Corte Costituzionale, Sentenza n. 229 del 2003 IMPIEGO PUBBLICO Mansioni e funzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un giudizio in cui un dipendente della Corte dei conti, inquadrato nella quinta qualifica funzionale, aveva richiesto differenze retributive per il periodo dal 1° settembre 1985 al 24 luglio 1998, connesse allo svolgimento delle mansioni proprie della sesta qualifica, ricorrendo avverso il provvedimento di diniego, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 3 ottobre 2002, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); dell’art. unico del decreto legislativo 19 luglio 1993, n. 247 (Disposizioni correttive dell’art. 57 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori); dell’art. 25 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi concernenti la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995, n. 437; dell’art. 1 del decreto-legge 10 maggio 1996, n. 254 (Differimento del termine di applicazione stabilito dall’art. 57, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori), convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; dell’art. 12, comma 3, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); dell’art. 56 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall’art. 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.

Il giudice a quo osserva che la domanda, sia pure entro limiti meno ampi rispetto al petitum, potrebbe trovare accoglimento sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale che non interpreta l’art. 33 del t.u. del 1957 sul pubblico impiego come preclusivo all’adeguamento del trattamento economico del dipendente nei casi di adibizione a mansioni superiori (in quanto la relativa retribuzione costituisce – secondo la Corte – una regola generale con limitate eccezioni connesse all’organizzazione degli uffici) mentre tale preclusione è affermata dal diritto vivente.

La costante giurisprudenza del giudice di secondo grado in senso contrario alla lettura adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale comporterebbe la conseguenza che «deviarne può soltanto condurre ad un gravame il cui esito appare scontato». Pertanto il TAR ritiene necessaria una declaratoria d’illegittimità costituzionale (fondata sulle considerazioni relative all’immediata operatività dell’art. 36 Cost., ripetutamente affermata dalla Corte in subiecta materia) della normativa concernente la (non) retribuibilità delle mansioni superiori, a partire dal citato art. 33 del t.u. n. 3 del 1957 ed a seguire, con riferimento a tutti i provvedimenti che, pur riconoscendo astrattamente tale possibilità, ne hanno di fatto differito nel tempo l’applicazione fino a demandarne l’effettiva operatività alla nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi. Il giudice a quo ripercorre l’evolversi della legislazione sul punto attraverso un articolato excursus ed individua quindi le molteplici disposizioni applicabili ratione temporis al giudizio a quo.

Il TAR ricorda inoltre la vicenda giurisprudenziale relativa all’art. 29 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali (il cui secondo comma era stato inizialmente inteso dal giudice amministrativo come preclusivo del diritto del lavoratore al compenso differenziale per le mansioni superiori svolte), culminata nella sentenza n. 101 del 1995 di questa Corte.

Un’analoga lettura adeguatrice, prosegue il remittente, è stata effettuata in più occasioni dalla Corte con riguardo al citato art. 33, ma il Consiglio di Stato, con orientamento consolidato – ed espresso anche in Adunanza plenaria – ha continuato ad affermare, in mancanza di una norma espressa (quale è invece ravvisabile nel richiamato art. 29 per il personale sanitario), la necessaria corrispondenza tra trattamento economico e qualifica formalmente rivestita, con la conseguente irrilevanza dello svolgimento di mansioni superiori sotto qualsiasi profilo.

Ciò posto, il TAR determina l’oggetto della censura individuando i periodi in cui il tema ha ricevuto una differente disciplina e la relativa successione normativa, censurando, per violazione dell’art. 36 Cost.:

a) l’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957, in ragione della valenza immediatamente precettiva dell’indicata garanzia costituzionale, che non potrebbe essere compressa dall’astratta possibilità di abuso (nella forma dell’illegittima protrazione dell’assegnazione a funzioni superiori), risultando pertanto ingiustificata la mancata applicazione di detto principio fondamentale ;

b) l’articolo unico del d.lgs. n. 247 del 1993, nella parte in cui fa decorrere dal 1° ottobre 1993 l’efficacia dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. 29 del 1993 (che nella sua originaria formulazione stabiliva che «l’utilizzazione del dipendente in mansioni superiori può essere disposta esclusivamente per un periodo non eccedente i tre mesi, nel caso di vacanze di posti di organico, ovvero per sostituire altro dipendente durante il periodo di assenza con diritto alla conservazione del posto, escluso il periodo del congedo ordinario, sempre che ricorrano esigenze di servizio» aggiungendo, al secondo comma, che «nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento delle medesime»);

c) l’art. 25 del d.lgs. n. 546 del 1993, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del ripetuto d.lgs. n. 29 del 1993, ne prevede, al comma 6 di questo, la decorrenza (anche quanto al secondo comma) «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»;

d) l’art. 1, comma 5, del d.l. n. 361 del 1995, convertito, con modificazioni, in legge n. 437 del 1995, l’art. 1, del d.l. n. 254 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 365 del 1996, l’art. 12, comma 3, del d.l. n. 669 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 30 del 1997, nonché l’art. 39, comma 17, della legge n. 449 del 1997, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore del ripetuto art. 57, comma 2;

e) l’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui, al comma 6, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore .

Sulla premessa che il legislatore abbia inteso introdurre, con il citato art. 57, comma 2, il principio generale della retribuzione per le mansioni superiori svolte dai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, anche fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, il TAR ritiene incostituzionali le disposizioni, succedutesi nel tempo e sopra ricordate, le quali hanno dilazionato l’entrata in vigore della citata previsione, che avrebbe viceversa imposto all’amministrazione di appartenenza, e consentito comunque al giudice, il riconoscimento del trattamento retributivo differenziale; disposizioni di proroga che hanno mantenuto in vigore l’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 e, con esso, il conseguente divieto di corresponsione di differenze retributive.

Analoga censura il remittente formula con riguardo all’art. 56, comma 6, dello stesso d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del più volte citato d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui esclude che il lavoratore abbia titolo all’attribuzione del trattamento differenziale sino all’introduzione di norme contrattuali attuative.

2.— E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha preliminarmente richiesto la declaratoria d’inammissibilità, in quanto il giudice avrebbe dovuto fare applicazione della norma nel senso che riteneva costituzionalmente adeguato. Nel merito, a parere dell’Autorità intervenuta, la questione non sarebbe fondata in ragione di quelle peculiarità del rapporto di pubblico impiego, conformi agli artt. 97 e 98 Cost., che esprimerebbero in primo luogo la necessità di evitare sconvolgimenti organizzativi a causa del mancato rispetto delle regole disciplinanti l’accesso e la progressione in carriera, e che, in secondo luogo, sarebbero deputate a scongiurare gli effetti distorsivi connessi a possibili stabilizzazioni degli incrementi economici, ove l’adibizione a mansioni superiori abbia tratto occasione da esigenze speciali e temporanee.
Considerato in diritto

1.1― Il TAR del Veneto dubita, in relazione all’articolo 36 della Costituzione, della legittimità costituzionale: a) dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; b) dell’art. unico del d.lgs. 19 luglio 1993, n. 247, nella parte in cui fa decorrere l’efficacia dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 dal l° ottobre 1993; c) dell’art. 25 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del citato d.lgs. n. 29 del 1993, ne prevede al comma 6 di questo, la decorrenza degli effetti, anche quanto al secondo comma, «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31, e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»; d) dell’art. 1, comma 5, del d.l. 28 agosto 1995, n. 361, convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995 n. 437; e) dell’art. 1, del d.l. 10 maggio 1996, n. 254, convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; f) dell’art. 12, comma 3, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; g) dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993; h) dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui, al comma 6, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore.

Secondo il remittente, il «diritto vivente» avrebbe individuato nell’articolo 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 la disposizione che disciplinava, fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, lo svolgimento da parte del pubblico dipendente di mansioni superiori a quelle della qualifica attribuitagli, interpretandolo nel senso che esso, nell’ipotesi suindicata, vietava di corrispondere al lavoratore differenze retributive.

Ad avviso del TAR remittente, l’art. 33 citato, nell’interpretazione suddetta e dalla quale non si potrebbe prescindere, nonostante il diverso indirizzo manifestato da questa Corte, viola l’art. 36 della Costituzione. Inoltre contrastano con tale parametro anche tutte le altre norme sopracitate, che hanno differito nel tempo l’entrata in vigore dell’articolo 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993, il quale aveva introdotto il diverso principio del diritto alle differenze retributive, nonché l’art. 56 dello stesso decreto legislativo nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs n. 80 del 1998, il cui comma 6 disponeva, prima della modifica introdotta dall’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza avrebbe potuto comportare il diritto del lavoratore a differenze retributive.

2.— Le questioni vanno esaminate secondo la tripartizione logica sottesa alla prospettazione.

2.1― La questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 non è ammissibile.

Anzitutto, il giudice remittente si è limitato ad affermare che secondo il diritto vivente, dal quale egli asserisce di non poter prescindere, a pena di una più che probabile riforma in appello della decisione che se ne discostasse, la disposizione applicabile alla controversia è l’art. 33 in quanto reca al di là della sua letterale formulazione, il divieto della retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente.

Il TAR del Veneto, in tal modo, non ha adempiuto l’obbligo che gli incombeva di esprimere con congrua motivazione la propria opinione sul contenuto della norma che intendeva censurare, né ha optato per l’adozione di una interpretazione diversa da quella seguita dall’indirizzo giurisprudenziale ritenuto prevalente.

In secondo luogo è la stessa motivazione sulla esistenza e definizione del “diritto vivente” nel caso in esame a risultare non convincente.

Il remittente lo identifica in alcune recenti pronunce del Consiglio di Stato e, più in particolare, in quattro pronunce dell’Adunanza plenaria (n. 22 del 1999, nn. 10, 11 e 12 del 2000), omettendo di rilevare che soltanto la prima decisione fa espresso riferimento all’art. 33 in questione, mentre le altre si limitano ad affermare – senza alcuno specifico riferimento normativo – che quello della non retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente è principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa.

L’omessa considerazione di tale differenza non è irrilevante qualora si osservi, da un lato, che un diverso orientamento giurisprudenziale, benché minoritario, individuava nell’art. 31, anziché nell’art. 33, del d.P.R. n. 3 del 1957 la disposizione regolatrice dello svolgimento di mansioni superiori nell’ambito della pubblica amministrazione, pervenendo a risultati difformi in ordine alla relativa retribuibilità; dall’altro lato, che questa Corte, con provvedimenti emessi successivamente alle decisioni del massimo organo di giustizia amministrativa (ordinanze n. 349 del 2001 e n. 100 del 2002), ribadendo il proprio orientamento espresso con atti più risalenti (ordinanze n. 289 e n. 347 del 1996), aveva affermato che dall’art. 33 in questione nulla si poteva argomentare sul caso eccezionale di destinazione del dipendente pubblico a mansioni superiori.

3.1― Parimenti inammissibile è la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto le disposizioni suindicate, dirette a differire l’entrata in vigore dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni che, secondo il TAR del Veneto, ha introdotto nell’ordinamento l’obbligo delle pubbliche amministrazioni di corrispondere ai propri dipendenti le differenze retributive in caso di svolgimento di mansioni superiori.

La motivazione del remittente sulla rilevanza di tale questione si fonda sul presupposto che fino all’emanazione del d.lgs. n. 29 del 1993, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, vigesse il divieto sancito dall’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 di corrispondere differenze retributive al pubblico dipendente che avesse svolto mansioni superiori, nonché sull’affermazione che l’art. 57 del citato d.lgs. n. 29 del 1993 aveva introdotto al contrario l’obbligo di corrispondere le differenze suddette; da qui l’illegittimità di tutte quelle norme che, procrastinando l’entrata in vigore dell’art. 57, avevano conservato efficacia all’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 e ritardato in tal modo la riconduzione a legittimità del sistema.

Sia il presupposto che la successiva affermazione sono assiomi e non il frutto di una dimostrazione. Mentre dell’art. 33 e del divieto che esso conterrebbe si è già detto, sull’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993 occorre osservare che tale norma, anche nel testo successivamente modificato dal d.lgs. n. 546 del 1993, prevedeva due ipotesi tipizzate di svolgimento delle mansioni superiori, per entrambe esigendo che esso fosse stato disposto dal dirigente preposto all’unità organizzativa presso cui il dipendente prestava servizio. L’ordinanza di rimessione nulla dice sulle specifiche circostanze di fatto in cui le mansioni superiori sarebbero state svolte e quindi sulla ricorrenza in concreto dei requisiti indicati nell’art. 57 e afferma che, in realtà, tale disposizione avrebbe introdotto nell’ordinamento il generale obbligo di retribuire le mansioni superiori in maniera differenziata, in qualsiasi modo fossero state svolte, perché, altrimenti interpretata, essa avrebbe presentato evidenti profili d’illegittimità costituzionale.

Così prospettando la questione, il remittente si fonda su un’interpretazione dell’art. 57 che trascura il dato letterale e si risolve nella mera affermazione che quello da lui indicato è il contenuto normativo più aderente ai precetti costituzionali: in effetti il giudice a quo, nel dare per scontata la propria lettura della norma – anziché censurarla sotto il profilo della limitazione alle due ipotesi anzidette – chiede alla Corte di confermare l’interpretazione che egli propone, al fine di renderla conforme a Costituzione. Ma l’estraneità di siffatta finalità alla logica del giudizio incidentale esclude l’ammissibilità della questione (ordinanza n. 215 del 2001).

3.2― Infine, non è ammissibile neppure la questione dell’articolo 56, comma 6, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui esclude che il lavoratore abbia titolo all’attribuzione del trattamento differenziale sino all’introduzione di norme contrattuali attuative.

La motivazione che sorregge tale questione è, infatti, non pertinente. Il giudice remittente si è limitato ad affermare che per l’art. 56 censurato valgono considerazioni eguali a quelle esposte nel prospettare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno differito l’entrata in vigore dell’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993. Ma, mentre l’asserita ragione d’illegittimità di queste ultime consisteva, come si è visto, nell’aver differito l’entrata in vigore di una norma (l’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993) che introduceva l’obbligo di retribuire in modo differenziato lo svolgimento di mansioni superiori, l’articolo 56, nella parte sospettata di illegittimità costituzionale, contiene la ben diversa previsione del divieto di corrispondere alcunché in tale ipotesi al pubblico dipendente «fino all’entrata in vigore di norme attuative della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita». E’ incongruo quindi affermare che le ragioni che motivano l’una questione valgono anche per l’altra.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); dell’art. unico del decreto legislativo 19 luglio 1993 n. 247 (Disposizioni correttive dell’art. 57 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori); dell’art. 25 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi concernenti la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995, n. 437; dell’art. 1 del decreto-legge 10 maggio 1996, n. 254 (Differimento del termine di applicazione stabilito dall’art. 57, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori), convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; dell’art. 12, comma 3, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); dell’art. 56 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall’art. 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal TAR. per il Veneto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2003.

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2003

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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