Cassazione Civile Sezioni Unite Ordinanza interlocutoria del 06/12/2010 n. 24689 Avvocati, part-time, dipendenti pubblici (2011-05-09)

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

RITENUTO IN FATTO

I dodici ricorrenti in epigrafe indicati, pubblici dipendenti a tempo parziale, venivano iscritti nell’albo degli avvocati in virtù della disposizione di cui alla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 56, che consentiva tale doppia attività.

A seguito dell’entrata in vigore della L. 25 novembre 2003, n. 339, di modifica della precedente, i ricorrenti manifestavano la loro intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di avvocato. I vari C.O.A. interessati, ritenendo la sussistenza della incompatibilità, ordinavano la cancellazione dei ricorrenti dai rispettivi albi con decisioni che venivano impugnate davanti al Consiglio nazionale forense il quale rigettava tutti i ricorsi. Avverso le separate pronunce del CNF i soccombenti proponevano singoli ricorsi per cassazione affidati a numerosi motivi. Gli intimati di ciascun ricorso (i vari COA interessati) non hanno svolto attività difensiva in sede di legittimità.

I ricorrenti Pe.. e Ta.. hanno depositato memorie. In applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c. è stata disposta la riunione di tutti i ricorsi siccome implicanti la risoluzione di identiche questioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Innanzitutto va rilevata l’infondatezza dei seguenti motivi dei vari ricorsi che rivestono carattere preliminare in quanto eventualmente assorbenti rispetto alle altre censure perché relative all’asserita nullità delle decisioni impugnate.

1) – violazione del principio di terzietà del giudice e illegittimità di composizione del CNF per essere questo composto in via esclusiva da avvocati portatori di un interesse di categoria volto alla eliminazione dal mercato di un concorrente (primo motivo dei ricorsi Pu.. e altri);

2) – violazione del R.D.L. n. 578 del 1933, art. 37 per omessa notifica al PM della delibera di avvio del procedimento di cancellazione dall’albo (primo motivo ricorso Pe.. sesto motivo ricorso Ta.., secondo motivo dei ricorsi Pu.. ed altri);

3) – violazione del R.D.L. n. 578 del 1933, art. 56 per essere stata la decisione impugnata notificata ben oltre i 30 giorni come previsto dal citato art. 56 (primo motivo ricorso Ma..);

4) – violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 37 e art. 24 Cost. oltre che della L. n. 241 del 1990 per il non rilevato errore commesso dal COA nel non concedere il rinvio per l’audizione chiesto per pregressi impegni personali non documentabili prima dello svolgimento dell’impegno stesso (secondo motivo Ma..).

Con riferimento alle dette censure va rispettivamente rilevato:

1) Il Consiglio nazionale forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della 6^ disp. Transitoria della Costituzione. Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano – per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M. – il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all’indipendenza del giudice ed all’imparzialità dei giudizi. Infatti, l’indipendenza del giudice consiste nella autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza. È, pertanto, manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 24, 97 e 111 Cost. la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto Consiglio Nazionale Forense, non potendo incidere sulla legittimità costituzionale di detta normativa neanche la circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative, in quanto, come evidenziato anche dalla Corte costituzionale, non è la mera consistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (in tali sensi, tra le altre, Corte cost., sent. N. 73 del 1970; n. 128 del 1974, n. 284 del 1986; sentenze Sezioni Unite 3/5/2005 n. 9097; 23/3/2005 n. 6213; 11/1/2005 n. 309; 22/7/2002 n. 10688; 11/2/2002 n. 1904).

2) Secondo quanto disposto dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 37 la cancellazione dagli albi degli avvocati "è pronunciata dal Consiglio dell’ordine, di ufficio e su richiesta del Pubblico Ministero" e le deliberazioni del Consiglio dell’ordine in materia di cancellazione vanno "notificate, entro quindici giorni, all’interessato ed al Pubblico Ministero presso la Corte d’appello ed il Tribunale". Nel citato art. e nella normativa speciale in questione non si rinviene alcuna espressa indicazione in ordine alla notifica al P.M. dell’avvio del procedimento di cancellazione che può essere richiesto dallo stesso P.M. ove ravvisi la sussistenza di una delle ipotesi previste dalla norma in esame. Al PM va solo notificata la deliberazione adottata a termine del procedimento di cancellazione e ciò in quanto il P.M. è munito di potere autonomo di impugnazione. 3) In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, il termine di trenta giorni previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56 per la notifica all’interessato della decisione del Consiglio nazionale forense, ha natura ordinatoria e non perentoria, e ciò in mancanza di un’espressa qualificazione nel senso della perentorietà da parte della legge, ne’ detta qualificazione essendo desumibile dallo scopo di tale termine e dalla funzione cui esso assolve, atteso che il termine in questione ha la funzione di consentire agli interessati ed al P.M. di proporre il ricorso per cassazione previsto dallo stesso art. 56, comma 3 e quindi persegue uno scopo meramente sollecitatorio dello svolgimento del processo. È pertanto da escludere che il superamento del detto termine determini la nullità della decisione notificata, comportando solo lo spostamento del termine per l’impugnazione della decisione medesima dinanzi al CNF il quale decorre dalla data di detta notificazione (nei sensi suddetti, sentenze di queste Sezioni Unite 23/12/2004 n. 23832; 11/2/2003 n. 1991; 7/12/1999 n. 869).

4) L’impedimento del professionista a comparire dinanzi al consiglio dell’ordine, nell’ambito di un procedimento disciplinare, non può ritenersi sussistente qualora sia sorretto da motivi generici con riferimento ad ostacoli non documentati, in particolare, ove l’interessato adduca un impegno di lavoro, è giustificato il rigetto della richiesta di rinvio per essere sentito posto che l’impegno lavorativo, essendo una condizione del tutto normale dell’individuo, non può assurgere a causa giustificativa della mancata comparizione. La mancata presentazione è stata quindi correttamente ritenuta ingiustificata per cui sui punto la decisione impugnata dalla \Mascellari\ non merita censura.

Le altre numerose, articolate e complesse questioni prospettate dai ricorrenti riguardano essenzialmente – sia pur sotto profili ed aspetti diversi – l’interpretazione della L. n. 339 del 2003, art. 2 e la sua conformità a norme e principi comunitari e costituzionali. In relazione all’interpretazione del citato art. nessun dubbio può sussistere che la disposizione riguarda proprio la situazione di coloro i quali, come gli attuali ricorrenti, "hanno ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della L. 23 dicembre 1906, n. 662, e risultano ancora iscritti". Nei confronti di costoro la legge prevede un periodo di transizione di tre anni entro il quale essi sono obbligati a compiere una scelta tra l’esercizio (esclusivo) della professione forense ovvero il ritorno al rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno.

Sulla base di un simile dato normativo non è sostenibile (come prospettato dai ricorrenti con vari e diversi argomenti) una linea interpretativa diversa da quella che il testo impone con una formula sufficientemente chiara e che il C.N.F. ha adottato nelle decisioni impugnate. Non può quindi compiersi quella che la Corte costituzionale ha in più occasioni definito come la cd. interpretazione adeguatrice, ossia tale da eliminare i dubbi di legittimità costituzionale senza il ricorso alla Corte e tramite la normale attività ermeneutica del giudice.

Vanno di conseguenza esaminate le questioni circa l’asserita violazione della normativa comunitaria con riferimento in particolare ai principi di eguaglianza, libera prestazione di servizi, tutela della concorrenza, diritti quesiti, ragionevolezza. Le dette questioni sono manifestamente infondate: la legge in esame (in particolare l’art. 2) è rispettosa dei principi comunitari. Va posto in evidenza che la detta legge ha inciso sul modo di svolgere il servizio presso enti pubblici e non sulle modalità di organizzazione della professione forense: da ciò l’estraneità dei principi di concorrenza tra imprese e di libera circolazione degli avvocati nell’unione Europea.

I dipendenti pubblici non svolgono servizi configuranti un’attività economica e la loro attività non può essere considerata come quella di un’impresa.

La normativa dettata dalla L. n. 339 del 2003 tende poi a regolare non la concorrenza tra gli avvocati bensì a soddisfare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti.

Il divieto in questione è altresì giustificato in considerazione dell’ottica del pubblico impiego e della garanzia che i dipendenti pubblici siano al solo servizio dell’interesse pubblico. Pertanto il legislatore non ha agito in modo irragionevole o al di fuori della sua sfera di competenza; ne consegue che la L. n. 339 del 2003 non è incompatibile con le disposizioni invocate del Trattato. Con riferimento all’art. 6 della direttiva 77/249/CEE – che consente agli Stati membri di escludere dall’esercizio in regime di libera prestazione dei servizi solo gli avvocati dipendenti provenienti da altri Stati membri, i quali pretendano di difendere nel territorio dello Stato ospitante l’ente da cui dipendono – la L. n. 339 del 2003 è conforme al dettato di tale direttiva in quanto rivolta solo agli avvocati italiani che siano anche pubblici dipendenti, cioè ai soli avvocati pubblici dipendenti iscritti nell’albo forense italiano. La normativa nazionale non riguarda quindi gli avvocati iscritti negli albi di altri Stati membri. La direttiva non impedisce l’adozione di disposizioni nazionali come quelle dettate dalla L. n. 339 del 2003 che prevedano l’incompatibilità tra iscrizione ad albi di avvocati e lo stato di dipendente pubblico a tempo parziale, mutandosi di situazione diversa da quella prevista dalla direttiva. In definitiva il diritto comunitario non disciplina materie giuridiche – quale quella contemplata dalla L. n. 339 del 2003 – nelle quali si esercita il potere pubblico e, pertanto, in dette materie gli Stati membri possono legiferare in assoluta autonomia. I ricorrenti hanno poi in buona parte reintrodotto questioni già sottoposte all’esame del C.N.F. ed hanno censurato quest’ultimo per averne (a torto) escluso la rilevanza e non delibato la non manifesta infondatezza in relazione, in particolare, ai parametri di cui agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost..

Le dette questioni sono rilevanti e non manifestamente infondate. In relazione al quadro normativo di riferimento va richiamata la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 56, che stabilisce che il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 58, comma 1, e successive integrazioni, nonché le ulteriori norme "che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno".

La Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi per due volte sulle disposizioni sopra indicate sotto diverse angolazioni. Con una prima sentenza, la n. 171 del 1999, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi da 56 a 65, – sollevata in via principale dalle Regioni Veneto e Lombardia per sospetta violazione del criterio di riparto delle competenze – affermando, tra l’altro, che la revisione dell’ordinamento del pubblico impiego attraverso la cd. "privatizzazione" è ispirata "da una prospettiva di maggiore valorizzazione dei risultati dell’azione amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione".

Con la successiva sentenza n. 189 del 2001 la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 e 56 bis, sollevata sotto il profilo concernente la professione forense.

La questione era stata sollevata, questa volta in via incidentale, dal C.N.F. nella sua qualità di giudice a quo con undici distinte ordinanze.

Molteplici erano le violazioni costituzionali ivi prospettate, riassumibili, peraltro, in tre ordini di censure: violazione dell’art. 3 Cost. inteso come principio di uguaglianza, perché il professionista pubblico dipendente potrebbe avvalersi di un bagaglio di nozioni tecniche e scientifiche, acquisite grazie all’ingresso nella pubblica amministrazione, non ottenibili da parte degli altri:

violazione dell’art. 24 Cost. perché la particolare posizione dell’avvocato dipendente pubblico ne porrebbe in dubbio l’indipendenza e l’autonomia, presupposto dell’effettività del diritto di difesa: violazione del principio del diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 97 e 98 Cost..

La Corte ha respinto tutte le questioni.

La pronuncia ha confermato che il disegno riformatore perseguito dal legislatore ha un obiettivo di maggiore efficienza

dell’amministrazione, perseguibile anche tramite "una più flessibile utilizzazione del personale". Proprio l’espressa previsione di disposizioni volte a prevenire il possibile conflitto di interessi fa sì che la normativa in esame non presenti profili di irrazionalità. La Corte ha inoltre respinto la questione di costituzionalità sotto il profilo dell’art. 4 Cost. rilevando che la discrezionalità del legislatore nel dettare norme di regolazione dell’accesso al lavoro è stata esercitata "in modo tutt’altro che irragionevole, ove si consideri che le disposizioni denunciate sono intese a favorire l’accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è naturalmente concorrenziale".

Con la L. n. 339 del 2003 il legislatore interviene nuovamente con una modifica di segno uguale e contrario rispetto a quella del 1996. La legge, che consta di tre articoli, non riguarda la generalità delle professioni, bensì soltanto, come risulta già dal titolo, la professione di avvocato, per la quale viene ripristinata l’incompatibilità. L’art. 1, infatti, dispone che le norme contenute nella L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56, 56-bis e 57, non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali "restano fermi i limiti e i divieti di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578".

Il successivo art. 2 impone agli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base della normativa del 1996 di scegliere, nel termine di tre anni, fra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (comma 2), ovvero il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati, con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego (comma 3). In questo secondo caso l’ormai ex dipendente conserva per cinque anni il diritto alla riammissione (comma 4). L’art. 2, comma 2, inoltre, dispone che, in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera professione e pubblico impiego, i consigli dell’ordine territoriali provvedano d’ufficio alla cancellazione.

Anche questo intervento legislativo giunge all’esame della Corte costituzionale, la quale si pronuncia con la sentenza n. 390 del 2006.

Si trattava di una controversia promossa da un dipendente pubblico che, essendo in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, aveva chiesto all’amministrazione di essere ammesso a trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, allo scopo di esercitare la professione di avvocato. Di fronte al rigetto, egli si era rivolto al tribunale di Cuneo il quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della L. n. 339 del 2003, art. 1. In detto giudizio, quindi, non si doveva esaminare il caso oggi all’esame di queste Sezioni Unite – del professionista che, legittimamente iscritto in base alla L. n. 662 del 1996, è stato cancellato dall’albo a seguito della modifica legislativa in commento.

La Corte ha dichiarato non fondata la questione definendo, in primo luogo, "priva di consistenza" la censura di disparità di trattamento prodotta dalla L. n. 339 in relazione all’ordinamento comunitario, poiché l’art. 8 della direttiva n. 98/5 cit. cui è stata data attuazione tramite il D.Lgs. n. 96 del 2001, art. 5, comma 2, estende agli avvocati di altri Stati membri le norme sulle incompatibilità dettate per gli avvocati nazionali, e quindi la disciplina del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3. Quanto, poi, al punto centrale della questione – cioè quello della intrinseca irragionevolezza di una disciplina che ripristina un regime di incompatibilità che era stato rimosso pochi anni prima – la Corte ha osservato, innanzitutto, che "la non irragionevolezza di una disciplina non esclude la non irragionevolezza di una opposta disciplina", in quanto il legislatore conserva la propria libertà di porre successivi regimi anche contrastanti tra loro. In altre parole, il fatto che la legge abbia regolato una certa materia in un dato modo e che tale regolazione sia stata ritenuta conforme alla Costituzione non esclude che ad analogo esito la Corte costituzionale possa pervenire anche in riferimento ad una legge di contenuto contrario alla precedente. Oltre a ciò, la sentenza ha notato che il divieto ripristinato dalla L. n. 339 del 2003 appare "coerente con la caratteristica – peculiare della professione forense (tra quelle il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in un albo) – dell’incompatibilità con qualsiasi impiego retribuito".

Ciò posto va innanzitutto sottolineato che la Corte Costituzionale, con le citate pronunce, non ha affrontato ne’ il problema della legittimità della L. n. 339 del 2003 nella parte in cui estende i suoi effetti anche a coloro che erano già iscritti negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione, sulla base della disciplina preesistente, al momento della entrata in vigore della nuova legge, nè il problema della legittimità del divieto, sopravvenuto a carico di costoro, di continuare l’esercizio dell’attività professionale già legittimamente intrapresa.

In relazione a detti problemi il profilo di illegittimità costituzionale della nuova legge è rilevante e non manifestamente infondato con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost.. Occorre premettere che, se è vero che il legislatore ben può dettare nuove disposizioni normative contrastanti con quella in vigore, è del pari vero che le nuove norme devono tener conto delle situazioni esistenti e dei rapporti giuridici in atto sorti nel precedente quadro normativo, oltre ad essere "non irragionevoli" in quanto frutto di nuove ragioni ed esigenze – e non possono violare norme e principi costituzionali o valori di rilievo costituzionale quali la "certezza del diritto". Ciò vale in relazione sia a norme retroattive – che incidono direttamente su fatti e rapporti sorti nel passato modificando ex post gli effetti giuridici ad essi riconducibili – sia alle nuove norme che, dettate per operare solo per il futuro, hanno incidenza su rapporti che si prolungano nel tempo (rapporti di durata), alterando gli equilibri preesistenti, facendo venire meno o modificando profondamente situazioni giuridiche già acquisite.

In proposito vanno evidenziati i seguenti punti fermi della giurisprudenza costituzionale nelle materie che sono al centro dei ricorsi in esame (essenzialmente tutela dell’affidamento e cd. certezza del diritto);

– non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25 Cost., comma 2). Dette disposizioni però, al parti di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi preesistenti frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto (sentenze 349/1985, 822/1988);

– l’irretroattività, pur fuori del campo penale, rappresenta "una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza della tranquillità dei cittadini" (sentenze 155/1990, 473/1990, 390/1995);

– interventi legislativi modificativi in peius di situazioni soggettive attinenti a rapporti di durata non possono arbitrariamente frustrare l’affidamento dei cittadini fondato sulla situazione normativa preesistente, senza violare il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., nonché, in ragione degli interessi nella specie coinvolti, gli artt. 4, 35 e 41 Cost., relativi alle garanzie del lavoro e della libertà di iniziativa economica, anche sotto il profilo della concorrenza (sentenza 211/1997);

– l’intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze 24/2009; 74/2008 e 376/1995); la norma successiva non può tradire l’affidamento del privato sull’avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze 24/2009 e 156/2007);

– "al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall’art. 25 Cost.), l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento nelle situazioni giuridiche legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario" (sentenza n. 282 del 2005 e, nello stesso senso, fra le molte, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 416 del 1999).

Nella specie – effettuato il necessario bilanciamento che si deve compiere tra il perseguimento dell’obiettivo della nuova legge e la tutela da riconoscere al legittimo affidamento nella sentenza giuridica nutrita da quanti, sulla base della normativa precedente, hanno conseguito una situazione sostanziale consolidata. (il sacrifico imposto dalla L. n. 339 del 2003, ai soggetti che già si trovavano nello stato di avvocati part-time potrebbe rivelarsi ingiustificato e, perciò, irragionevole traducendosi nella violazione del legittimo affidamento riposto nella possibilità di proseguire nel tempo nel mantenimento di dello stato. Non è da escludere che l’assetto degli interessi in questione sia stato realizzato con la nuova normativa in esame sacrificando situazioni soggettive ormai consumatesi; ciò potrebbe non corrispondere al più volte richiamato criterio di ragionevolezza. Del parti potrebbe ritenersi che l’affidamento degli avvocati part-time nella sicurezza giuridica sia stato leso dalla nuova legge per aver questa inciso, con regolamento irrazionale, su situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori.

Ben potrebbe quindi ravvisarsi la violazione – ad opera della L. n. 39 del 2003 – dei principi di legittimo affidamento e di "certezza del diritto" con riferimento alla posizione di coloro che avevano già effettuato la loro scelta sulla base della preesistente normativa dettata dalla L. n. 662 del 1996. La detta scelta – effettuata previa ponderata valutazione di conseguenze, portata e prospettive – è stata compiuta sulla base di una precisa previsione normativa, ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, in virtù di un nuovo indirizzo legislativo chiaramente e logicamente di lungo termine.

Ne consegue che appare non manifestamente infondata la tesi dei ricorrenti secondo cui la nuova normativa dettata dalla L. del 2003 non avrebbe tenuto nel debito conto delle situazioni già in atto venutesi a creare in applicazione della precedente normativa, sconvolgendo in tal modo preesistenti e ormai consolidati equilibri, aspettativa dei ricorrenti alla conservazione dello status di dipendenti pubblici part-time e di avvocati (attività, quest’ultima, esercitata in via continuativa per molti anni) era pervenuta ad un livello di consolidamento della propria scelta di vita di impiegato pubblico part-time e di avvocato – anche a seguito delle sopra citale pronunce della Corte Costituzionale – così elevato da creare quell’affidamento ritenuto da giudice delle leggi di valore costituzionalmente protetto. I ricorrenti avevano acquisito la sicurezza della permanenza nel tempo dello status di impiegato pubblico part-time e di avvocato.

Risultano palesi gli effetti pregiudizievoli per soggetti che avevano: fatto sicuro e giustificato affidamento di mantenere nel tempo la nuova situazione lavorativa: effettuato investimenti per iniziare la nuova attività professionale; modificato il proprio stile di vita; sacrificato possibili miglioramenti nella carriera di pubblico dipendente. Ne discende la lesione di legittime aspettative e di affidamento nella certezza del diritto e nella sicurezza giuridica.

In questa prospettiva non appare sufficiente ad escludere la detta lesione la deroga temporale prevista dalla L. n. 339 del 2003, art. 2 in ordine all’efficacia del regime di incompatibilità con la concessione di un termine di tre anni per esercitare l’opzione imposta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense e con possibilità nei successivi cinque anni di essere riammessi in servizio. Si tratta di una misura inidonea da sola ad evitare il sorgere del dubbio circa il "vulnus" ai segnalati principi costituzionali riducendosi la tutela ai pubblici dipendenti iscritti all’albo degli avvocati ad un limitato periodo con successivo ripristino di un divieto rimosso da una precedente legge. Donde sembra sussistere la necessità di proporre alla Corte Costituzionale i rilevati dubbi di legittimità costituzionale.

Si deve dunque concludere per la rilevanza e la non manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale della L. n. 339, artt. 1 e 2 – sia in relazione ai parametri (artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., sia in riferimento a quelli della ragionevolezza intrinseca della legge, sub art. 3 cpv. Cost. – nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilità stabilito nell’art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 5% per cento del tempo pieno, già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima L. n. 339 del 2003, prevedendo invece, all’art. 2, solo un breve periodo di "moratoria" per l’opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione.

Va infine conseguentemente accolta l’istanza formulata dai ricorrenti (ad eccezione di Ma.. di sospendere l’efficacia delle impugnate decisioni del C.N.F. dovendo ravvisarsi i presupposti di tale sospensione come ampiamente – e con ricchezza di argomentazioni – sostenuto dagli istanti: è infatti evidente il danno grave che deriva ai ricorrenti dalla efficacia del provvedimento di cancellazione dall’albo degli avvocati adottato in applicazione di una norma la cui conformità a nome e principi costituzionali è stata rimessa al giudice delle leggi.

P.Q.M.

La Corte:

riunisce i ricorsi;

visto l’art. 134 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, artt. 23 e ss., dichiarava rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 339 del 2003, artt. 1 e 2 nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilità stabilito nell’art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 50 per cento del tempo pieno, già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima L. n. 330 del 2003, prevedendo invece, all’art. 2, solo un breve periodo di "moratoria" per l’opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost.;

dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il predente procedimento sino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale;

dispone, altresì, che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria, alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata al Presidente della Camera e del Senato della Repubblica;

dispone la sospensione dell’esecuzione delle impugnate decisioni del C.N.F. nei confronti dei ricorrenti ad eccezione della ricorrente Ma…

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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