Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezione III Sentenza n. 1414 del 2006 deposito del 16 gennaio 2006 Sentenza annullamento senza rinvio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1 – Con sentenza del 10.12.2004 il tribunale monocratico di S. M. C. V., sezione distaccata di C., dichiarava i fratelli U? e V? R? colpevoli del reato continuato di cui all’art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, perché, il primo quale legale rappresentante del caseificio "C. Eredi R? L?", e il secondo quale titolare dell’omonima azienda zootecnica, avevano smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione: in Riardo sino al 14.11.2000.

Per l’effetto il tribunale condannava gli imputati alla pena di 5.000 euro di ammenda ciascuno, col beneficio della sospensione condizionale.

In linea di fatto il giudice accertava che il suddetto caseificio aveva venduto più volte il siero di latte derivante dalla propria attività produttiva all’azienda zootecnica di V? R?, il quale lo destinava ad alimento per le bufale.

In linea di diritto osservava in sostanza: – che il siero di latte in questione era qualificabile come rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione dei prodotti caseari; – che la norma interpretativa di cui all’art. 14 della legge 178/2002, laddove restringe la nozione comunitaria di rifiuto, recepita nell’art. 6 del D.Lgs. 22/1997, espungendone i residui di produzione riutilizzabili, senza pregiudicare l’ambiente, nello stesso o in diverso ciclo produttivo senza trattamento preventivo o con trattamento preventivo non recuperatorio, doveva essere disapplicata, appunto perché contraria al diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (in particolare con la sentenza N. dell’ 11.11.2004); – che pertanto la condotta contestata agli imputati era penalmente rilevante in base alla normativa di cui al D.Lgs. 22/197 anche dopo l’entrata in vigore del predetto art. 14, che doveva considerarsi tamquam non esset dopo l’emanazione della suddetta sentenza 11.11.2004 della Corte di Giustizia.

2 – Avverso la condanna ha proposto ricorso per cassazione il difensore di entrambi gli imputati, deducendo due motivi a sostegno.

2.1 – Col primo lamenta in sostanza erronea applicazione dell’art. 51 D.Lgs. 22/1997 nonché mancanza o manifesta illogicità di motivazione sul punto, giacché i c.d. scarti alimentari – come il siero di latte – devono considerarsi materie prime destinate all’alimentazione animale e non rifiuti.

Chiede comunque la declaratoria di prescrizione del reato.

2.2 – Col secondo motivo denuncia difetti di motivazione in ordine alla quantificazione della pena.

Motivi della decisione

3 – Va anzitutto precisato che la fattispecie de qua non è sussumibile nella disciplina di cui al D.Lgs. 14.12.1992 n. 508 (che ha attuato la direttiva 90/667/CEE in materia di norme sanitarie per la eliminazione, la trasformazione e l’immissione sul mercato di rifiuti di origine animale) e al Reg. CE 3.10.2002 n. 1774 (recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano), che ha espressamente abrogato la predetta direttiva CEE 90/667.

Infatti la condotta contestata agli imputati consisteva nel trasporto e nello smaltimento del siero di latte derivante dal processo produttivo di un caseificio, mentre entrambe le normative succitate prevedono norme di polizia sanitaria e veterinaria per il trasporto, la trasformazione, l’uso o l’eliminazione di rifiuti (art. 1 D.Lgs. 508/1992) o sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (art. 1 Reg. CE 1774/2002). E’ chiaro che il latte cessa di essere un sottoprodotto di origine animale quando viene impiegato come materia prima nella produzione casearia, e che il siero di latte che residua da questa produzione va qualificato come rifiuto speciale ex art. 7 del D.Lgs. 5.2.1997 n. 22 senza che possa (più) definirsi di origine animale.

Manca quindi qualsiasi presupposto ex art. 8 D.Lgs. 22/1997 per escludere dal regime generale dei rifiuti il siero di latte derivante dalla produzione casearia, non soltanto perché la polizia sanitaria e veterinaria, oggetto del D.Lgs. 508/1992 e del Reg. CE 1774/2002, è eterogenea, e non speciale, rispetto alla disciplina ambientale della gestione dei rifiuti (come ritiene Cass. Sez. III, n. 8520 del 4.3.2002, Leuci), quanto piuttosto perché l’oggetto della disciplina (il citato siero di latte) non rientra in nessuna delle categorie che il predetto art. 8 esclude dalla disciplina generale dei rifiuti (e in particolare non rientra nella categoria delle carogne o dei rifiuti di origine animale).

Va pertanto disatteso il primo motivo di ricorso (n. 2.1).

4 – Va anche respinta la richiesta di dichiararsi estinto il reato per prescrizione.

Infatti, al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p., va aggiunto il periodo in cui il processo è rimasto sospeso per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell’ 11.1.2002, Cremonese, Rv. 220509).

Nel caso di specie, al periodo di quattro anni e mezzo (che scadeva il 14.5.2005) va aggiunto il periodo di sette mesi e nove giorni per la sospensione del processo (dal 25.9.2003 al 28.4.2004 e dal 3.12.2004 al 10.12.2004), sicché la prescrizione maturerà solo il 23.12.2005. Nella materia è recentemente intervenuta la legge 5.12.2005 n. 251 (entrata in vigore l’8.12.2005), la quale, con l’art. 6: a) modificando l’art. 157 c.p., ha aumentato a quattro anni il tempo di prescrizione ordinaria per tutte le contravvenzioni; b) modificando l’art. 159 c.p., ha codificato il principio stabilito dalla suddetta sentenza Cremonese in tema di sospensione processuale per impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo però che la sospensione non può durare più di sessanta giorni oltre la cessazione dell’impedimento; c) modificando gli artt. 160 e 161 c.p., ha stabilito che in caso di interruzione della prescrizione, i termini prescrizionali non possono essere prolungati oltre il quarto per gli imputati che non siano recidivi specifici o infraquinquennali, delinquenti abituali o professionali.

Alla stregua della novella, nel caso di specie, il periodo prescrizionale ordinario sarebbe scaduto il 14.11.2005 ma si sarebbe dovuto prolongare di al meno 67giorni per le succitate sospensioni processuali intervenute, arrivando così al 20.1.2006.

Tuttavia, per effetto della norma transitoria di cui all’art. 10, comma 2, la disciplina del predetto art. 6 non si applica ai processi in corso, trattandosi di un reato e di una vicenda processuale per cui i termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti.

5.1 – In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, la sentenza impugnata ha colto nel segno laddove ha ritenuto che il siero di latte residuato dal processo produttivo del caseificio di U? R? rientrava nella categoria dei rifiuti speciali, di cui all’art. 6 e 7 D.Lgs. 22/1997, e che la cessione e il trasporto del siero, senza alcuna autorizzazione, dal predetto caseificio all’azienda zootecnica di V? R?, integrava il reato di cui all’art. 51 dello stesso decreto legislativo (in senso conforme v. Cass. sez. IIL n. 33295 del 2.8.2004, Cioffi, Rv. 229011).

La sentenza è incorsa invece in errore giuridico laddove ha ritenuto che la norma interpretativa di cui all’art. 14 del di. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, in quanto restringe indebitamente la nozione comunitaria di rifiuto, debba essere direttamente disapplicata (rectius non applicata) dal giudice nazionale.

5.2 – Che la norma dell’art. 14, pur autoqualificandosi come interpretativa, modifichi in senso restrittivo la nozione di rifiuto precisata dall’art. 6 D.Lgs. 22/1997, e quindi sia incompatibile con la nozione di rifiuto stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, di cui la disposizione nazionale è sostanzialmente la riproduzione, è indubbio, ed è riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza pressoché unanimi.

Invero, per l’art. 6 D.Lgs. 22/1997 e per l’art. 1 della direttiva 75/442/CEE costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra in una delle sedici categorie elencate in allegato di cui il detentore "si disfi" o abbia deciso o abbia l’obbligo di "disfarsi". L’elenco delle categorie, di cui all’allegato A, è un elenco "aperto", perché la prima categoria (Q1) comprende tutti i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati, e la sedicesima (Q16) qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle altre categorie. L’art. 14 legge 178/2002, invece, nel suo primo comma, identifica il concetto di "disfarsi" con quello di smaltimento o di recupero, stabilendo che le parole "si disfi" devono essere interpretate come qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. 22/1997.

Attraverso questa identificazione, però, la norma sedicente interpretativa restringe la nozione comunitaria di rifiuto, escludendone ogni sostanza o materiale di cui il detentore "si disfi" mediante semplice "abbandono", posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l’abbandono è nettamente distinto dallo smaltimento e a maggior ragione dal recupero (per il diritto nazionale v. art. 14 D.Lgs. 22/1997, su cui Cass. Sez. III, sent. n. 21024 del 5.4.2004, Eoli, Rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art. 4, comma 2, direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia, Sez. II, dell’ 11.11.2004, causa C-457/02. N., par. 38,39 e 40).

In sostanza, secondo il diritto comunitario e il legislatore nazionale del 1997, ci si può disfare di un rifiuto, con l’obbligo di sottostare alla relativa disciplina, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche semplicemente abbandonandolo; secondo il legislatore nazionale del 2002, invece, chi abbandona una sostanza rientrante nelle anzidette categorie di rifiuti è esente dalla disciplina imposta in materia per assicurare la tutela della salute pubblica e della qualità ambientale.

Ma dove la norma dell’art. 14 assume una portata ancor più socialmente innovativa é nel secondo comma, in forza del quale non ricorrono le fattispecie della decisione di "disfarsi" e dell’obbligo di "disfarsi" ove si tratti di sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e oggettivamente utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo di consumo?: a) ?senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente"; ovvero b) ?dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22".

Invero, secondo la definizione comunitaria di rifiuto, letteralmente trasfusa nell’art. 6 D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di "disfarsi" costituisce sempre rifiuto. Per l’art. 14, invece, questo residuo perde la qualità di rifiuto se è o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, o più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio per l’ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio attraverso atti di prelievo, cernita, separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura o macinatura, che non implicano una trasformazione merceologica o chimica dei materiali).

E’ quindi innegabile che anche sotto questo profilo l’art. 14 restringe la nozione comunitaria di rifiuto, giacché per il diritto comunitario la volontà o l’obbligo di "disfarsi" di un residuo di produzione o di consumo costituisce quest’ultimo come rifiuto, mentre per la norma nazionale sedicente interpretativa quel residuo diventa semplice materia prima ove ricorra la condizione della sua attuale o potenziale riutilizzazione.

Concludendo, l’art. 14 ha introdotto una doppia deroga alla definzione comunitaria di rifiuto, sia laddove ha identificato l’attività di "disfarsi" della sostanza con quella di smaltimento o di recupero della medesima (escludendo così l’attività di abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o l’obbligo di "disfarsi" di residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per l’ambiente. In tal modo ha esonerato dal controllo amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attività con cui il detentore si disfa di residui di produzione o di consumo, creando pericolo per l’ambiente.

Con ciò il legislatore italiano è venuto meno ai suoi obblighi di leale cooperazione di cui all’art. 10 (ex 5) del Trattato CE, pregiudicando gli obiettivi comunitari di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e di protezione della salute umana di cui all’art. 174 (ex 130 R) dello stesso Trattato.

6.1 -Tale è del resto la convinzione della Commissione della Comunità europea, la quale ha avviato contro lo Stato italiano una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 226 (ex 169) del Trattato in seguito all’approvazione dell’art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138.

Ma tale è, soprattutto, la decisione della Corte di Giustizia europea, che investita in via pregiudiziale dal tribunale di Temi della questione della compatibilità comunitaria dell’art. 14, con la sentenza della Sezione 11 dell’ 11.11.2004, Causa C-457/02, N., sviluppando il filone giurisprudenziale consacarato nelle precedenti sentenze Zanetti del 10.5.1995, C-422/92, Tombesi del 25.6.1997, C-304/94, e Palin Granit Oy del 18.4.2002, C-9/00, ha così statuito: a) la nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo "disfarsi", il quale "deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo , è la tutela della salute umana e dell’ambiente (..) ma anche alla luce dell ‘art. 174 n. 2 CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell ‘azione preventiva "(par. 33).

Una sostanza o un materiale non soggetto a obbligo di smaltimento o di recupero e di cui il detentore "si disfi" mediante semplice abbandono è considerato rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 (par. 38). E poiché l’abbandono non può essere considerato una modalità di smaltimento del rifiuto, ma è ben distinto dallo smaltimento (par. 39), la definizione comunitaria di rifiuto non può essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto le sostanze e i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero (par. 40).

b) per l’art. 14 del decreto legge italiano n. 138/2002 "affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un ‘operazione di recupero ai sensi dell ‘allegato II B della direttiva 75/442" (par. 50). Ma "un’interpretazione del genere si risolve manifestamente nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1 lett. a), primo comma, della direttiva 75/442" (par. 51).

Pertanto, la nozione comunitaria di rifiuto non può essere interpretata nel senso di escludere l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo senza trattamento preventivo o con trattamento non recuperatorio (par. 53).

Tuttavia – secondo la sentenza N., che riprende sul punto la precedente sentenza Palin Granit Oy del 18.4.2002 – può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto un materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, che il produttore riutilizza, senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un "sottoprodotto", che non ha la qualifica di rifiuto proprio perché il produttore non intende "disfarsene", ma vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44-52).

Per distinguere il "sottoprodotto" dal rifiuto è comunque necessario che il riutilizzo sia certo, che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del carattere chimico o merceologico della sostanza (par. 47).

Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52 della sentenza. Del resto, se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.

6.2 – La sentenza N. è stata emessa ai sensi dell’art. 234 (ex 177) del Trattato CE e quindi si è limitata a interpretare la norma del diritto comunitario che definisce la nozione di rifiuto; mentre solo procedendo ex art. 226 (ex 169), in esito alla procedura di infrazione attivata dalla Commissione, avrebbe potuto direttamente interpretare la norma nazionale denunciata come lesiva degli obblighi comunitari.

I diversi poteri della Corte di Giustizia nell’ambito delle diverse procedure sono chiaramente enunciati dalla stessa Corte, che ha avuto modo di chiarire il principio secondo cui essa "non può, ai sensi dell ‘art. 177 [ora 234] del Trattato, statuire sulla validità di una norma di diritto interno con riguardo al diritto comunitario, come le sarebbe consentito fare nell ‘ambito di un ricorso ex art 16.9[ora 226] del trattato CE"; peraltro "essa è tuttavia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione, che rientrano nel diritto comunitario, atti a consentirgli di pronunciarsi su tale compatibilità" (sentenza Tombesi citata del 25.6.1997, par. 36).

Si può quindi concludere che la sentenza N., pur non interpretando direttamente l’art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138, offre al giudice italiano elementi ermeneutici precisi per ritenere tale norma indiscutibilmente incompatibile col diritto comunitario.

7.1 – Resta ora da esaminare quale strumento giuridico sia esperibile per rimediare a questo innegabile vulnus che l’art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138 ha recato al diritto comunitario.

Al riguardo, la sentenza impugnata e alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17.1.2003, Ferretti, Rv. 223291;, Sez, III, n. 14’762 de 9.04.2002 Amadori Rv. 22157; Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, Rv. 224716).

Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l’art. 14 è vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. III, n. 4052 del 29.1.2003, Passerotti, Rv. 223532; Sez. III, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, Rv. 223604; Sez. III, 9057 del 26.2.2003, Costa, Rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003, Mortellaro, Rv. 224721; Sez. III, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, Rv. 226156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, Rv. 226574).

7.2 – Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell’ordinamento nazionale, ma sostengono ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto che essa è stata richiamata dal regolamento comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.

Ma tale singolare argomento, benché condiviso da qualche autore, non può accettarsi.

Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n. 259/93, "relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all’interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all’art 2 lett. a) stabilisce che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti quali definiti nell’art. 1 lettera a) della direttiva 75/442/CEE".

Orbene, è sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale è direttamente applicabile nell’ordinamento italiano, recepisca la nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della specifica materia disciplinata dal regolamento, ovvero sia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite di un documento di accompagnamento.

Questa nozione "regolamentare" quindi non è direttamente applicabile né per l’attività di abbandono né per tutte le attività di gestione dei rifiuti elencate nell’art. 6 lett. g) D.Lgs. 22/1997, che sono ben diverse dall’attività di spedizione: e cioè raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.

Anche una risalente sentenza della Corte di Giustizia ha avuto modo di stabilire che la nozione "regolamentare" di rifiuti, "che è stata istituita al fine di garantire che i sistemi nazionali di sorveglianza e controllo delle spedizioni di rifiuti rispettino criteri minimi, si applica direttamente anche alle spedizioni di rifiuti all’interno di qualsiasi Stato membro"; ma non ha affatto esteso la diretta applicabilità della nozione alle altre tradizionali attività di gestione o all’attività di abbandono, comunque diverse dalla spedizione (C.G., VI Sez., sent. del 25.6.1997, Tombesi e altri, v. mass. e parr. 44. 45 e 46).

Non si può quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.

Inoltre, come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, l’argomento da una parte non è stato mai considerato dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata più volte a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156; dall’altra non è stato utilizzato neppure dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata applicabilità nell’ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.

In conclusione, si tratta di argomento che appare ormai abbandonato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, le quali non mettono più in discussione la inapplicabilità diretta della nozione comunitaria di rifiuto (al di fuori della materia delle spedizioni disciplinata dal menzionato regolamento)

7.3 – L’orientamento giurisprudenziale minoritario, pur dando per scontato il carattere non autoapplicativo della direttiva 75/444/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, giunge ugualmente a non applicare l’art. 14 del D.L. 138/2002, in base all’argomento che, in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario, sia originario, sia derivato, il giudice nazionale deve comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che a più riprese hanno offerto una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella risultante dall’art. 14: in particolare devono dare attuazione alla citata sentenza N., che espressamente ha statuito la incompatibilità comunitaria di quest’ultima norma.

Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile.

A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest’ultima, sicché la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell’ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.

In tal senso è l’insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti ricordare la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio viene riferita ad una norma comunitaria avente (?) non v’è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate".

Invero, nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame (senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n. 94/1995).

Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma comunitaria priva di efficacia diretta in modo tale che una norma interna risulti incompatibile con la prima, il giudice italiano non ha altra scelta che applicare la norma interna o sollevare sulla stessa l’eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario, consacrati negli artt. 11 e 117 Cost. (è implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).

7.4 – Più di recente, un’altra pronuncia di legittimità, seguendo il principio indicato dalla Corte costituzionale con sent. 190/2000, ha correttamente sostenuto la necessità per il giudice italiano di interpretare la normativa nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria (Cass. Sez. III, n. 746 del 1.6.2005, Colli).

A questa stregua, ha ritenuto, sulla scia della citata sentenza N., che l’art. 14 in questione non contrasta con la nozione comunitaria di rifiuto solo laddove esclude dall’ambito della relativa disciplina i c.d. sottoprodotti, cioè quei residui di produzione (esclusi i residui di consumo) dei quali il produttore non abbia intenzione di disfarsi e che siano riutilizzati in modo certo, senza previa trasformazione, nell’ambito dello stesso processo produttivo. I "sottoprodotti", infatti, in quanto riutilizzati nello stesso ciclo produttivo come materie prime, non presentano rischi per l’ambiente, sicché per essi non ha ragion d’essere applicare la disciplina dei rifiuti.

La fattispecie dedotta nel presente processo, però, esula da ogni possibile interpretazione adeguatrice, giacché il siero di latte residuato dalla produzione casearia veniva trasportato e ceduto a un’altra azienda, esercente attività zootecnica, che lo destinava ad alimento per gli animali. Alla luce del diritto comunitario come autoritativamente interpretato dalla Corte di Giustizia europea, non poteva quindi classificarsi come "sottoprodotto", ma era invece un vero e proprio rifiuto di cui il produttore si disfaceva perché fosse riutilizzato tal quale in altro processo produttivo. Per la norma nazionale di cui si discute, invece, il siero di latte prodotto nel caseificio e riutilizzato in diversa azienda zootecnica resta indiscutibilmente escluso dalla nozione di rifiuto, e non vi può rientrare in forza di una interpretazione adeguatrice. Esso resta perciò sottratto alla disciplina sui rifiuti, in palese contrasto col diritto comunitario.

8 – L’unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi.

Invero, la norma in questione, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui di produzione o di consumo che siano semplicemente abbandonati dal produttore o dal detentore, ovvero che siano riutillizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di consumo senza trattamento recuperatorio, si pone in insanabile contrasto con la nozione di rifiuti stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CE, modificata dalla direttiva 91/156/CE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE.

Nel caso di specie, quindi, va sollevata d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 D.L. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, perché in contrasto: a) con l’art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea; b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

L’ipotizzato vulnus comunitario e costituzionale appare tanto più grave in quanto, dopo che la Commissione di Bruxelles aveva aperto la menzionata procedura di infrazione, e poco dopo che la Corte di Giustizia europea aveva emanato la citata sentenza N., il legislatore nazionale, con la legge 15.12.2004 n. 308 (delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), ha ribadito la sua volontà normativa al riguardo, stabilendo al comma 26 dell’art. 1: "Fermo restando quanto disposto dall’art. 14 del decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8.8.2002 n. 178, ?".

La non manifesta infondatezza della questione risulta dalle considerazioni svolte in precedenza, secondo le quali la norma denunciata è incompatibile (nei limiti anzidetti) con il diritto comunitario e per conseguenza lede gli obblighi costituzionali di adeguamento all’ordinamento comunitario stesso.

9.1 – Dalle considerazioni precedenti risulta altresì evidente la rilevanza della questione, atteso che il processo non può essere definito prescindendo dall’applicabilità del denunciato art. 14 e quindi dalla risoluzione della relativa eccezione di illegittimità costituzionale.

Se la norma resistesse al vaglio di costituzionalità, infatti, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, avendo l’art. 14 sottratto alla disciplina dei rifiuti il siero di latte riutilizzato senza trattamenti preventivi in altro ciclo produttivo.

Se invece la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi inapplicabile al caso di specie, al giudice a quo si aprirebbe la duplice possibilità di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione (l’art. 14) successivamente caducata dall’ ordinamento. Nella prima, ma- sia pur in misura minore – anche nella seconda ipotesi, la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale avrebbe un effetto in malam partem.

Emerge qui il noto problema del sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore, cioè delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti disposizioni incriminatrici.

Tale appare indubbiamente la norma dell’art. 14, giacché essa si configura come disposizione extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt. 6 e 51 D.Lgs. 22/1997, che, "restringendo" l’ampiezza dell’oggetto materiale del reato (i rifiuti), finisce per derogare o abrogare parzialmente, ovvero modificare in senso favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice.

9.2 – Com’è noto, muovendo dalla considerazione che l’eventuale accoglimento della eccezione di illegittimità costituzionale della norma penale più favorevole non potrebbe influire sull’esito del giudizio a quo per il principio di irretroattività di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e all’art. 2, comma 1, cod. pen, si è tratta in passato la conclusione che le eccezioni di incostituzionalità delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.

Peraltro, occorre al riguardo precisare che nel caso di specie il fatto contestato è stato commesso sino al 14.11.2000, cioè sotto il vigore della norma incriminatrice di cui agli artt. 6 e 51 D.Lgs. 22/1997, sicuramente conformi al diritto comunitario, e prima dell’entrata in vigore dell’art. 14 D.L. 138/2002, che, escludendo alcune categorie di rifiuti, ha ridotto l’area del penalmente illecito, in contrasto col diritto comunitario.

Orbene, è doveroso osservare che in un caso siffatto, se la Corte dichiarasse costituzionalmente illegittima la norma più favorevole di cui all’art. 14, la conferma della responsabilità degli imputati in base alle norma più sfavorevole di cui ai suddetti artt. 6 e 51:

a) non violerebbe il principio di irretroattività di cui al secondo comma dell’art. 25 Cost., posto che la norma dell’art. 51 era entrata in vigore prima del fatto contestato; b) non violerebbe neppure il principio di retroattività dell’abolitio criminis di cui al secondo comma dell’art. 2 cod. pen., giacché la norma dell’art. 14, entrata in vigore dopo il fatto, con l’effetto di depenalizzarlo attraverso l’abrogazione parziale dell’art. 6 Dlgs. 22/1997, non potrebbe essere applicata proprio in quanto resa inefficace dalla pronuncia di illegittimità costituzionale: in altri termini, la retroattività della norma parzialmente depenalizzatrice non potrebbe operare per la caducazione della norma stessa dall’ordinamento.

Questa conclusione è indubbiamente in linea con la nota sentenza 51/1985 della Consulta, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 2 cod. pen., nella parte in cui prevedeva la retroattività ai fatti pregressi della norma penale favorevole contenuta in un decreto legge non convertito, per contrasto con l’art. 77, ultimo comma, Cost. (secondo cui i decreti legge non convertiti perdono efficacia sin dall’inizio). Esaminando il problema se il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole fosse d’ostacolo al risultato normativo derivante dalla pronuncia di illegittimità costituzionale, la Corte ha precisato che detto principio sarebbe applicabile soltanto per i fatti "concomitanti", commessi cioè sotto il vigore del decreto legge non convertito, ma non per i fatti "pregressi", commessi cioè prima che il decreto legge entrasse in vigore.

Anche nel presente processo il fatto è "pregresso" e non già "concomitante" rispetto al periodo di vigenza della norma penale di favore.

9.3 – Comunque, il problema è ora risolto dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l’ammissibilità delle questioni di illegittimità costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l’accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo; b) della relativa motivazione comunque un "effetto di sistema la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell’art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’ interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".

Questo approdo ermeneutico non è scalfito dalle numerose statuizioni della Consulta che hanno ribadito l’inammissibilità delle sentenze additive contra reum per rispetto dell’art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversità delle due ipotesi.

Infatti, quando è dedotta la questione di costituzionalità di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l’effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l’effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalità del legislatore.

(Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinità anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando così una nuova figura di reato, che però non era applicabile al fatto contestato nel processo a quo).

Per diversa ragione l’approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la quale ha escluso la possibilità di estendere l’ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dall’art. 1 D.Lgs. 11.4.2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilità ivi previste. Qui infatti la Corte ha escluso la possibilità di ampliare o aggravare la figura di un reato già esistente attraverso la "demolizione" delle soglie di punibilità, sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto ovvero condizioni di punibilità, e cioè sono comunque "un elemento che "delimita" l’area d’intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae" determinati fatti all’ ambito di applicazione di altra norma, più generale".

Tale essendo la ratio decidendi, essa non può essere applicata ai casi – come quello presente – in cui la norma denunciata per incostituzionalità è una norma penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso specifico, la gestione dei residui di produzione utilizzati in altri cicli produttivi) a una norma incriminatrice generale (gli artt. 6 e 51 D.Lgs.). In altri termini, facendo cadere per incostituzionalità l’art. 14 si ripristinerebbe la portata originaria di una norma incriminatrice già presente nell’ordinamento, che l’art. 14 aveva parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilità previste nell’art. 2621, invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di là dei limiti in cui il legislatore l’aveva configurata.

9.4 – Analogo problema si è presentato alla Corte di Giustizia europea, chiamata a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto dal giudice del processo N., posto che la sua ricostruzione ermeneutica poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalità e irretroattività dei reati e delle pene, che è ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario.

Al riguardo la sentenza N., premesso che "una direttiva non può avere l ‘effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni", preso atto che il fatto contestato all’imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs. 22/1997, e prima dell’entrata in vigore dell’art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi era "motivo di esaminare le conseguenza che potrebbero discendere del principio di legalità delle pene per l ‘applicazione della direttiva 75/442" (parr. 29 e 30).

Non occorre qui sottolineare l’analogia fattuale tra il caso N. e il caso presente riguardo al rapporto tra tempus commissi delicti e successione delle leggi penali nel tempo. Diverso è il caso affrontato più di recente dalla stessa Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod.civ. fosse o meno adeguato in relazione all’art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).

La sentenza ha osservato che il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di imputati nell’ ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati" (par. 78 e dispositivo).

Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, né gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale più mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicché si comprende l’affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilità penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria è stata trasposta nell’ordinamento nazionale attraverso il D.L, gs. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina stessa, sicché né la previsione della responsabilità penale, né la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall’art. 51 del D.Lgs. 22/1997, e la seconda dall’art. 14 del D.L. 138/2002. Nella presente vicenda processuale, quindi, non può farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3.5.2005, proprio perché presupposto di questo principio è la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.

9.5 – Per tutte queste ragioni non sembra dubitabile la rilevanza della dedotta questione.

A conforto di questa tesi, peraltro, militano le numerose sentenze di questa Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimità costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n.437/1992; n. 194/1993) o l’accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione dall’obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).

Qui la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, è perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione dell’art. 14 D.L. 138/2002; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell’ambito dei processi principali.

P.Q.M.

la corte di cassazione, terza sezione penale, visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge 11.3.1953 n. 87, solleva d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del D.L. 8.7.2002, convertito in legge 8.8.2002 n. 178 per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata.

sospende il giudizio in corso e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata agli imputati e al loro difensore, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri;

dà altresì mandato alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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