Cass. civ., sez. Unite 23-12-2005, n. 28507 CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI – PROCESSO EQUO – TERMINE RAGIONEVOLE – Durata irragionevole del processo – Equa riparazione – Procedimento dinanzi al TAR

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 17 aprile 2002 c.c.S. conveniva in giudizio dinanzi alla Corte d’appello di Genova la Presidenza del Consiglio dei Ministri per sentirla condannare al pagamento di una somma a titolo di equo indennizzo dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la non ragionevole durata di cinque giudizi da lui promossi dinanzi al TAR per la Toscana, rispettivamente il 6 giugno 1990, il 9 novembre 1993, il 28 novembre 1997, il 16 febbraio 1998 e il 6 marzo 1998, tuttora in attesa di fissazione dell’udienza di discussione.

Con decreto del 18 giugno-17 luglio 2002 la corte adita rigettava la domanda osservando preliminarmente che il ricorrente non aveva titolo per far valere eventuali danni riferibili a ritardi maturati prima del 18 aprile 2001, data di entrata in vigore della l. n. 89 del 2001. Quindi, passando a esaminare i vari processi pendenti, affermava che per il primo di essi, promosso dalla sig.ra M.T.S., madre del ricorrente che in qualità di erede aveva provveduto alla riassunzione, la domanda non poteva trovare accoglimento poiché la riassunzione era avvenuta solo il 4 settembre 2001, e non era trascorso neppure un anno dal momento in cui era divenuto parte processuale; che per il secondo e il terzo la domanda era priva di fondamento essendo decorsi solo tre anni dalla presentazione dell’istanza di prelievo; che parimenti infondata doveva ritenersi la domanda per il quarto e il quinto processo per i quali l’istanza di prelievo non era stata neppure presentata.

Contro la sentenza ricorre per cassazione con due motivi c.c.S.

Non ha presentato difese la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Con ordinanza del 9 marzo-26 giugno 2002 è stata disposta la rimessione degli atti al Primo Presidente che ha provveduto all’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite per la risoluzione della questione di particolare importanza relativa all’individuazione del momento in cui sorge il diritto alla durata ragionevole del processo nonché del contrasto di giurisprudenza relativo all’accertamento del momento iniziale ai fini del computo del termine di durata del processo amministrativo.

Motivi della decisione

Con il primo motivo viene denunciata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, n. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo ratificata con la l. 848/1955, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. e si contesta l’affermazione secondo cui solo dalla data di entrata in vigore della l. 89/2001 sarebbe sorto il diritto all’equa riparazione, prima non esistente nel vigente sistema positivo, con la conseguente esclusione della legittimazione degli eredi alla proposizione della domanda di equo indennizzo per l’eccessiva durata di un processo instaurato dal loro dante causa prima di tale data.

La questione è stata sinora decisa in senso negativo dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha considerato che la l. 89/2001 contempla senza limitazioni temporali le violazioni del canone di ragionevole durata del processo verificatesi dopo la ratifica della Convenzione dei diritti dell’uomo, ma che, in assenza di una espressa previsione di retroattività della norma interna costitutiva del diritto all’equo indennizzo, resta esclusa la nascita di tale diritto in capo a un soggetto deceduto prima della sua entrata in vigore e, conseguentemente, la sua trasmissibilità agli eredi (Cassazione 17650/2002; 360/2003); e ciò anche se la parte, poi deceduta, avesse già proposto ricorso alla Corte di Strasburgo in quanto la fattispecie riparatoria prevista dalla normativa comunitaria non costituiva un diritto azionabile dinanzi a un giudice diverso da quello europeo. Tali considerazioni trovavano un ulteriore elemento di conferma nel rilievo che la norma transitoria dell’art. 6 della l. 89/2001 aveva natura di norma sostanziale e non processuale e non prevedeva alcun traslatio iudicii ma consentiva unicamente una circoscritta e limitata applicazione retroattiva del nuovo istituto dell’equa riparazione con riferimento ai soli giudizi per i quali si fosse già avuto il tempestivo deposito del ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo e non fosse ancora intervenuta una dichiarazione di ricevibilità del ricorso stesso (Cassazione 5264/2003).

Ciò premesso, merita accoglimento l’invito a riconsiderare la fondatezza di tale orientamento interpretativo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, sulla base dell’evoluzione della giurisprudenza delle Sezioni unite le quali, con le sentenze in data 1339/2004, 1340 e 1341 hanno identificato il fatto costitutivo prefigurato dall’art. 2 della l. 89/2001 proprio nel mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, e hanno negato, conseguentemente, che la fattispecie prevista dalla norma interna assumesse connotati diversi da quelli stabiliti dalla Convenzione, rispetto alla quale essa andrebbe considerata non già costitutiva del diritto all’equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare una tutela pronta ed efficace alla vittima della violazione del canone di ragionevole durata del processo in attuazione del disposto dell’art. 13 della Convenzione il quale stabilisce il diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale il cui esperimento preventivo opera, a norma dell’art. 35, come condizione di procedibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo che, ai sensi dell’art. 34, era proponibile in via immediata e diretta prima dell’introduzione del ricorso negli ordinamenti nazionali.

Va ricordato al riguardo che l’art. 1 della Convenzione stabilisce che «le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo primo della Convenzione», tra i quali è compreso il diritto ad un processo equo e di durata ragionevole (art. 6), che dev’essere tutelato attraverso il ricorso a un’istanza nazionale (art. 13), la cui introduzione nell’ordinamento vigente è avvenuta tardivamente, solo a seguito del moltiplicarsi delle condanne nei confronti dello stato in sede comunitaria per il pregiudizio derivante dalla non ragionevole durata dei processi.

La l. 848/1955, provvedendo a ratificare e rendere esecutiva la Convenzione, ha introdotto nell’ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici, previsti dal titolo primo della Convenzione e in gran parte coincidenti con quelli gia indicati nell’art. 2 Cost., rispetto al quale il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa (Corte costituzionale, 388/1999).

La natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale è stata già del resto riconosciuta esplicitamente dalla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato l’avvenuta abrogazione dell’art. 34, comma 2, del r.d.l. 511/1946, nella parte in cui escludeva la pubblicità della discussione della causa nel giudizio disciplinare a carico di magistrati per contrasto con la regola della pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6 della Convenzione che pone precisi limiti alla discussione della causa a porte chiuse (Sezioni unite 7662/1991); parimenti ha riconosciuto il carattere di diritto soggettivo fondamentale, insopprimibile anche dal legislatore ordinario, al diritto all’imparzialità del giudice nell’amministrazione della giustizia, con richiamo all’art. 6 della Convenzione (Cassazione 4297/2002), e, infine, ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cassazione 10542/2002).

Deve essere quindi superato l’orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione dev’essere ravvisata nella sola normativa nazionale (Cassazione 11046/2002; 11987/2002; 16502/2002; 5664/2003; 13211/2003) e ribadito il principio che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno.

Né appare meritevole di consenso la distinzione adombrata in sede di discussine orale, tra diritto ad un processo di ragionevole durata, introdotto dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (o addirittura ad essa preesistente come valore costituzionalmente protetto), e diritto all’equa riparazione, che sarebbe stato introdotto solo con la l. 89/2001, in quanto la tutela assicurata dal giudice nazionale non si discosta da quella precedentemente offerta dalla Corte di Strasburgo, alla cui giurisprudenza è tenuto a conformarsi il giudice nazionale (Sezioni unite 1340/2004).

Da ciò consegue che il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo verificatosi prima dell’entrata in vigore della l. 99/2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta la non ragionevole durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si sia pronunciata sulla sua ricevibilità.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso non preclude l’esame del secondo motivo, avente natura autonoma, con il quale si lamenta il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia con riferimento all’affermazione, posta a fondamento della statuizione di rigetto della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata dei processi pendenti dinanzi al giudice amministrativo, secondo cui la mancata o tardiva presentazione dell’istanza di prelievo escluderebbe la permanenza di un interesse alla decisione in capo al ricorrente, non essendo dato riscontare l’esistenza di una presunzione generale in tal senso.

Va premesso al riguardo che nel sistema vigente prima dell’entrata in vigore della l. 205/2000 – al quale deve farsi riferimento per i giudizi dei quali si lamenta nella specie la non ragionevole durata – il processo amministrativo richiede, dopo il deposito del ricorso, un solo necessario, infungibile impulso di parte costituito dalla presentazione nei due anni dal deposito del ricorso (o dall’ultimo atto della procedura quando venga ordinata un’attività istruttoria o la causa sia stata cancellata dal ruolo) di un’apposita istanza di fissazione, in mancanza della quale la causa si estingue per perenzione; una volta presentata tale istanza, infatti, il processo è dominato dal potere di iniziativa del giudice e non costituisce, perciò, adempimento necessario l’istanza di prelievo del ricorso dal ruolo, prevista dall’art. 51, comma 2, r.d. 642/1907, che ha il solo fine di fare dichiarare il ricorso urgente onde ottenerne la trattazione anticipata sovvertendo l’ordine cronologico di iscrizione delle domande di fissazione dell’udienza di discussione.

Orbene, con riferimento al problema dell’individuazione del momento iniziale dal quale decorre la durata del procedimento amministrativo instaurato prima dell’entrata in vigore della l. 205/2000 la giurisprudenza prevalente afferma che esso coincide con quello della presentazione dell’istanza di prelievo, ritenendo sufficiente a tal fine l’onere posto a carico del ricorrente di avvalersene per trarre il ricorso da una condizione di quiescenza e ottenerne l’effettiva trattazione, in considerazione del fatto che l’art. 2, comma 2, della l. 89/2001 esclude l’addebitabilità all’Amministrazione dei tempi imputabili alla negligente condotta della parte che non si sia avvalsa dello strumento acceleratorio posto a sua disposizione, sicché solo dal momento della presentazione di tale istanza il decorso del tempo potrebbe considerarsi parametro esclusivo di valutazione del comportamento del giudice adito al fine di valutare la ragionevolezza della durata del processo (Cassazione 15445/2002; 15992/2002; 6180/2003; 22503/2004).

A tale interpretazione si contrappone un orientamento minoritario secondo cui la mancata presentazione dell’istanza di prelievo non può influire sul calcolo dei termini del processo, ma potrebbe incidere unicamente sulla determinazione dell’entità dell’equa riparazione spettante con riferimento al dettato dell’art. 2056 c.c. richiamato nell’art. 2 della l. 89/2001, che a sua volta richiama l’art. 1227, il quale al secondo comma esclude il risarcimento dei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitate usando l’ordinaria diligenza, col risultato che la durata irragionevole del processo, ancorché accertata, non potrebbe porsi esclusivamente a carico dello Stato (Cassazione 3347/2003).

Va segnalato che successivamente alla ordinanza di rimessione degli atti al Primo Presidente, è intervenuta una nuova pronuncia (Cassazione 23187/2004) con la quale, in adesione all’orientamento ripetutamente espresso dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha già proceduto alla revisione dell’interpretazione sinora prevalente affermando che la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo va riscontrata, anche per le cause proposte davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo di tempo decorso dall’instaurazione del procedimento, senza che su di esso possa incidere la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo.

Tale interpretazione, che ha incontrato il consenso delle decisioni che si sono succedute sulla questione in esame (Cassazione 18759/2005; 19801/2005), merita ulteriore conferma in considerazione del fatto – evidenziato nella motivazione della citata pronuncia – che la presenza di strumenti sollecitatori non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio.

In conclusione il ricorso merita accoglimento e conseguentemente il decreto impugnato dev’essere cassato con rinvio della causa ad altro giudice il quale si conformerà ai principi di diritto innanzi enunciati.

Al giudice di rinvio viene rimessa altresì la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a Sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di appello di Genova, cui rimette altresì la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

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