Corte Costituzionale, Sentenza n. 274 del 2003, In tema di personale regionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto
1.- Con il ricorso in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato in via principale gli articoli 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge reg. 13 novembre 1998 n. 31), assumendo che essi sarebbero in contrasto con gli articoli 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, 51, primo comma, ed 81 della Costituzione, nonché con l’art. 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), sotto il profilo dell’inosservanza dei limiti alle competenze legislative della Regione, desumibili:
a) per quanto riguarda l’art. 3, dall’art. 12, comma 4, del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468 (Revisione della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell’articolo 22 della L. 24 giugno 1997, n. 196);
b) e, per quel che concerne l’art. 4, dagli articoli 1, comma 3, e 28, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421) e dall’art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali).
Il ricorrente, in via preliminare, osserva che questa Corte (particolarmente nelle sentenze n. 1 del 1999 e n. 194 del 2002) ha più volte ritenuto in contrasto con gli articoli 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione le disposizioni legislative, le quali, mediante riserve di posti od altrimenti, in concreto escludano o gravemente limitino l’effettività della regola del concorso “aperto” ad esterni per l’accesso agli impieghi nelle amministrazioni pubbliche, in quanto le procedure concorsuali, quando non distorte e non marginalizzate, appaiono funzionali all’assicurazione del valore costituzionale della parità di trattamento e dell’eguaglianza tra più soggetti aspiranti ad un provvedimento lato sensu concessorio e di quello dell’efficienza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.
2.- Dopo questa premessa, il ricorrente illustra la prima censura, rilevando:
a) che il citato art. 3 della legge regionale ha previsto, nel comma 1, l’immissione nei “ruoli organici”, dei soggetti addetti a lavori socialmente utili operanti alla data del 23 luglio 2002 presso l’amministrazione e gli enti regionali e, nel comma 2, di dipendenti assunti a termine od a tempo determinato ed in servizio alla anzidetta data;
b) che tali inquadramenti dovrebbero avvenire “nei limiti dei posti che risulteranno vacanti a conclusione delle selezioni interne previste dall’art. 2” della stessa legge per il personale dipendente, ossia con riguardo a quel 50% dei posti vacanti per il quale si sarebbero dovuti – se non fosse intervenuta la norma censurata – bandire concorsi non riservati;
c) che in tal modo si assicurerebbe ai beneficiari della “progressione verticale” mediante le “selezioni interne” anche l’ulteriore vantaggio di un blocco dei concorsi (e quindi di non avere in anni futuri l’effettiva concorrenza di elementi giovani provenienti da concorsi “aperti”).
Senonché, pur essendo la riduzione del numero degli addetti ai lavori socialmente utili un obiettivo meritevole di considerazione, esso non potrebbe, però, essere perseguito, oltre che in modo casuale (posto che ne beneficerebbero coloro che si trovano ad operare per la Regione), a scapito dell’effettività dei menzionati parametri costituzionali.
D’altro canto, il legislatore statale, con l’art. 12, comma 4, del decreto legislativo n. 468 del 1997, a suo tempo recepito dallo stesso legislatore sardo (art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 1° agosto 2000, n. 16 “Provvedimenti relativi al personale impiegato dall’Amministrazione regionale e dagli enti regionali nei lavori socialmente utili e nei progetti-obiettivo e disciplina dei compensi spettanti agli amministratori del fondo per l’integrazione del trattamento di quiescenza, di previdenza e di assistenza del personale dipendente dall’Amministrazione regionale”) avrebbe fissato un limite quantitativo, cioè una quota del 30%, per la riserva di posti a favore degli addetti ai lavori in questione, e, quindi, anche il limite massimo di comprimibilità – in via eccezionale – degli indicati valori costituzionali.
Inoltre, anche se la stabilizzazione di parte dei dipendenti non a tempo indeterminato potrebbe, forse, essere considerata un obiettivo da tenere in considerazione, tuttavia, a pena di elusione di quei valori, non potrebbero legittimarsi <> e non potrebbero <>.
D’altronde, le proroghe dei rapporti del personale assunto a termine e dei lavoratori addetti a lavori socialmente utili, disposte dall’art. 2, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 16 del 2000, dall’art. 1, comma 1, delle legge della Regione Sardegna 13 agosto 2001, n. 13 (Proroga per un ulteriore periodo, dell’utilizzazione del personale impiegato dall’Amministrazione e dagli enti regionali nei progetti-obiettivo e nei lavori socialmente utili) ed – ora – dall’art. 3, comma 4, della legge in esame non potrebbero essere ritenute produttive di “affidamenti” suscettibili di consolidarsi malgrado opposte indicazioni costituzionali.
Infine, viene rilevato come l’art. 3, comma 2, neppure distinguerebbe tra dipendenti, a seconda delle “qualifiche per le quali erano state indette le selezioni o effettuato l’accertamento dell’idoneità”; e che il comma 5 dell’art. 3 sarebbe illegittimo in riferimento <>, giacché <> meriterebbe una verifica.
3. – Quanto alla censura relativa all’art. 4, il ricorrente lamenta che esso ha introdotto modifiche all’art. 77 rubricato “prima costituzione della dirigenza” della legge della Regione Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell’organizzazione e degli uffici della Regione), ed in particolare che:
aa) modificandone il comma 2, ha “attribuito” – ope legis anche se in sede di prima applicazione della legge – “la qualifica di dirigente” a dipendenti in possesso (oltre che dell’anzianità e dell’appartenenza alle “fasce” ivi indicate) del diploma di laurea;
bb) aggiungendovi [art. 4 lett. b)] il comma 2-bis, ha aperto anche a dipendenti non laureati l’accesso senza concorso alla dirigenza, posto che tale norma non sarebbe di significato univoco, laddove recita che “hanno comunque titolo all’attribuzione della qualifica” anziché che “è attribuita la qualifica” ed inoltre, sarebbe contraddetto dal comma 7 del citato art. 77, rimasto invariato;
cc) modificandone [art. 4 lett. d)] i commi 5 e 9, ha aumentato la già troppo elevata quota (75 per cento) dei posti “rimasti” vacanti nella dotazione della dirigenza dopo gli inquadramenti di cui ai commi 1 e 2, riservata al concorso interno, al 90 per cento;
dd) abrogandone [art. 4 lett. e)] il comma 10, ove, – ancorché in coda alle procedure di “attribuzione” ope legis della qualifica di dirigente ed al concorso interno – era prevista l’indizione di concorsi pubblici per l’accesso alla dirigenza, ha eliminato tale possibilità.
Secondo il ricorrente, l’insieme delle tre disposizioni contenute nelle lettere b), d) ed e) dell’art. 4 contrasterebbe con gli evocati parametri costituzionali e con le indicate norme interposte, in quanto l’accesso alla qualifica di dirigente di ruolo deve avvenire mediante concorso o procedura selettiva di pari serietà, ai quali potrebbero essere ammessi soltanto soggetti muniti di laurea. La riserva di posti ai concorsi interni non potrebbe, del resto, assorbire la quasi totalità delle vacanze, giacché la dirigenza non potrebbe divenire, per il cumulo di attribuzioni ope legis e di concorsi interni, un’ulteriore prosecuzione della “progressione verticale”, non essendo i concorsi o le procedure equipollenti per l’accesso alla dirigenza promozioni, bensì – anche agli effetti dell’art. 68, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1992 [rectius 1993] – procedure per l’assunzione.
4.- Si è costituita in giudizio la Regione Sardegna, depositando memoria, nella quale preliminarmente ha sostenuto l’inammissibilità della censura di violazione dell’art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 1948, in quanto non sarebbero stati individuati quali fra i limiti da tale norma indicati sarebbero stati violati.
In secondo luogo, ha ulteriormente eccepito l’inammissibilità del ricorso, assumendo che esso eccederebbe l’ambito entro cui il Governo è legittimato ad impugnare le leggi regionali, per come emerge dall’art. 127 della Costituzione, nel testo novellato dall’art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che sarebbe applicabile – anche ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale ora citata – alle leggi della deducente, non essendo più applicabile l’art. 33, comma 2, dello statuto.
Il ricorso sarebbe, altresì, infondato nel merito.
Infatti, la disciplina delle competenze legislative regionali prevista dallo statuto ed in particolare quella di cui al citato art. 3, comma 1, pur essendo in rapporto di specialità con la Costituzione, non sarebbe rimasta indifferente alla riforma del Titolo V, nel senso che, in forza dell’art. 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, non sarebbero più opponibili alla competenza legislativa esclusiva regionale i limiti originariamente previsti dallo stesso art. 3, che non trovino più corrispondenza nel nuovo articolo 117, primo comma, della Costituzione. Poiché la competenza regionale esclusiva o residuale spettante alle Regioni ad autonomia ordinaria in base al quarto comma dello stesso art. 117 non incontrerebbe limiti nella legislazione statale, altrettanto dovrebbe valere per la competenza esclusiva della Regione Sardegna nella materia dell’ordinamento degli uffici e dello stato giuridico ed economico dei dipendenti regionali. Essa, ormai, incontrerebbe soltanto il limite (oltre che delle norme costituzionali) degli obblighi internazionali e quello dei vincoli comunitari (ex primo comma dell’art. 117), ma non più quello delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” e quello dei “principi dell’ordinamento giuridico” (che non abbiano rango costituzionale). D’altro canto, il limite dei principi fondamentali della legislazione statale concernerebbe solo la competenza legislativa concorrente.
Un’ulteriore subordinata ragione di infondatezza emergerebbe per il fatto che l’art. 3 apporterebbe una deroga ragionevole e come tale consentita dallo stesso art. 97 Cost. al principio del concorso, concernendo soggetti che hanno stabilito da lungo tempo un rapporto con l’amministrazione in base a procedure selettive, mentre l’art. 4 sarebbe oggetto di censure che impingono nel merito della scelta del legislatore regionale e non sarebbero suscettibili di sindacato.
5.- Nell’imminenza della pubblica udienza entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
5.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri replica preliminarmente all’eccezione di inammissibilità del ricorso prospettata dalla Regione con riferimento alla non deducibilità da parte dello Stato con il ricorso in via principale della violazione di qualsiasi norma costituzionale, assumendo che questa Corte avrebbe disatteso tale interpretazione del nuovo art. 127 della Costituzione nella sentenza n. 94 del 2003.
Con riguardo all’eccezione circa il venir meno del limite delle “norme fondamentali di riforme economico-sociali”, di cui all’art. 3 Cost., se ne argomenta l’infondatezza, in quanto l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 consentirebbe soltanto di <>, ma non di <>.
5.2. – A sua volta, la Regione Sardegna insiste nell’eccezione di inammissibilità del ricorso con riferimento alla deduzione di parametri costituzionali non inerenti la delimitazione della competenza legislativa regionale, in ragione della identica dignità costituzionale fra Stato e Regioni e, quindi, della pari collocazione dei rispettivi atti legislativi nel sistema delle fonti, a seguito della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione.
La memoria, quindi, insiste sul venir meno per la potestà legislativa esclusiva regionale – in forza dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – del limite delle norme di riforme economico-sociali, che non sarebbe più configurabile, in quanto la sua permanenza, in contrasto con detta norma, porrebbe la potestà legislativa regionale esclusiva (come quelle delle altre Regioni e Province a statuto speciale) in una posizione di soggezione a limiti molto più incisivi di quelli che incontrerebbe nel nuovo ordinamento costituzionale la potestà legislativa esclusiva delle Regioni a statuto ordinario.
In subordine, la Regione sostiene che, qualora si desse rilievo alla circostanza che la potestà legislativa esclusiva delle Regioni e Province a statuto speciale d’autonomia è molto più ampia di quella riconosciuta alle Regioni ordinarie dal nuovo art. 117, dovrebbe escludersi il venir meno del suddetto limite soltanto con riferimento a quelle materie di competenza legislativa esclusiva degli enti ad autonomia speciale, che non coincidono con quelle attribuite alla competenza esclusiva delle Regioni a statuto ordinario dal nuovo art. 117, quarto comma, Cost., ma non potrebbe negarsi che esso sia almeno venuto meno per quelle materie di competenza esclusiva secondo gli statuti di autonomia speciale, che, invece, coincidono con quelle ora affidate alla competenza esclusiva delle Regioni ordinarie.
Poiché la disciplina dell’ordinamento degli uffici regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale, in base al nuovo art. 117 deve considerarsi attribuita alla legislazione esclusiva delle Regioni ordinarie ex quarto comma di detta norma, sarebbe, dunque, palese – in forza di questa argomentazione interpretativa subordinata – l’insussistenza nella specie dell’operare del limite delle “norme fondamentali di riforme economico-sociale”.
Nel merito, la Regione ribadisce le argomentazioni svolte in ordine alla infondatezza delle censure mosse alla normativa impugnata, di cui analiticamente riafferma la legittimità, in considerazione (per quanto concerne l’art. 5) della sua coerenza con la legislazione statale in tema di ammortizzatori sociali e (con riferimento all’art. 4) della peculiarità della situazione fattuale alla quale il legislatore regionale ha dovuto porre rimedio.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato in via principale gli artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge regionale 13 novembre 1998, n. 31), per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, 51, primo comma, e 81 della Costituzione, nonché con le <>.
1.1. – L’art. 3 autorizza l’amministrazione e gli enti regionali ad inquadrare nei propri ruoli organici i soggetti impiegati presso di essi in lavori socialmente utili alla data di entrata in vigore della legge, e i dipendenti assunti a termine o a tempo determinato il cui rapporto a quella data sia in atto o sia stato prorogato almeno una volta (commi 1 e 2); limita tali inquadramenti ai posti risultati vacanti a conclusione delle selezioni interne previste dall’art. 2 per la copertura del 50 per cento dei posti dell’organico (comma 3); proroga fino a tale inquadramento i rapporti del personale in esame (comma 4); e prevede la copertura degli oneri finanziari (comma 5).
Secondo il ricorrente, siffatta immissione di personale nei ruoli organici si risolve in una deroga ingiustificata alla regola del concorso pubblico per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, posta dall’art. 97 della Costituzione; e viola altresì la legislazione statale in tema di addetti a lavori socialmente utili, per i quali la riserva è limitata al solo 30 per cento dei posti (art. 12, comma 4, del decreto legislativo 1 dicembre 1997, n. 468, Revisione della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell’art. 22 della legge 24 giugno 1997, n. 196).
Infine il comma 5 dell’art. 3 è censurato <>, in quanto <>.

1.2. – L’art. 4 introduce una serie di modifiche all’art. 77 della legge regionale 13 novembre 1998, n. 31 (poi modificato dalla legge n. 6 del 2000), che attribuiva ope legis la qualifica di dirigente al personale regionale avente qualifica funzionale dirigenziale in base alla legislazione previgente (comma 1); prevedeva poi l’attribuzione di tale qualifica, con decreto dell’assessore competente, ai dipendenti laureati inquadrati nel ruolo speciale apicale, con particolari requisiti di anzianità di servizio e di esercizio delle funzioni (comma 2); disponeva infine che, dopo questi inquadramenti, il 75% dei posti di dirigente ancora vacanti sarebbe stato coperto con concorsi interni per titoli ed esami (commi 5 ss.), dopo i quali sarebbero stati indetti concorsi pubblici (comma 10).
Le modifiche apportate a tali disposizioni – non impugnate dallo Stato – dalle lettere b, d ed e) dell’art. 4, oggi censurato, riguardano rispettivamente l’introduzione nell’art. 77 del comma 2-bis, secondo cui <> i dipendenti con determinati requisiti, fra i quali non ricorre la laurea; l’aumento dal 75 al 90% della quota dei posti dirigenziali, rimasti vacanti dopo gli inquadramenti, riservata al concorso interno; e l’abrogazione del comma 10 dell’art. 77, che (sia pure dopo l’espletamento delle procedure di cui ai commi precedenti) prevedeva concorsi pubblici per l’accesso alla dirigenza.
Secondo il ricorrente, questa normativa contrasta con gli artt. 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, e 51 della Costituzione, integrati da norme interposte, quali l’art. 1, comma 3, e l’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e l’art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali): questi parametri infatti – esigendo che l’accesso alla qualifica di dirigente di ruolo avvenga mediante concorso o procedura selettiva di pari serietà, aperti soltanto a soggetti muniti di laurea – non consentono che si ricorra a concorsi interni per coprire la quasi totalità delle vacanze, e che la dirigenza divenga, per il cumulo di attribuzioni ope legis e di concorsi interni, un’ulteriore prosecuzione della “progressione verticale”.
2. – La Regione resistente ha sollevato talune eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso.
2.1. – La prima di esse pone il problema se – nell’assetto derivato dalla riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – lo Stato, impugnando in via principale una legge regionale, possa dedurre come parametro violato qualsiasi norma costituzionale, ovvero solo quelle concernenti il riparto delle competenze legislative.
Il problema è prospettato in quanto il ricorso dello Stato denuncia la violazione non solo dell’art. 3 dello statuto della Regione Sardegna, relativo ai limiti della potestà legislativa regionale, ma anche degli artt. 3, 51, 81 e 97 della Costituzione, che non riguardano direttamente tali limiti.
Prima della ricordata riforma costituzionale, questa Corte, a partire dalla sentenza n. 30 del 1959, aveva ritenuto che lo Stato, a differenza delle Regioni, fosse legittimato ad evocare qualsiasi parametro costituzionale, pur se non direttamente relativo a delimitazioni di competenze.
Questo orientamento si riconduceva alla differenza tra il testo (originario) dell’art. 127 della Costituzione e quello dell’art. 2, comma 1, della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale). Infatti il primo – prevedendo il ricorso dello Stato contro la legge della regione che “ecceda la competenza” regionale – consentiva di ravvisare tale <> nel contrasto della legge impugnata con qualsiasi principio costituzionale. Invece il secondo – relativo al ricorso della Regione contro la legge dello Stato o di altra Regione che “invada la sfera di competenza” della ricorrente – induceva a ritenere che potesse essere dedotta solo la violazione di parametri (costituzionali e interposti) incidenti, direttamente o indirettamente, sul riparto delle competenze. Era evidente l’asimmetria fra i parametri rispettivamente deducibili.
Nel nuovo testo dell’art. 127 della Costituzione, il primo comma continua a prevedere l’impugnazione da parte del Governo della legge regionale che “ecceda la competenza” della Regione. Il secondo comma invece concerne l’impugnazione, da parte della Regione, della legge dello Stato (o di altra Regione) che “leda la sua [cioè della Regione ricorrente] sfera di competenza”, così conservando la diversità rispetto alla disciplina del ricorso dello Stato, con una formulazione sostanzialmente simile a quella dell’art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1948.
Certamente il mero dato testuale – già richiamato dalla Corte nella sentenza n. 94 del 2003 – non è decisivo ai fini della soluzione del problema, ben potendo una norma conservare nel tempo la formulazione originaria e tuttavia consentire una diversa interpretazione in ragione del successivo mutamento del contesto nel quale essa sia inserita.
E proprio sul piano sistematico si è talora rilevato come l’insieme delle modifiche apportate dalla riforma costituzionale del 2001 al quadro complessivo dei rapporti fra Stato e Regioni porti ad escludere la persistenza della ricordata asimmetria. In questa prospettiva sono apparsi particolarmente rilevanti l’art. 114, che pone sullo stesso piano lo Stato e le Regioni, come entità costitutive della Repubblica, accanto ai Comuni, alle Città metropolitane e alle Province; l’art. 117, che ribalta il criterio prima accolto, elencando specificamente le competenze legislative dello Stato e fissando una clausola residuale in favore delle Regioni; e infine l’art. 127, che configura il ricorso del Governo contro le leggi regionali come successivo, e non più preventivo.
Ma – ai fini di individuare il contenuto di tale ricorso governativo – è decisivo rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell’esigenza di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso (art. 120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento.
Lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa.
In conclusione, pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale.

2.2. – La Regione Sardegna ha eccepito poi l’inammissibilità del ricorso sotto il profilo che esso non precisa in relazione a quale parte dell’art. 3 dello statuto la legge impugnata abbia ecceduto dai limiti della potestà legislativa regionale e, in particolare, se abbia violato <>.
L’eccezione non è fondata, perché – malgrado una certa genericità delle censure – da esse si ricava comunque la denuncia del mancato rispetto di norme assunte come rientranti nell’indicata categoria.
Infatti, l’invocazione degli altri limiti di cui all’art. 3 dello statuto non sarebbe comprensibile, in ragione della loro estraneità rispetto all’oggetto della normativa impugnata, e d’altro canto – a proposito della questione relativa all’accesso alla dirigenza di cui all’art. 4 – il ricorso evoca l’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 29 del 1993, il quale a sua volta richiama testi da cui sono desumibili principi fondamentali di riforme economico-sociali.
2.3. – Anche le altre eccezioni di inammissibilità proposte dalla Regione sono infondate.
Quanto al rilievo che lo Stato avrebbe genericamente qualificato <> quelle assunte come violate, è decisivo che – spettando a questa Corte valutare la fondatezza di tale qualificazione – l’eventuale difetto di motivazione del ricorso sul punto non preclude l’esame del merito della censura.
Quanto poi alla mancata considerazione da parte del ricorrente della già intervenuta abrogazione, all’atto della proposizione del ricorso, di alcune fra le norme evocate come interposte a proposito dell’impugnato art. 4, la Regione non considera che il loro contenuto risulta in sostanza trasferito in altre disposizioni, pur se non sempre del tutto coincidenti e talora modificate dalla legislazione successiva. Infatti il contenuto degli artt. 1 e 28 del decreto legislativo n. 29 del 1993 – abrogati dall’art. 72 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – è stato trasfuso negli artt. 1 e 28 di tale decreto; e il contenuto dell’art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) – abrogato dall’art. 274, lett. q), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – è stato trasfuso negli artt. 107 ss. del decreto stesso.
3. – Passando all’esame delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 3 della legge sarda n. 11 del 2002, la censura di violazione dell’art. 81 della Costituzione (prospettata in relazione al comma 5 della norma impugnata) è inammissibile per assoluta genericità. La motivazione sulla non manifesta infondatezza si riduce infatti all’apodittico richiamo all’opportunità di verificare la previsione di spesa, in riferimento al <>.
3.1. – Le altre questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 3 della legge regionale non sono fondate.
3.2. – Con riferimento alla censura di violazione dell’art. 3 dello statuto sardo, la Regione ritiene che la recente riforma costituzionale abbia fatto venir meno – relativamente alle aree di potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province) autonome coincidenti con aree ora attribuite alla potestà legislativa esclusiva (<>) delle Regioni ordinarie – il limite costituito dall’obbligo (ove previsto dai relativi statuti, come appunto quello sardo) di rispettare le norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.
La tesi è fondata.
Infatti, se – in riferimento alle citate aree – il vincolo di quel limite permanesse pur nel nuovo assetto costituzionale, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province) autonome sarebbe irragionevolmente ristretta entro confini più angusti di quelli che oggi incontra la potestà legislativa <> delle Regioni ordinarie.
Per esse infatti – nelle materie di cui al quarto comma del nuovo art. 117 della Costituzione – valgono soltanto i limiti di cui al primo comma dello stesso articolo (e, se del caso, quelli indirettamente derivanti dall’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in <> suscettibili, per la loro configurazione, di interferire su quelle in esame), onde devono escludersi ulteriori limiti derivanti da leggi statali già qualificabili come norme fondamentali di riforma economico-sociale.
Pertanto – ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – la particolare <> così emergente dal nuovo art. 117 della Costituzione in favore delle Regioni ordinarie si applica anche alle Regioni a statuto speciale, come la Sardegna, ed alle Province autonome, in quanto <> rispetto a quelle previste dai rispettivi statuti.
Da questa ricostruzione (pienamente conforme al criterio interpretativo enunciato dalla sentenza n. 103 del 2003) discende che – essendo la materia dello stato giuridico ed economico del personale della Regione Sardegna, e degli enti regionali, riservata dall’art. 3, lett. a), dello statuto alla legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art. 117 – la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme economico-sociali, non può essere accolta.
3.3. – L’art. 3 della legge regionale in esame non lede nemmeno gli artt. 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione.
La giurisprudenza di questa Corte ritiene che alla regola del pubblico concorso – quale metodo che, per l’accesso alla pubblica amministrazione, offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci, in funzione dell’efficienza della stessa amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione) – sia possibile apportare deroghe (come del resto ammette il terzo comma dell’art. 97) qualora ricorrano particolari situazioni che le rendano non irragionevoli (da ultimo, ordinanza n. 517 del 2002).
Ai fini di una valutazione di non irragionevolezza della disciplina in esame è rilevante considerare come essa riguardi l’inserimento in posti di ruolo di soggetti i quali si trovavano da tempo, nell’ambito dell’amministrazione regionale (o degli enti regionali), in una posizione di precarietà, perché assunti con contratto a termine o con la particolare qualificazione connessa alla figura degli addetti a lavori socialmente utili; e quindi verosimilmente avevano, nella precarietà, acquisito l’esperienza necessaria a far ritenere la stabilizzazione della loro posizione funzionale alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione).
In questo senso è significativo che, in base al comma 3 dell’impugnato art. 3, all’inquadramento nei ruoli consegua la stabilizzazione in posizioni corrispondenti al profilo delle prestazioni espletate in via precaria.
D’altronde plurimi indici normativi mostrano come anche il legislatore statale abbia ritenuto siffatta stabilizzazione meritevole di considerazione: l’art. 78, comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2001), modificato da ultimo dall’art. 50 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2002), ha previsto, per gli anni 2001-2003, l’assunzione da parte delle Regioni di addetti a lavori socialmente utili; e ancor prima l’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 28 febbraio 2000, n. 81 (Integrazioni e modifiche della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell’art. 45, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144), aveva stabilito che le Regioni, per agevolare la stabilizzazione di questi soggetti, <>.
4. – L’art. 4 della legge regionale – concernente l’accesso alla dirigenza nell’amministrazione della Regione (e degli enti regionali) – viola l’art. 97, primo e terzo comma, della Costituzione.
La norma ha notevolmente ampliato la deroga al principio del concorso pubblico già introdotta dall’art. 77 della legge n. 31 del 1998 (retro, n. 1.2.), introducendo in tale articolo il comma 2-bis, che, in presenza di taluni requisiti, attribuisce il <> anche al personale apicale non laureato (art. 4, lett. b); aumentando dal 75 al 90 per cento la percentuale dei posti rimasti vacanti riservati al concorso interno (art. 4, lett. d); ed eliminando del tutto la previsione del concorso pubblico per la copertura della pur minima quota residua di posti (art. 4, lett. e).
Questa Corte ha spesso affermato (da ultimo, sentenza n. 218 del 2002) che l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se particolari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza; ed ha precisato che, di regola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione del parametro evocato – a proposito di norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti (da ultimo, sentenza n. 373 del 2002).
Siffatta violazione ricorre nella specie, in quanto la normativa censurata introduce per l’accesso alla qualifica dirigenziale dell’amministrazione regionale (e degli enti regionali) una disciplina che – per l’effetto congiunto dell’attribuzione di tale qualifica senza concorso, dei concorsi riservati, e dell’abrogazione della previsione legislativa di concorsi pubblici per i posti dirigenziali residui – comporta una deroga ingiustificata all’art. 97 della Costituzione.
Gli altri profili di censura restano assorbiti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge regionale 13 novembre 1998, n. 31), sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 81 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché all’art. 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, lettere b), d) ed e), della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2003.

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2003.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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