolare ciò non avviene, nel ragionamento del tribunale, nel caso di prodotti per i quali il livello professionale della manodopera ha una importanza preponderante. Ed in tale categoria il tribunale include i prodotti in questione dopo avere ricordato che la tutela normativa è accordata anche al consumatore di media diligenza e perfino a quello di non particolare diligenza ed altresì che per alcuni prodotti, come per esempio l’abbigliamento italiano, il luogo di provenienza è destinato ad ingenerare nel consumatore una particolare affidabilità.

Peraltro, osserva il tribunale, tale realtà non necessariamente è di ostacolo alla delocalizzazione di segmenti della produzione come è dimostrato da grandi marchi commercializzati in tutto il mondo con la indicazione del luogo di produzione e la conseguente possibilità offerta al consumatore di acquistare o meno il bene anche se materialmente fabbricato in luogo diverso dalla sede dell’impresa responsabile del processo produttivo.

In questo contesto il tribunale ricorda come la novità introdotta dall’art. 4 comma 49 della legge 350 del 2003 non possa considerarsi irrilevante dal momento che esso chiarisce che per la classificazione di prodotti o merci come originari dall’ Italia debba farsi riferimento alla normativa europea sull’origine, aggiungendo che per quest’ultima -regolamento CEE del 12 ottobre 1992 n. 291392, che istituisce un codice doganale comunitario, art. 24 – la merce è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale.

A mezzo del proprio difensore propone ricorso per cassazione l’indagato proponendo le seguenti osservazioni principali:

la lavorazione in una fabbrica italiana non garantisce la presenza di operai particolarmente specializzati e neppure la presenza di tutti operai italiani;

la qualità del prodotto, secondo quanto sempre affermato dalla Corte di Cassazione, non può dipendere dalla sua provenienza geografica;

la finanziaria del 2004 non può riguardare capi di abbigliamento sportivo di serie quale quelli in questione;

la tesi del Tribunale, osserva il ricorrente, finisce con l’appannare la centralità dell’ imprenditore italiano cui deve invece far capo la responsabilità del prodotto.

Tanto premesso in fatto, si osserva in diritto:

il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Il Tribunale premette di condividere l’indirizzo di questo Supremo Collegio, affermatosi fin dalla sentenza n. 2500 del 7 luglio 1999, Thun in forza del quale l’art. 517 con le espressioni" origine o provenienza " dell’opera dell’ingegno e del prodotto industriale si riferisce in realtà non al luogo geografico di produzione bensì al soggetto cui deve farsi risalire la responsabilità giuridica e produttiva del bene e che pertanto garantisce la qualità del prodotto (nello stesso senso Cass. sez. III, 21 ottobre 2004/ 2 febbraio 2005 n. 3352; Cass. sez. III, 17 febbraio/ 14 aprile 2005 n. 13712; Cass. sez. III, 19 aprile / 23 settembre 2005 n. 34103).

Ricorda tuttavia come il concetto geografico riprenda quota allorché si tratti di prodotti alimentari ma soprattutto evidenzia come la legge finanziaria del 2004 abbia riproposto il tema in tem1ini nuovi rispetto al consolidato orientamento di questa Corte di Cassazione appena indicato.

Questa legge infatti all’art. 4 comma 49 si riferisce in primo luogo a tutti i prodotti e dunque non solo a quelli industriali. Inoltre nell’estendere ulteriormente o, come altri ritiene, nel precisare la portata dell’art. 517 – che, da un punto di vista strettamente letterale, prende in considerazione le sole condotte del porre in vendita o mettere altrimenti in circolazione – includendovi l’"importazione ed esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine? " e nel proporsi la tutela della indicazione " made in Italy ", richiama la normativa europea sull’ origine dei prodotti.

Ebbene, in base a questa normativa, come in precedenza già rilevato richiamando l’art. 24 del regolamento CEE 291392 del 1992, per luogo di origine del prodotto deve intendersi quello dell’ultima trasfomazione.

Occorre peraltro evidenziare, sempre seguendo la linea del ragionamento del tribunale, che anche nel successivo art. 61 della predetta finanziaria, dove è prevista l’organizzazione di una particolare tutela per le merci prodotte integralmente sul territorio italiano, è ancora richiamata la normativa comunitaria.

Il problema è di stabilire se quest’ultima abbia un campo di applicazione limitato al settore doganale oppure se abbia prodotto una modificazione all’ interno della struttura dell’ art. 517 del c.p. quale risultante dalla consolidata interpretazione datane dal giudice di legittimità.

Il tribunale inclina per la seconda interpretazione ma, come all’inizio si è ricordato, non intende discostarsi dalla interpretazione che questa Corte ha dato costantemente di tale norma e del concetto in esso enunciato di origine o provenienza del prodotto.

Non può esimersi tuttavia, il tribunale, dal sottolineare – ed è questo il nucleo centrale del suo ragionamento, sotteso alla decisione adottata – la particolarità del settore merceologico di cui nella specie si tratta. Nota infatti come nel settore dell’abbigliamento l’Italia goda di una riconosciuta leadership in campo mondiale, dovuta anche alla particolare specializzazione delle maestranze impiegate nel settore. Deriva da ciò che a tutto concedere, pur considerando che il disegno ed il tessuto sono italiani, resta pur sempre il fatto che la lavorazione del prodotto è avvenuta all’ estero ad opera di un’azienda avente personalità giuridica diversa dalla srl Alfa ma soprattutto ad opera di maestranze che non hanno la stessa tradizione di quelle italiane in questo settore specifico.

E questa circostanza era taciuta nell’etichetta apposta sui capi di abbigliamento sequestrati dalla Dogana, la quale lasciava anzi intendere che la produzione fosse avvenuta in Italia. Non altrimenti infatti, poteva essere interpretato il produced by Alfa s.r.l. Rovereto ltaly, ad opera di un consumatore di media diligenza che poteva avere, per le ragioni appena enunciate, un legittimo interesse ad acquistare un prodotto che fosse stato anche materialmente lavorato in Italia. Trattasi – si vuole sottolineare – di un interesse oltre che legittimo anche concreto, che si colloca oltre la categoria di interessi – questi sì di più complicata tutelabilità – ispirati da ragioni meramente ideologiche quali la volontà di favorire l’impiego della manodopera nazionale o il rifiuto di acquistare beni prodotti in paesi dove non è sufficientemente tutelato il lavoro minorile – e la sua concretezza si evince a contrariis dal fatto che proprio in casi come questo – di settori merceologici particolarmente apprezzati in campo mondiale – il produttore fornisce maliziosamente al consumatore avare se non addirittura fallaci indicazioni con l’intento taciuto ma evidente di conferire al prodotto una maggiore affidabilità promuovendone in definitiva l’acquisto.

La normativa che disciplina la materia è indubbiamente in movimento alla ricerca di un punto di equilibrio fra fenomeni diversi e virtualmente contrastanti quali la globalizzazzione, la necessità di sostenere la capacità concorrenziale delle imprese nazionali ricorrendo alla delocalizzazione della produzione ma anche quella di apprestare una efficace tutela di un consumatore sempre più esigente.

In questo quadro si inserisce il DL 35 del 2005 convertito nella legge 80 del 2005, la cd. legge sulla competitività, anch’essa potenzialmente idonea a mettere in crisi il concetto di "luogo di origine o provenienza "quale elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte. Nel suo art. 12 si escludono infatti dai benefici di cui alla legge 100 del 1990, al D.Lvo. 143 del 1998 ed alla legge 273 del 2002 le imprese che non prevedono il mantenimento in Italia anche di una parte sostanziale delle attività produttive. Si tratta di un altro sia pure modesto segnale in direzione della rilevanza del luogo della materiale produzione del bene, anche se nascente da preoccupazioni di natura diversa da quelle di cui si è sinora trattato.

Peraltro, come già si è osservato, nell’impugnata ordinanza l’orientamento in subjecta materia di questa Suprema Corte non è disatteso, ragione per cui non potrebbe comunque ravvisarsi in essa alcuna violazione di legge che, allorché si tratta di misure cautelari speciali, è il solo vizio deducibile con il ricorso per cassazione non essendo per contro deducibile il vizio motivazionale (art. 325 co. 1 c.p.p.).

Restando nel solco di tale orientamento, che prevede come in taluni casi il luogo di produzione debba comunque essere indicato, l’ordinanza stessa – lungi dall’essere priva di motivazione o affetta da motivazione solo apparente e dunque in contrasto con il precetto sancito a pena di nullità di cui all’art. 125 co. 3 c.p.p. – dà contezza del proprio convincimento, che nella specie cioè, per la particolare importanza che assumeva nel processo produttivo la qualità della manodopera e per essere comunque l’autore della materiale produzione soggetto economico formalmente diverso (la società moldava CSM Uniform srl) dall’azienda di cui l’indagato era legale rappresentante, la tutela della buona fede del consumatore richiedesse l’indicazione del luogo di produzione che invece non risultava dall’etichetta apposta sui capi di abbigliamento.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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