Corte Costituzionale, Sentenza n. 233 DEL 2003 DANNI IN MATERIA CIV. E PEN. Congiunto Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’11 maggio 2002, depositata il 20 giugno 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.

In punto di rilevanza, il rimettente espone di doversi pronunciare su domande di risarcimento del danno morale avanzate dagli eredi di persone decedute in un sinistro stradale nei confronti dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro stesso. Aggiunge che nessuna delle parti è riuscita a superare la presunzione di colpa in pari misura concorrente posta a carico di ciascuno dei conducenti dall’art. 2054, secondo comma, cod. civ., cosicché le suddette domande risarcitorie dovrebbero essere respinte, stante la limitazione posta dall’art. 2059 cod. civ., dovendo – per diritto vivente – escludersi la risarcibilità, ex art. 185 cod. pen., del danno morale nel caso in cui la responsabilità dell’autore del fatto illecito, pur astrattamente costituente reato, sia accertata in base ad una presunzione di legge e non in base all’oggettiva ricostruzione del fatto.

La previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge, contenuta nella norma impugnata, sarebbe tuttavia lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., oltre ad essere fonte di inique ed ingiustificate disparità di trattamento, tali da violare il principio di eguaglianza. Sotto altro aspetto, essa avrebbe prodotto – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi – ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, rispetto al tertium comparationis rappresentato dall’art. 2043 cod. civ.

Con riguardo al primo dei profili considerati, il rimettente osserva che la norma impugnata si fonderebbe, in definitiva, sull’assunto secondo cui i diritti della personalità non costituiscono elementi del patrimonio del titolare e la loro lesione non darebbe perciò luogo a risarcimento.

Siffatto assunto non potrebbe tuttavia trovare cittadinanza nell’ordinamento costituzionale, posto che tutti i diritti della personalità, nessuno escluso, ricevono tutela dagli artt. 2 e 3 Cost., come è del resto riconosciuto sia dalla giurisprudenza di legittimità e di merito sia dalla migliore dottrina. Né, d’altro canto, potrebbe sostenersi che la sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da alcun precetto costituzionale e quindi – non costituendo un diritto della personalità – non possa essere risarcita se non nei limiti stabiliti dall’art. 2059 cod. civ.

L’assurdità di una simile tesi, sul piano giuridico, risulterebbe – secondo il rimettente – palese ove si consideri che, secondo l’orientamento prevalente della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, l’art. 2 Cost. sancisce il valore assoluto della persona umana ed è norma a contenuto precettivo e non programmatico, cosicché ogni proiezione della persona nella realtà sociale sarebbe suscettibile di assurgere al rango di diritto soggettivo perfetto, con la conseguente configurabilità di una tutela risarcitoria in caso di lesione.

Non potendo dubitarsi che la famiglia sia una delle formazioni sociali nelle quali l’individuo esplica la propria personalità e che i vincoli famigliari costituiscano proiezione della persona nella realtà sociale, ne discenderebbe che i suddetti vincoli costituiscono, ex art. 2 Cost., oggetto di un diritto soggettivo perfetto. L’art. 2059 cod. civ., impedendone la risarcibilità in caso di lesione, salvo i casi previsti dalla legge, violerebbe perciò tanto l’art. 2 Cost., frustrando un diritto fondamentale, quanto l’art. 3, con riguardo al principio di eguaglianza, differenziando ingiustamente la situazione di chi perde un congiunto in conseguenza di un illecito accertato e quella di chi invece lo perde in conseguenza di un illecito presunto ex art. 2054 cod. civ.

La norma impugnata, d’altro canto, non sarebbe – ad avviso del rimettente – suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata, così da superare il prospettato dubbio di legittimità con riferimento al canone di ragionevolezza.

In particolare, non ritiene il giudice a quo di poter condividere la tesi secondo la quale la lesione di un diritto costituzionalmente protetto sarebbe comunque risarcibile, nonostante il tenore dell’art. 2059, in base al combinato disposto dell’art. 2043 e della norma costituzionale di volta in volta violata.

In primo luogo, tale orientamento si fonda sull’assunto che l’art. 2043 sia una norma in bianco, ma siffatto assunto è stato ormai abbandonato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 500 del 1999, nella quale il danno risarcibile è espressamente definito come la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse leso, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega. In tale ottica la risarcibilità discende dunque dal fatto che l’interesse leso sia rilevante per l’ordinamento, a prescindere dall’esistenza di una garanzia costituzionale, e non vi è dubbio – ad avviso sempre del giudice a quo – che l’interesse alla propria serenità morale sia preso in considerazione, sotto molti aspetti, dall’ordinamento.

Secondariamente, la tesi cosiddetta «del combinato disposto» condurrebbe a svuotare l’art. 2059 cod. civ. di ogni contenuto, atteso che qualsiasi danno morale potrebbe astrattamente ricondursi alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Ma tra una interpretatio abrogans conforme a Costituzione ed una interpretatio utilis con questa contrastante l’interprete – secondo il rimettente – dovrebbe necessariamente scegliere la seconda.

L’orientamento ermeneutico in esame porterebbe, infine, ad una irragionevole duplicazione di risarcimento nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato: in tal caso, infatti, il danneggiato potrebbe agire sia per il risarcimento del danno ingiusto, in base al combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 2043 cod. civ., sia per il risarcimento del danno morale in base all’art. 2059 cod. civ.

In via dichiaratamente subordinata, il rimettente solleva poi, in riferimento all’art. 3 Cost., una diversa questione di legittimità costituzionale della stessa norma, nella parte in cui non consente la liquidazione del danno non patrimoniale nei casi in cui la responsabilità dell’offensore venga affermata – come è nel giudizio a quo – in base ad una presunzione di legge.

Il rimettente muove dalla considerazione che siffatta lettura della norma, costituente diritto vivente, nacque in un’epoca storica nella quale, vigendo l’art. 3 cod. proc. pen. del 1930, l’accertamento dell’illecito in sede civile era necessariamente subordinato all’accertamento del reato in sede penale.

L’irrisarcibilità del danno morale in caso di responsabilità presunta, quale conseguenza dell’inesistenza del reato affermata in sede penale, discenderebbe pertanto dalla preminenza logica della giurisdizione penale rispetto a quella civile.

La situazione sarebbe radicalmente mutata a seguito dell’introduzione del nuovo art. 75 cod. proc. pen., per effetto del quale l’azione risarcitoria in sede civile può avere uno svolgimento del tutto autonomo, ed un esito anche contrastante, rispetto all’eventuale azione penale che sia promossa per lo stesso fatto.

La norma impugnata si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto – «in modo irrazionale rispetto al dettato dell’art. 75 cod. proc. pen., considerato quale tertium comparationis» – nonostante la conclamata parità delle giurisdizioni, precluderebbe al danneggiato che agisca in sede civile ai fini del risarcimento del danno morale «di avvalersi di uno dei mezzi di prova più tipici e risalenti del processo civile, cioè la presunzione».

2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di non fondatezza della questione.

Ad avviso della parte pubblica, il senso della norma impugnata sarebbe quello non di negare il riconoscimento dei diritti della personalità tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost., ma di limitare un profilo risarcitorio privo – per la particolare natura di quei diritti – di effettiva idoneità ripristinatoria della perdita subita.

La norma troverebbe in definitiva la propria giustificazione nell’esigenza – pur essa frutto di civiltà giuridica – di evitare che il debitore si trovi assoggettato ad un carico risarcitorio sproporzionato rispetto all’entità del fatto illecito, tanto più che, una volta ammessa la piena risarcibilità del danno morale, sarebbe difficile giustificare la limitazione della tutela risarcitoria – in una fattispecie come quella sottoposta all’esame del giudice a quo – ai soli congiunti e non anche ad altri soggetti legati alle vittime del sinistro da rapporti di diversa natura.

La scelta operata dal legislatore sarebbe dunque frutto di una valutazione non solo ampiamente discrezionale ma altresì riconducibile ad un sistema complessivo, «non suscettibile di riscrittura attraverso una mera pronuncia abrogativa».

Legando la possibilità del risarcimento alla natura penale dell’illecito, l’ordinamento avrebbe inteso, non irragionevolmente, attribuire valore differenziale, tenuto conto della specialità di questo tipo di danni, alla natura della condotta anziché a quella dell’evento.
Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Roma – chiamato a pronunciarsi su domande di risarcimento del danno morale avanzate dai prossimi congiunti di persone decedute in un incidente automobilistico, nei confronti dei conducenti dei veicoli coinvolti, la cui responsabilità discende, secondo lo stesso giudice, esclusivamente dalla presunzione di cui all’art. 2054, secondo comma, cod. civ. – solleva due diverse questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.

La prima, che il rimettente qualifica come principale, ha ad oggetto – con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. – la previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale «solo nei casi determinati dalla legge».

Siffatta limitazione risarcitoria sarebbe – ad avviso del rimettente – lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., nonché fonte di ingiustificate disparità di trattamento tra danneggiati. Avrebbe inoltre dato causa – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi – ad ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza.

La seconda questione, indicata come subordinata, riguarda invece, con riferimento all’art. 3 Cost., la medesima norma nella parte in cui escluderebbe la risarcibilità del danno non patrimoniale allorché la responsabilità dell’autore del fatto, corrispondente ad una fattispecie astratta di reato, venga affermata – come appunto nel caso di specie – in base ad una presunzione di legge.

Siffatta esclusione si porrebbe in irragionevole contrasto con il principio di parità delle giurisdizioni civile e penale, proclamato dall’art. 75 cod. proc. pen., precludendo al danneggiato che agisca in sede civile ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale di avvalersi di un mezzo di prova tipico del processo civile, quale la presunzione.

Presupposto interpretativo comune ad entrambe le questioni è quello – certamente non implausibile – secondo cui l’ambito di applicazione dell’art. 2059 cod. civ. copre l’intera area del danno non patrimoniale, restando perciò preclusa al giudicante la possibilità di risarcire il pregiudizio alla serenità morale, derivante dalla perdita di un congiunto per fatto illecito altrui, mediante il ricorso all’art. 2043 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 2 Cost.

2.- Una corretta valutazione del rapporto di pregiudizialità tra le questioni oggetto del presente giudizio porta ad invertire l’ordine di trattazione seguito dal rimettente, esaminando prioritariamente la questione sollevata, nell’ordinanza, in via subordinata.

Il rimettente infatti, in relazione ad una domanda di risarcimento del danno morale derivato agli attori dalla morte di congiunti in uno scontro tra veicoli provocato da fatto illecito altrui, ritiene di non poter accertare concretamente l’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito e di dover quindi ricorrere alla presunzione di pari responsabilità dei conducenti dei veicoli, posta dall’art. 2054, secondo comma, cod. civ. Pertanto il dubbio di costituzionalità da lui sollevato in ordine all’art. 2059 cod. civ., nella parte relativa alla limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge (tra i quali rientra quello del danno derivante da reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen.) in tanto può ritenersi rilevante in quanto si assuma l’esclusione di tale risarcibilità nelle ipotesi in cui il ricordato elemento soggettivo discenda da una presunzione di legge.

Ma poiché il rimettente dubita (anche) della legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ. proprio sotto questo specifico profilo, è evidente come la relativa questione sia preliminare all’altra, prospettata come principale.

3.- La questione individuata come logicamente preliminare deve essere dichiarata non fondata nei sensi di cui in motivazione.

3.1.- Il rimettente nel sollevare il dubbio di costituzionalità muove dalla ritenuta necessità, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, dell’accertamento in concreto di un reato e, quindi, anche dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa.

Ma è proprio una interpretazione siffatta, assunta in termini di diritto vivente, a risultare del tutto dissonante rispetto alla ratio della norma impugnata, quale si desume dalla evoluzione legislativa e giurisprudenziale verificatasi in materia.

3.2. – Non vi è dubbio che l’art. 2059 cod. civ., stabilendo che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, circoscriveva originariamente la risarcibilità all’ipotesi, contemplata dall’art. 185 cod. pen., del danno non patrimoniale derivante da reato, e le conferiva un carattere sanzionatorio, reso manifesto, tra l’altro, dalla stessa relazione al codice civile, secondo la quale «soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo».

Coerentemente a ciò, si riteneva, poi, che il riferimento al reato, contenuto nell’art. 185 cod. pen., dovesse essere inteso nel senso della ricorrenza in concreto di una fattispecie criminosa in tutti i suoi elementi costitutivi, anche di carattere soggettivo. Con la conseguente inoperatività, in tale ambito, della presunzione di legge destinata a supplire la prova, in ipotesi mancante, della colpa dell’autore della fattispecie criminosa.

3.3.- L’indirizzo interpretativo riassuntivamente esposto risulta, tuttavia, destinato ad entrare in crisi per effetto della richiamata evoluzione sull’area di risarcibilità del danno non patrimoniale.

Da un lato, infatti, il legislatore ha introdotto ulteriori casi di risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, riguardo ai quali è del tutto inconferente qualsiasi riferimento ad esigenze di carattere repressivo (si pensi, ad esempio, alle azioni di responsabilità previste dall’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, per i danni derivanti da ingiusta privazione della libertà personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie; dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, per i danni derivanti dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

Dall’altro, la giurisprudenza – sia pure muovendosi nell’ambito di operatività dell’art. 2043 cod. civ., nel corso di un travagliato itinerario interpretativo nel quale questa Corte è ripetutamente intervenuta – ha da tempo individuato ulteriori ipotesi di danni sostanzialmente non patrimoniali, derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, risarcibili a prescindere dalla configurabilità di un reato (in primis il cosiddetto danno biologico). Il mutamento legislativo e giurisprudenziale venutosi in tal modo a realizzare ha fatto assumere all’art. 2059 cod. civ. una funzione non più sanzionatoria, ma soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

Su tale base, pertanto, anche il riferimento al «reato» contenuto nell’art. 185 cod. pen., in coerenza con la diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più, come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge.

Del resto, è significativo come la stessa giurisprudenza di legittimità abbia affermato, in relazione al reato commesso da persona non imputabile, che la risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 cod. civ., in relazione all’art. 185 cod. pen., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato punibile per il concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto dalla legge come reato.

Sicché può dirsi che, anche sotto l’aspetto della complessiva coerenza del sistema, la tesi che alla parola «reato» attribuisce il significato di fatto (solo) astrattamente previsto come tale dalla legge risulta certamente non estranea alla stessa giurisprudenza, pur richiamata dal rimettente a sostegno della contraria opinione.

Né, d’altro canto, potrebbe ancora invocarsi, quale argomento a favore della tesi opposta, una asserita prevalenza della giurisdizione penale rispetto a quella civile.

L’art. 75 cod. proc. pen. ha definitivamente consacrato il principio di parità delle giurisdizioni, cosicché perfino la possibilità di giudicati contrastanti in relazione al medesimo fatto, ai diversi effetti civili e penali, costituisce evenienza da considerarsi ormai fisiologica.

3.4.- Occorre da ultimo considerare che l’indirizzo interpretativo assunto dal rimettente come diritto vivente risulta disatteso, successivamente all’ordinanza di rimessione, dalla stessa giurisprudenza di legittimità.

Giova al riguardo premettere – pur trattandosi di un profilo solo indirettamente collegato alla questione in esame – che può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo. In due recentissime pronunce (Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, viene, infatti, prospettata, con ricchezza di argomentazioni – nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale – un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.

Per quanto specificamente riguarda il tema – che qui ci occupa – della risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di colpa presunta, altre, anch’esse recentissime, sentenze del giudice di legittimità, muovendo dalla «sempre più avvertita esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno ingiustamente subito (…) nei valori propri della persona, anche in riferimento all’art. 2 Cost.», sono giunte all’enunciazione di un principio di diritto perfettamente coerente con le considerazioni sin qui svolte. Si afferma, infatti, in tali pronunce che alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nei casi di cui agli artt. 2051 e 2054 cod. civ., «debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato» (Cass., 12 maggio 2003, nn. 7281 e 7282).

Sicché, nessun ostacolo sussiste, neppure sotto l’aspetto di un contrario diritto vivente, all’accoglimento di una interpretazione opposta a quella da cui muove il rimettente nel sollevare il dubbio di costituzionalità.

3.5.- Conclusivamente, l’art. 2059 cod. civ. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge.

Resta in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale originato da una contraria lettura della norma, mentre la concreta possibilità di una tutela risarcitoria dei danneggiati nel giudizio principale rende evidentemente priva di rilevanza e, pertanto, inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., prospettata dal medesimo rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. e diretta a censurare la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi stabiliti dalla legge.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del codice civile sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Roma con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata dallo stesso rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003.

Depositata in Cancelleria l’11 luglio 2003.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *