Cass. civ., sez. Lavoro 06-12-2005, n. 26670 LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – DISCIPLINARE – Intervallo temporale fra l’intimazione ed il fatto contestato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16/12/2002 il Tribunale di Ancona, decidendo sull’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. nei confronti di M. Nicola, avverso sentenza del giudice del lavoro della medesima città, rigettava l’appello, confermando raccoglimento della impugnazione del licenziamento disciplinare. In motivazione, a differenza del primo giudice – che aveva accolto la domanda del M. perchè nessun accertamento della violazione a lui ascritta era intervenuto e che l’atto risolutivo era fondato esclusivamente sulla sentenza di patteggiamento, che non implicava l’accertamento dei fatti oggetto dell’imputazione -, decideva la causa sulla preliminare questione della intempestività dell’azione disciplinare.

Osservava al riguardo che la richiesta di rinvio a giudizio, emessa sulla base degli atti di indagine ai quali rimanda la sentenza di patteggiamento ed ai quali aveva accesso la Poste s.p.a., era stata emessa e comunicata alle poste nell’ottobre – novembre del 1995, sicchè a quel periodo doveva farsi risalire la conoscenza completa dei fatti contestati. In relazione a tale data di conoscenza dell’illecito, la contestazione disciplinare avvenuta l’11 gennaio 1997 appariva tardiva.

Osservava ancora che, se la contestazione doveva ritenersi riferita a diverso capo dell’art. 34 del contratto collettivo che fa riferimento a condanna passata in giudicato, interpretato nel senso che le parti collettive hanno voluto estendere l’efficacia del patteggiamento al rapporto di lavoro, tale previsione disciplinare di natura pattizia richiederebbe per la sua efficacia l’affissione del codice disciplinare, non provata dalla Poste.

Propone ricorso per Cassazione affidato a due motivi la Poste Italiane s.p.a, resiste con controricorso il M..

Motivi della decisione

Con il primo motivo denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 1362 c.c. e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3, 5) la ricorrente contesta l’intempestività dall’azione disciplinare sul duplice rilievo che è concesso al datore di lavoro di attendere l’esito dell’accertamento definitivo in sede penale e che la disciplina contrattuale, anche se in altro articolo, al prevede espressamente il giudicato come requisito per l’irrogazione della sanzione espulsiva. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dei canoni legali di interpretazione dei contratti, censura la ritenuta necessità di affissione del codice disciplinare nell’ipotesi che si ritenga il licenziamento fondato su sentenza passata in giudicato.

La censure sono infondate.

Va premesso che il Tribunale non ha condiviso l’interpretazione della contestazione disciplinare fatta dal giudice di primo grado e che cioè essa si fondasse sulla sentenza ex art. 444 c.p.p., ma ha espressamente ritenuto che essa si basasse sull’autonomo accertamento dei fatti, che costituiscono il presupposto per l’applicazione della pena patteggiata, ritenendo che l’accertamento di essi risalga alla data della richiesta di rinvio a giudizio e la coeva conoscenza da parte del datore di lavoro danneggiato dal reato degli accertamenti che la motivavano. Va, inoltre rilevato che la sentenza ha ritenuto che l’altra clausola negoziale prevista dall’art. 34 c.p.c., che richiede il passaggio in giudicato della condanna si riferisca a una ipotesi differente dal caso in esame e l’argomentazione che segue in ordine alla nullità del procedimento disciplinare per omessa affissione del codice disciplinare, come si evince dall’uso del condizionale, la misura irrogata si scontrerebbe con l’eccepita marnata pubblicità, deve ritenersi che abbia natura ipotetica di argomentazione ad abundantiam e, conseguentemente, l’irrilevanza delle argomentazioni svolte con il secondo motivo.

L’interpretazione che l’art. 34 c.p.c. del contratto collettivo, che regola il rapporto, preveda distinte ipotesi di licenziamento disciplinare, fatta dal Tribunale, appare immune da vizi logici e giuridici riferendosi il comma che richiede la sentenza passata in giudicato ad un amplissima previsione di fattispecie per le quali le parti collettive hanno ritenuto che solo l’accertamento penale dei fatti e della loro gravità sotto i profili soggettivo ed oggettivo possa stabilire se essi non consentano la prosecuzione del rapporto.

Il comma invece, al quale rinvia la contestazione disciplinare, riguarda una ipotesi specifica di lampante gravità dell’avere ottenuto l’assunzione con documenti falsi, invalidi o con mezzi fraudolenti ed appare immune da vizi logici l’interpretazione del giudice di merito che per essa non sia, secondo la regola generale, necessario attendere l’esito del giudizio penale.

La tesi poi che il datore di lavoro, venuto a conoscenza dell’illecito disciplinare, possa attendere l’esito del giudizio penale, senza porre in essere comportamenti che escludano al sua acquiescenza, è contraria alla giurisprudenza di legittimità che ha affermato:

Non è ravvisarle una giusta causa di licenziamento ove la contestazione degli addebiti avvenga a distanza di anni dall’accertamento, in seguito ad indagine ispettiva interna all’impresa, dei fatti denunciati poi all’autorità giudiziaria, non essendo necessario attendere la conclusione del procedimento penale è primo grado, soprattutto quando il datore di lavoro, come nella specie, si sia astenuto dall’adottare misure cautelari. (Cass. n. 15383 del 2004) ed anche che: Ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, l’intervallo temporale fra l’intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo solo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, l’incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacchè tali misure – specialmente se l’adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto – dimostrano la permanente volontà del datore di lavoro di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento (Cass. n. 6127 del 1999).

Si deve concludere che è incensurabile la valutazione del Tribunale della tardività dell’esercizio dell’azione disciplinare in mancanza di ogni comportamento che escludesse l’acquiescenza.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna alle spese della soccombente. Esse si liquidano nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese liquidate in E. 26,00 degli onorari in E. 2000,00, oltre spese generali ed oneri di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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