Corte Suprema di Cassazione – Civile Sezione I Sentenza n. 21086 del 2005 deposito del 28 ottobre 2005 DANNI IN MATERIA CIV. E PEN. MARCHI Brevetto per marchio d’impresa Contraffazione ed usurpazione del marchio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione notificata in data 8 gennaio 1999, la C. s.r.l. (poi s.p.a), chiamò in giudizio davanti al Tribunale di Milano la B. S. s.p.a., e, premesso d’essere attiva nel settore dell’oreficeria dal 1963 sotto il marchio C. – depositato negli Stati Uniti nel 1963 e in Italia nel 1994 (registrato il 21 febbraio 1997) – e di essere tra le prime aziende orafe nazionali, lamentò l’uso intensissimo da parte della convenuta nella pubblicità, sulla stampa e nella televisione nazionale del marchio "B. 121" per contraddistinguere servizi di vario genere, fra i quali quelli monetari e di vendita d’orologi e preziosi vari.

Tale situazione era fonte di disorientamento e confusione nella clientela, portata a pensare che prodotti e servici provenissero dalla stessa impresa, o da imprese economicamente collegate.

L’attrice chiese che fosse dichiarata la nullità del marchio ?B. 121", perchè anticipato dal proprio segno "C.", con le conseguenti inibitorie, e che fosse accertato che l’uso del marchio della convenuta costituiva concorrenza sleale, con condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio e pubblicazione della sentenza.

La convenuta, costituendosi, si difese sostenendo che il proprio marchio riguardava un servizio telematico caratterizzato dall’utilizzazione di tecnologie multimediali innovative, finalizzate a moltiplicare le opportunità e i canali di contatto tra cliente, banca e mercati finanziari, e ad assicurare, attraverso la moderna logica di relazione "one to one", un completo servizio in materia finanziaria, e non in materia di gioielli, eccepiva la mancanza di notorietà del marchio "121" per contraddistinguere i gioielli e l’impossibilità di consentire una tutela ultramerceologica, rilevava che non poteva esservi affinità tra prodotti e servizi contrassegnati dai due segni, non essendovi rapporto tra servizi finanziari ed assicurativi da un lato, e gioielli dall’altro, per loro natura destinati a clientela diversa e ad un differente contesto di commercializzazione. La convenuta chiese, oltre al rigetto delle domande avversarie, la condanna dell’attrice per responsabilità processuale aggravata.

Essendo risultata soccombente in primo grado, l’attrice propose appello contro la sentenza in data 26 ottobre 2000 del Tribunale di Milano, chiedendo che fosse dichiarato illegittimo e lesivo dei suoi diritti l’uso da parte della convenuta del marchio e della denominazione "B. 121", l’inibizione di tale uso e la condanna dell’appellata al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio. L’appellata B. 121 (già B. S. s.p.a.) propose appello incidentale sul punto della responsabilità processuale aggravata della controparte (disconosciuta dal Tribunale).

La Corte d’appello di Milano, con sentenza 24 maggio 2002, respinse entrambi gli appelli, e condannò l’appellante principale al pagamento delle spese del grado. Premesso che, nonostante il riferimento all’art. 2598 nn. 2 e 3, c.c., l’appellante aveva denunciato la confondibilità fra ditte, denominazioni e attività delle due imprese, per assicurare a ciascun imprenditore la distinzione tra la sua attività e quella d’altri imprenditori, senza pericoli di confusione neppure sotto il profilo del rischio d’associazione tra i due segni, la corte territoriale considerò che è notorio, oltre che documentato in causa, il fatto che l’attività degli istituti di credito non si limiti più al maneggio di denaro o di titoli, ma si estenda ad ulteriori servizi di vario genere. Tra l’attività bancaria e il commercio orafo può pertanto sussistere, secondo la corte ambrosiana, un’analogia che comporta non solo affinità, ma parziale identità dal punto di vieta della materialità esteriore delle operazioni. Tuttavia le operazioni bancarie ed 1 servizi ad esse attinenti, compresa la vendita di preziosi, differiscono dall’attività orafa perchè ineriscono ad un’attività finanziaria volta in via precipua e primaria a soddisfare esigenze della clientela e del mercato di movimentazione e d’investimento di liquidità, sussiste pertanto una differenza ontologica tra prodotti e servizi dell’attività orafa e quelli dell’attività bancaria, tale da escludere il rischio d’associazione e il pericolo di confusione tra servizi diversi e tra eventuali segni simili che li contraddistinguono.

Con riferimento, poi, ai due marchi esaminati, la corte osservò che quello registrato della società orafa contraddistingue prodotti e servizi inerenti all’attività orafa monoproduttiva dell’appellante, e consiste nelle cifre componenti il numero 121 disegnate in una grafica stilizzata e inserite in una grafica stilizzata ovaleggiante che le racchiude in esso, à poi normalmente affiancato alla scritta in lettere "C." in corsivo. Esso, prosegue la corte territoriale, contrassegna gioielli raffinati, diffusi sul mercato, pubblicizzati nel mondo della moda attraverso riviste conosciute e modelle affermate, e quindi ha un certo grado di notorietà, ma non è un marchio celebre o di rinomanza, nè la notorietà tale da fargli godere di una tutela merceologica allargata. Esso è anzi un marchio debole, siccome formato da numeri, con la conseguenza che basta un’Imitazione non molto prossima per escludere il rischio di confusione.

Il marchio – successivo – della banca consiste nelle cifre componenti il numero 121, la cui grafica non presenta originalità, e alle quali è anteposta la scritta "banca", in normale carattere stampato minuscolo. Questo secondo marchio contraddistingue il suo servizio telematico improntato all’immediatezza della relazione tra banca e cliente nell’ambito di una logica, automatizzata ed a tempo pieno, di dialogo diretto anche da casa propria e personalizzato tra specialisti finanziari e clientela. Nella comunicazione telematica, l’uso di simboli, abbreviazioni, sigle, acrostici, costituiti non sempre solo da lettere, è divenuta corrente, e il marchio accusato n’è appunto un esempio, avendo un significato ideologico, perchè il numero, letto in lingua inglese (che è quella del linguaggio telematico) richiama la comunicazione "one to one", che caratterizza i servizi offerti dalla banca e contrassegnati con tale marchio.

La corte territoriale escluse peraltro la responsabilità processuale aggravata, non emergendo dagli atti la consapevolezza da parte della società attrice dell’infondatezza della propria domanda o un’anormale negligenza nell’affrontare la lite; e respinse la domanda di cancellazione di frasi offensive, perchè la frase contenuta nella conclusionale della C. s.p.a. – che riportava la notizia, desunta da un quotidiano, di una condanna dell’avversaria per interessi usurari, fatto non contestato come tale dalla controparte – non era dettata da intenti offensivi, ma meramente difensivi, collegati dalla parte all’esigenza di non essere associata a quei fatti.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 5 settembre 2002, ricorre la C. s.p.a. con atto notificato il 11 novembre 2002, articolato in quattro motivi.

La B. 121 s.p.a. resiste con controricorso e ricorso incidentale con due mezzi, notificato il 19 dicembre 2002 ed illustrato anche con una memoria.

La società C. s.p.a. ha notificato controricorso al ricorso incidentale in data 7 gennaio 2003.

Motivi della decisione

I due ricorsi, proposti contro la medesima sentenza, devono essere riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

1. Con il primo motivo del ricorso principale si denunciano vizi di motivazione su un punto decisivo. Si censura il ragionamento della corte territoriale, per cui due attività possono essere parzialmente identiche tra loro eppure presentare una differenza ontologica; e per cui le operazioni e i servizi bancari, compresa la vendita di preziosi, mirerebbero a soddisfare esigenzedella clientela e del mercato di movimentazione e d’investimento di liquidità. Si deduce che nel giudizio di confondibilita l’affinità tra prodotti similmente marcati ricorre allorquando per le caratteristiche in-trinseche di ognuno sussista l’attitudine a soddisfare la medesima esigenza Cass. 9/2/2000 n. 1424; gli oggetti preziosi acquistati in banca, si osserva, non hanno destinazione diversa da quelli acquistati dall’orologiaio o dal gioielliere, giacchè in entrambi i casi possono essere utilizzati praticamente oppure tesaurizzati, essendo in ogni caso il concetto di bene d’investimento legato all’oro.

Il vizio di motivazione così denunciato, qualora sussistente, non verterebbe su un punto decisivo. La corte territoriale – che nella sua premessa al ragionamento qui specificamente censurato mostra di occuparsi del profilo della concorrenza illecita ex 2598 n. 1, e non del diritto al marchio come bene immateriale – non ha concretamente accertato che la concorrente avesse venduto oro e preziosi (nel qual caso vi sarebbe contraddizione tra affermazione della – parziale – identità e poi della differenza ontologica, con riferimento proprio all’attività comune), ma, premesse delle astratte considerazioni sul rapporto tra il settore dell’oreficeria e quello dei servizi finanziari, ha valorizzato la distinzione tra il monoprodotto della ricorrente e la varietà dei servizi finanziari della banca, per escludere il rischio della confusione. E tale giudizio – indipendentemente dall’esattezza delle premesse generali dalle quali muove – e certamente immune da vizi logici e giuridici. B’ anzi doveroso aggiungere che, qualora la corte territoriale avesse inteso affermare che le banche possono svolgere attività diretta di fabbricazione e commercio di preziosi, e non, semplicemente, servili finanziari collegati o strumentali a tali attività, sarebbe stata quest’affermazione meritevole di riesame alla luce del disposto dell’art. 10, comma terzo d.lgs. 30 settembre 1993 n. 230 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), per cui – salve le riserve previste da norme di legge – le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonchè attività connesse o strumentali. In altre parole, e per quel che può qui rilevare (essendo la valutazione di parziale coincidenza dell’attività, nell’impugnata sentenza, un giudizio astratto ed ininfluente sulla conclusione, che si è tradotta in un giudizio concreto di non identità delle attività), la premessa dalla quale la corte territoriale ha preso le mosse deve essere intesa nel senso della possibile coincidenza dell’oggetto – meramente mediato – delle attività bancaria e dell’attività di oreficeria, e non delle attività medesime, solo entro tali limiti essendo quella premessa condivisibile sul piano giuridico.

2. Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione degli artt. 16 r.d. 21 giugno 1942 n. 929, e 2598 n. 1 co.. Si sostiene che il giudizio di confondibilità fra due marchi va condotto innanzi tutto sul piano fonetico, nonchè del principio che l’accostamento di termini generici non vale ad escludere la contraffazione, e si contesta che il marchio numerico sia un marchio debole. A quest’ultimo riguardo si sostiene che, pur dotato di un significato, 11 marchio "C." ha un significato del tutto astratto, come sono, per definizione, i numeri. Infine, la premessa che nel linguaggio in uso nella comunicazione telematica, ispirato all’esigenza di sfruttare al massimo lo spazio ristretto del display, induce ad usare nella scrittura segni equivalenti solo fonicamente ma graficamente privi di significato pertinente, doveva indurre a riconoscere capitalo importanza all’identità fonetica dei segni.

Il mezzo identifica una violazione della privativa, spettante al titolare di un marchio costituito dal numero "C." scritto in lettere, che dovrebbe ravvisarsi nell’uso del posteriore marchio "B. 121", dove il numero è scritto in cifre, sotto il duplice profilo, che nel giudizio di confondibilità dovrebbe attribuirsi valore preminente all’aspetto fonetico dei due marchi, e dovrebbe negarsi valore distintivo all’incorporazione di un termine generico quale "banca".

Il motivo è infondato. Si premette che il numero "121" appartiene al patrimonio culturale comune esso può acquistare valore distintivo di merci o servizi prodotti dall’imprenditore, a norma dell’art. 16 L. 21 giugno 1942 n. 929, nel testo vigente, sulla base di una nuova convenzione che produca un collegamento artificiale, ciò che suppone un contesto particolare, non potendosi ammettere l’esclusiva sul numero in quanto tale. Pertanto, il termine generico "banca", aggiunto al numero, può essere sufficiente a distinguere il segno dal marchio puramente numerico, se esso valga ad evocare prodotti diversi da quelli contrassegnati dal marchio stesso.

Decisivo, però, è il rilievo che il giudizio di confondibilità deve essere sintetico. A questo proposito il mezzo d’impugnazione mostra di non cogliere in tutta la sua portata il ragionamento svolto nell’impugnata sentenza. In essa l’elemento fonetico, in particolare, è considerato in relazione ai servizi finanziari contrassegnati dal segno distintivo, osservandosi al riguardo – che si tratta di servizi finanziari offerti attraverso il canale di strumenti telematici; – che nel mondo della telematica è di uso comune la lingua inglese; – che è in atto una crescente tendenza, proprio nell’uso di strumenti telematici, ad usare (a fini di semplificazione ed abbreviazione discrittura) non solo lettere, bensì simboli "ideologici" (vale a dire, ideogrammi, o meglio logogrammi) i quali, sebbene non siano, diversamente dai segni alfabetici, una scrittura propriamente fonetica, sono letti facilmente come le parole che evocano; e che, infine, nella fattispecie l’elemento "121" del marchio accusato può esser letto, in inglese, "one to one", invece che "one two one", avendo le parole two (numero) e to (preposizione) la medesima pronuncia (ciò che in tale prassi consentirebbe, appunto, di significare le due parole con il medesimo simbolo numerico), con riferimento al carattere specifico (rapporto diretto) cliente – operatore) del servizio offerto. Come è evidente, nella sentenza impugnata il criterio fonetico non è ignorato, e tanto meno respinto, ma L. utilizzato in modo peculiare, nel contesto di un’analisi puntuale della capacità distintiva del segno e delle sue associazioni possibili ai servizi contrassegnati. Le norme invocate, dunque, sono state applicate in modo conforme al criterio costantemente indicato dalla giurisprudenza di questa corte, per la quale l’apprezzamento sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve esser compiuto dal giudice di merito – le cui valutazioni si sottraggono al controllo di legittimità se congruamente e correttamente motivate – non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo, ciò, all’insieme degli elementi salienti (tra le più recenti, Cass. 4 dicembre 1999 n. 13592). Occorre solo precisare che, se più spesso tali elementi sono indicati come (grafici, visivi e, per quel che qui rileva) fonetici, con tale termine devono intendersi più genericamente richiamati tutti gli effetti acustici (cioè auditivi, tonici) delle espressioni usate, in relazione al normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto e destinato(Cass. 13 aprile 1989 n. 1779).

3. Con il terzo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione dell’art. 1 lett. B r.d. 21 giugno 1942 n. 929, sotto il profilo dell’omesso esame del rischio di associazione fra i segni. La corte territoriale aveva escluso la confondibilità dei segni occupandosi degli oggetti contrassegnati, ma ha omesso di accertare se la confondibilità potesse nascere dall’associazione, che non è concetto alternativo a quello di confusione, ma un aspetto di esso.

S’insiste sull’importanza, nell’attuale fase economica caratterizzata dallo sviluppo della pubblicità, imperniata spesso più sul produttore che sul contrassegno del prodotto, della confusione fra produttori, che comporta il rischio per un’impresa di essere omologata all’altra impresa come appartenente, almeno, allo stessogruppo. In questo contesto, la perdita di reputazione della B. 121 sulla stampa periodica, allegata nel corso del giudizio, si ripercuoterebbe sull’odierna ricorrente, così come gli stessi pregi dimostrati dalla concorrente impresa bancaria con la sua dinamicità sul mercato offuscherebbero la fama di raffinatezza artigianale della ricorrente. il motivo e infondato. è sufficiente in proposito ricordare che l’art. 5, n. 1 lett. b, della prima direttiva europea 89/104 sui marchi, il cui testo è ricalcato dalla norma interna, invocata, non consente di presumere (neppure nel cavo di notorietà del marchio protetto, e a fortiori in assenza di notorietà) l’esistenza di un rischio di confusione per il solo fatto dell’esistenza di un rischio di associazione in senso stretto, essendo necessario l’accertamento positivo dell’esistenza di un rischio di confusione, il quale costituisce l’oggetto della prova da produrre (Corte Giust. CE, sent. 22 giugno 2000 n. 425 in causa C-425/98, Marca Mode e. Adidas AO e Adidas Benelux BV). Tale prova positiva della confusione effettivamente prodottasi non è stata data dalla ricorrente nel giudizio di merito, nè è allegata con il messo di ricorso in esame.

4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 17 n. 1 b) h) r.d. 21 giugno 1942 n. 929, sotto il profilo della valutazione dei requisiti della notorietà del marchio. La corte di merito, si sostiene, ha adottato un metro di notorietà urbi et orbi, laddove il criterio esatto è quello per cui i sufficiente che il marchio sia conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi da esso contraddistinti, dovendo la direttiva 89/104 del consiglio interpretarsi nel senso che il marchio non ha bisogno dello stesso grado di notorietà di un marchio notoriamente conosciuto ai sensi della Convenzione di Parigi.

Anche quest’ultimo motivo del ricorso principale è infondato. La normativa comunitaria invocata dalla ricorrente non giustifica, infatti, la censura formulata in ordine al giudizio di difetto del requisito di notorietà del marchio protetto per cui è causa. Vero è che, per essere notorio, il marchio registrato deve essere conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti. Si è ritenuto, però, che nell’esaminare questo requisito, il giudice deve prendere in considerazione tutti gli elementi rilevanti della causa, cioè, in particolare, la quota di marcato coperta dal marchio, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonchè l’entità degli investimenti realizzati per promuoverlo; e che, a livelloterritoriale, il requisito & soddisfatto qualora la notorietà esista in una parte sostanziale del territorio di uno Stato membro (Corte giust. Sent. 14 settembre 1999 n. 375 in causa C-375/97, GMC c. Yplon). Di tali elementi, nessuno risulta dalla sentenza impugnata essere stato prodotto dall’odierna ricorrente nel giudizio di merito, nè in questa sede si allega che ciò sarebbe avvenuto.

5. Nel ricorso incidentale si censura il rigetto della domanda di cancellazione della frase con la quale l’appellante esprimeva il timore di ricevere pregiudizio per il fatto di essere associata ad una banca condannata per truffa e per interessi usurari. Si deduce che l’abuso vietato dall’art. 89 c.p.c. è costituito dall’assoluta gratuità dell’offesa arrecata, gratuita riscontrabile per il fatto che il riferimento diffamatorio non e minimamente riconducibile alla tesi difensiva sviluppata in causa. Si aggiunge che la correlazione tra le due imprese suggerita dall’uso del marchio B. 121 non poteva deteriorare l’immagine dell’impresa orafa, coinvolgendola in pretesi loschi affari del gruppo bancario.

La doglianza e infondata. Le espressioni denunciate come ingiuriose sono state adoperate a sostegno della tesi del rischio di confusione per associazione, e non possono essere censurate in base al mero fatto che la tesi medesima è stata respinta nel giudizio.

Con distinto motivo, nel ricorso incidentale si censura l’omesso accertamento della responsabilità processuale aggravata della controparte. La motivazione addotta dalla corte territoriale sarebbe insufficiente, non essendo credibile che la società C. s.p.a. abbia sostenuto la sua pretesa perchè convinta in buona fede di essere danneggiata dalla concorrenza della banca, e nella sua immagine per l’associazione al gruppo bancario. La controparte aveva invece perseguito un intento ricattatorio e in naia fede, tentando di ottenere un provvedimento inibitorio per poi negoziarlo con la banca.

Neppure questo mezzo può trovare ingresso. La valutazione sulla credibilità della buona fede processuale della parte costituisce oggetto di un giudizio di merito, non suscettibile di riesame in questa sede. Il giudice di merito non ha omesso di pronunciarsi sulla domanda in questione, ma, sulla base della predetta valutazione, ha escluso la responsabilità processuale aggravata della società appellante.

6. In conclusione, i due ricorsi riuniti devono essere respinti. Le spese del giudizio di legittimità se-guono la soccombenza prevalente della ricorrente principale, e sono liquidati come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna la ricorrente principale C. s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi e 3.100,00, di cui e 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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