CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 28 aprile 2011, n. 9488. In tema di clausole vessatorie.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Considerato in diritto

1. – Con il primo mezzo (violazione a falsa applicazione dell’art. 1341 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), il ricorrente ritiene che la clausola della convenzione – escludendo per il professionista la possibilità di determinare autonomamente gli onorari e rimettendo all’amministrazione committente la loro liquidazione, salvi i minimi tariffari – sarebbe vessatoria. E siccome le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti che limitano la facoltà di opporre eccezioni non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare quella clausola inefficace, proprio perché non approvata espressamente dall’Avv. S. .

1.1. – Il motivo è infondato.

In tema di condizioni generali di contratto, l’elencazione contenuta nell’art. 1341, secondo comma, cod. civ. ha carattere tassativo, di talché è ammessa l’interpretazione estensiva ma non quella analogica. Ne consegue che la clausola della convenzione riguardante i rapporti di un comune con i legali di propria fiducia, prevedente l’impegno dell’amministrazione committente a riconoscere il minino stabilito dalla tariffa, con la facoltà discrezionale, per essa, di liquidare, a fronte della notula presentata dal professionista, eventuali maggiori compensi, non costituisce clausola vessatoria – come tale abbisognevole di specifica approvazione per iscritto per essere vincolante nei confronti dell’altro contraente -, poiché detta clausola non limita la facoltà di opporre eccezioni, ma definisce l’oggetto del contratto, individuando il corrispettivo della prestazione con riferimento all’entità e alle modalità di liquidazione del compenso professionale (Cass., Sez. II, 7 febbraio 2003, n. 1833).

2. – Il secondo motivo è rubricato "violazione e falsa applicazione ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., dell’art. 2233 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., ed omessa motivazione circa un punto decisivo, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.". La determinazione del compenso professionale sarebbe, ad avviso del ricorrente, in violazione dell’art. 2233, secondo comma, cod. civ., perché non sarebbe adeguata all’importanza dell’opera ed al decoro della professione. Nella specie, infatti, l’importanza dell’opera professionale svolta è data dal fatto che, dinanzi ad una richiesta in citazione di circa otto miliardi di lire da parte degli attori nei confronti del Comune convenuto, la sentenza che ha definito il primo grado ha riconosciuto la domanda fondata solo in minima parte, per l’importo di un milione e trecentomila lire.

2.1. – La censura non coglie nel segno.

Essa non tiene conto della circostanza che il primo giudice, nel determinare l’importo del compenso professionale spettante al ricorrente, ha respinto la tesi del Comune che pretendeva di ancorare il valore della controversia sulla scorta della somma riconosciuta in concreto ad uno degli attori del giudizio, valutandolo invece "secondo il valore della domanda calcolato ai sensi del codice di procedura civile".

D’altra parte, in punto di diritto va ribadito che in tema di prestazione d’opera intellettuale, l’autonomia negoziale delle parti, nella determinazione del compenso, non incontra altro limite che quello del rispetto del minimo fissato dalle tariffe inderogabili, sicché, ove non insorga questione sull’osservanza di tali limiti, deve escludersi la possibilità, per il giudice, di ricorrere ad una liquidazione del compenso stesso in misura diversa da quella pattuita, a norma dell’art. 2233 cod. civ., a prescindere da ogni indagine stilla congruità del quantum convenuto rispetto all’importanza dell’opera e al decoro della professione (Cass., Sez. Un., 3 novembre 1981, n. 5773; Cass., Sez. Un., 16 gennaio 1986, n. 224; Cass., Sez. II, 22 novembre 1995, n. 12095; Cass., Sez. II, 5 ottobre 2009, n. 21235).

3. – Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 10, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., ed omessa motivazione circa un punto decisivo, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.), il ricorrente si lamenta che non sia stato applicato lo scaglione corrispondente al valori della causa, pari a lire otto miliardi, risultante dalla somma del valore delle diverse domande autonome proposte.

3.1. – Il motivo è privo di fondamento.

Il comma quarto dell’art. 5 della tariffa professionale forense per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, approvata con il decreto ministeriale 5 ottobre 1994, n. 585 – nel prevedere, in tema di compenso dovuto all’avvocato nell’ipotesi di difesa di più parti aventi un’identica posizione processuale, la possibilità di un aumento dell’onorario unico per ogni parte del 20% fino ad un massimo di dieci e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per ciascuna parte oltre le prime dieci e fino ad un massimo di venti – non costituisce norma eccezionale, posto che i criteri di liquidazione che la informano sono improntati al generale principio di corrispondenza e di adeguatezza dell’onorario del professionista all’opera effettivamente prestata, contenuto nel primo comma della stessa disposizione. Pertanto, detto comma è suscettibile di applicazione analogica all’ipotesi, governata dal medesimo principio, della difesa dell’unico cliente contro più parti (come tra l’altro ora espressamente stabilito dall’art. 5 della nuova tariffa professionale, approvata con il decreto ministeriale 8 aprile 2004, n. 127, ratione temporis non applicabile) (cfr. Cass., Sez. II, 15 gennaio 1996, n. 257), mentre è da escludere che, in tale evenienza, la liquidazione degli onorari debba essere fatta previa somma del valore delle domande proposte dai diversi attori nell’unico processo, atteso che il cumulo di domanda stabilito agli effetti della competenza per valore dall’art. 10, secondo comma, cod. proc. civ. riguarda solo le domande proposte tra le stesse parti, mentre non si riferisce all’ipotesi di domande avanzate nei confronti dello stesso soggetto da diverse parti processuali, in fattispecie di litisconsorzio facoltativo disciplinato dall’art. 103 cod. proc. civ. (Cass., Sez. III, 12 ottobre 1998, n. 10081).

Ne consegue che il provvedimento impugnato è esente da censure nella individuazione del valore del giudizio prescelto ai fini di stabilire lo scaglione di tariffa da applicabile.

4. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta, il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, liquidate in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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