Cassazione civile anno 2005 n. 1696 Sanzione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 23 febbraio 1996, T. C. propose opposizione avverso l’ordinanza, emessa il precedente 17 gennaio dal Presidente della Provincia di Como, con la quale gli era stato ingiunto di pagare, a titolo di sanzione amministrativa, la somma di lire 54.756.000 per avere, in violazione degli artt. 8 e 55 del regolamento regionale n. 1 del 1993, mutato la destinazione di parte dei mappali 353 e 354 in località Baraggia/Rosorseè destinati a bosco (in quanto popolati da essenze di robinia dell’età di 15 anni), depositandovi, senza la prescritta autorizzazione, materiale proveniente da scavi. Eccepì il mancato accertamento in fatto della violazione, l’insussistenza dei presupposti per la configurabilità di un bosco, il difetto di motivazione, nonchè l’illegittimita della sanzione irrogata per violazione del principio di legalità previsto dall’art. 1 della legge n. 689/1981.
L’Amministrazione Provinciale di Como si costituì in giudizio, chiedendo il rigetto dell’opposizione.
Espletata l’istruttoria, l’adito giudice, in parziale accoglimento della proposta opposizione, ridusse a lire 40.000.000 la sanzione amministrativa inflitta. Disattese l’eccezione di violazione del principio di legalità, da intendersi in senso materiale e non formale, in quanto le sanzioni previste dal regolamento regionale, e applicate nella specie, furono stabilite in forza di espresso rinvio dell’art. 27 della legge regionale n. 8 del 5 aprile 1976, cose sostituito dall’art. 21 della legge regionale 22 dicembre 1989 n. 80, con riferimento alle infrazioni delle norme contenute nella predetta legge ovvero nelle prescrizioni di massima e di polizia forestale emanate dalla Regione Lombardia.
Ritenne, nel merito, provata la contestazione mossa a carico del ricorrente del corpo forestale dello Stato, ovverosia il taglio delle essenze arboree esistenti nell’area alla data dell’accertamento e la distruzione delle ceppaie mediante copertura con materiale terroso di riporto, valorizzando al riguardo: il processo verbale di accertamento e trasgressione; le deposizioni dei verbalizzanti e del tecnico comunale di Bregnano, non contraddette da quelle dei testi addotti dal ricorrente; la richiesta, da quest’ultimo inoltrata all’Amministrazione provinciale di Como in data 18 aprile 1995, di autorizzazione in sanatoria per opere di sistemazione idraulico- forestale eseguite sui mappali in questione; il particolare per cui l’area disboscata si poneva in continuità con un complesso boschivo ben più ampio, assumendone così pienamente la natura in forza del disposto dell’art. 1 ter della legge regionale 5 aprile 1976 n. 8, come integrata dall’art. 3 della legge regionale 22 dicembre 1989 n. 80. Reputò il danno cagionato al territorio e la corrispondente sanzione correttamente determinati anche a norma dell’art. 42 dal R.D. n. 1126 del 1926, che prevede il ricorso al criterio presuntivo quando, come nel caso in esame, le ceppale delle piante abusivamente abbattute siano state distrutte e non A più possibile procedere alla valutazione del danno effettivamente arrecato. Tuttavia, proprio in considerazione del fatto che alcuni elementi utilizzati per il calcolo della sanzione ingiunta (numero ceppaie distrutta, quantità materiale legnoso tagliato) erano stati, sia pur legittimamente, determinati in via presuntiva, appariva equo ridurre la sanzione medesima, come richiesto in via subordinata dall’opponente.
Avverso la sopra compendiata sentenza il C. ha proposto ricorso per Cassazione sostenuto da due motivi, in seguito illustrati con memoria.
L’Amministrazione della Provincia di Como non svolge attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denunzia omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, violazione dell’allegato B del regolamento regionale n. 1/1993 e dell’art. 1 ter legge regionale n. 8 del 1976. Rileva che la contestata violazione e la conseguente irrogazione della sanzione implicavano l’accertamento in fatto della sussistenza di un bosco così come definito e descritto dall’allegato B citato nonchè del numero, della natura e delle caratteristiche peculiari delle piante asseritamente distrutte.
Al contrario, nella specie, l’esistenza di un bosco successivamente rimosso era stata semplicemente presunta dai verbalizzanti, non avendo essi rinvenuto alcuna traccia di preesistente popolamento arboreo sul fondo, da tempo peraltro destinato a uso agricolo come riferito da un teste, la cui deposizione non era stata valutata appieno dal giudice, analogamente, i danni pretesamente arrecati al patrimonio arboreo erano stati calcolati in via meramente presuntiva, con richiamo al disposto dell’art. 42 R.D. 16 maggio 1926 n. 1126.
Il motivo prospetta una doglianza al contempo infondata e inammissibile e va quindi disatteso.
Invero, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, il giudice di merito ha motivato il convincimento circa la preesistenza di un’area destinata a bosco con tutte le caratteristiche di legge nella parte dei mappali interessata dall’intervento del C., radendo riferimento non solo ai verbali di trasgressione e di sopralluogo – redatti, rispettivamente, dal Comandante del Corpo forestale e dal tecnico comunale di Bregnano – e alle testimonianze dei verbalizzanti personalmente a conoscenza dell’area in parola avendola più volte sottoposta a controlli durante l’espletamento dell’ordinarlo servizio, ma anche e soprattutto alla richiesta di autorizzazione in sanatoria per opere di sistemazione idraulico-forestale inoltrata all’Amministrazione provinciale di Como in data 16 aprile 1995 dal C., il quale, tra l’altro, espose che "la superficie (era) stata interessata da riporti parziali di terra di scolturamento, depositata su un pendio parzialmente erborato con ceduo di robinia, esteso su un’area di m. 2800 circa". Ha soggiunto il giudice a quo che, essendo contigua a un complesso boschivo ben più ampio, l’area disboscata ne assumeva la natura in forza del disposto di cui all’art. 1 ter della legge regionale 5 aprile 1976, come integrata dall’art. 3 della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 80. Inoltre il Pretore ha osservato che la natura boschiva dell’area all’epoca delle violazioni contestate non era esclusa dalle deposizioni dei due testi addotti dal ricorrente; l’uno, nel riferire che l’area in discorso era prevalentemente destinata a uso agricolo, aveva infatti precisato che negli ultimi anni la coltivazione era stata trascurata con conseguente espansione della parte a robinia; l’altro teste aveva affermato che al 4 luglio 1981 l’area era priva di copertura boschiva, e tale circostanza era compatibile con l’accertamento, effettuato nel 1995, della destinazione, illegittimamente mutata, dell’area medesima a bosco, in quanto popolata da essenze di robinia dell’età di quindici anni circa.
Ma a prescindere da ciò la doglianza impinge, all’evidenza, in un accertamento di fatto istituzionalmente demandato al giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità in quanto ampiamente e logicamente motivato. Per vero, la valutazione delle risultanze delle prove come la scelta, tra le stesse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Consegue che il controllo di legittimità da parte della Corte di Cassazione non può riguardare la rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la congruenza delle ragioni addotte dal giudice di merito per giustificare il convincimento trattone.
Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 e difetto di motivazione, in quanto comminata e quantificata in base agli artt. 8 e 55 del regolamento della regione Lombardia, la sanzione sarebbe illegittima per violazione della norma sopra indicata, la quale ha recepito, per la sanzioni amministrative, il principio di legalità, ponendo una riserva di legge analoga a quella di cui all’art. 25 Cost., e impedisce che tali sanzioni possano essere comminata da disposizioni contenuta in fonti normative subordinate, quali il regolamento regionale, con conseguente obbligo di disapplicazione da parte del giudice.
L’interpretazione adottata dal Pretore non è conforme al principio generale di determinatezza, corollario del principio di legalità, il quale prevede che la sanzione debba essere determinata o determinabile in modo da consentire al cittadino di poterne desumere facilmente l’entità della norma.
La censura è fondata.
Al riguardo si osserva, anzitutto, che la Corte Costituzionale ha fermamente escluso la riferibilità della riserva di legge, prevista dall’art. 25, comma secondo, della Costituzione per le sanzioni penali, alle sanzioni amministrative (pur se con quelle possono presentare una qualche affinità), le quali non si pongono come strumento di difesa dei valori essenziali del sistema, come tali non misurabili sul terreno della convenienza economica, ma vengono a costituire un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’amministrazione, ed ha affermato (o presupposto più o meno esplicitamente in numerose decisioni) che il parametro riferibile alle sanzioni amministrative – depenalizzate o no – è costituito dal principio della riserva di legge relativa stabilito dall’art. 23 Cost. (oltre che dal principio di imparzialità della P.A. di cui all’art. 97, che qui non viene in rilievo), all’uopo essa ha indicato i limiti e le garanzie sufficienti a far ritenere rispettato il principio suddetto, precisando che la prestazione obbligatoria autoritativomente imposta debba avere "base" in una legge e che la legge stessa stabilisca i criteri idonei a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla Pubblica Amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione ed inoltre, al fine di escludere che la discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, che la legge determini direttamente l’oggetto della prestazione stessa ed i criteri per quantificarla (cfr. Corte Cost. sentt. nn. 65/1962, 56/1972, 67/1973, 29/1979, 257/1982, 68/1984, 34/1986, 290/1987, 420/1987, 127/1988, 447/1988, 250/1992, 150/2002).
Sulla base delle considerazioni formulate dal giudice delle leggi, questa Corte ha più volte ribadito che una interpretazione estensiva dell’art. 25 Cost. risulta incompatibile sia con la collocazione sistematica della norma, inserita fra una serie di principi squisitamente penalistici, sia con la sua derivazione storica del principio nullum crimen sine lege; ed oblitera il collegamento fra lo stesso art. 25, comma 2, e l’art. 13 Cost., che rande palesa il riferimento alla libertà personale come ratio delle sottese garanzie (Cass. 9633/1990, 1113/1995, 12367/1999). Ha rilevato, altresì, questa Corte che con l’art. 1, comma 1, della legge n. 689 del 1981 il legislatore ha introdotto per le sanzioni amministrative una riserva di legge analoga a quella posta dall’art. 25 Cost. ("nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge"), impedendo che detta sanzioni possano essere comminate direttamente da disposizioni contenute in fonti normative subordinate, quali i regolamenti, ma non anche che una norma successiva di pari rango legislativo possa prevedere in via generale o per singoli settori l’introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie; sicchè il citato art. 1, primo comma, della legge n. 689/1981, pur irrigidendo la riserva per le sanzioni amministrative, non esclude che precetti sufficientemente individuati dalla norma primaria siano eterointegrati da norme regolamentari delegate che, in virtù del peculiare tecnicismo della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare, li rendano meglio aderenti alla multiforme realtà socioeconomica (Cass. nn. 1061/1996, 2937/1998, 2138/1999, 3351/1999, 4634/1999, 8986/1999, 12367/1999, 17602/2003, 5743/2004).
La riserva di legge resta quindi assoluta e totale solo per quanto attiene alla determinazione della sanzione, esigendo che la stessa sia comminata direttamente dalla legge senza alcuna integrazione o specificazione da parte di autorità amministrative, consentendo il rinvio (Corte Cost. n. 48/1961) "a provvedimenti amministrativi della determinazione di elementi o di presupposti della prestazione che siano espressione di discrezionalità tecnica, purchè risulT. assicurate le garanzie atta ad escludere che la discrezionalità si trasformi in arbitrio", al pari, del resto, di quanto si verifica nel diritto penale, allorquando sia prevista con reato l’inosservanza di un provvedimento legittimamente dato dall’autorità amministrativa in determinate materie (cfr. art. 650 c.p.; art. 24 della legge n. 185 del 1990 sulla disciplina delle armi; D.lgs. n. 490 del 1999 sulla tutela delle opere d’arte).
In altre parole, la riserva di legge prevista dell’art. 1 della legge n. 689/1981, mentre consente la integrazione meramente tecnica del precetto da parte di fonti non legislative, esige che la sanzione sia comminata direttamente dalla legge. La riserva di legge è cioè assoluta e totale per quanto attiene alla determinazione della sanzione, non consentendo che questa ultima riceva alcuna integrazione o specificazione da parte di autorità amministrative.
L’intervento complementare ed integrativo da parte della pubblica amministrazione deve rimanere circoscritto alla specificazione quantitativa (e qualche volta, anche qualitativa) della sanzione. La previsione legislativa – considerata nella complessiva disciplina della materia – deve, dunque, contenere criteri razionali, adeguati e puntuali per la concreta individuazione della sanzione, senza che residui la possibilità di scelte del tutto libere, e perciò eventualmente arbitrarie, della pubblica amministrazione.
Rispetto alla legislazione regionale, e stato correttamente osservato che l’operatività della riserva di legge fissata dall’art. 1 sia piena, infatti, alla disposizione dettata dall’art. 1 (così come per altri dei principi delineati nella Sezione 1^ della legge n. 689/1981) deve essere riconosciuto il carattere di "principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato", vincolanti per l’esercizio della potestà legislativa regionale ai sensi dell’art. 117 Cost. Anzi, per quanto sin qui esposto, si deve riconoscere alla disposizione dettata dall’art. 1 il rango di "principio generale dell’ordinamento", con la conseguenza che ad essa devono attenersi anche le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, nell’esercizio di potestà legislative primarie. L’art. 1 della legge n. 689/1981 incide pertanto sulla potestà legislativa regionale negli stessi termini in cui l’art. 25 comma 2^ Cost. vincola il legislatore statale (in materia penale). In diversi termini, quanto detto a proposito della riserva di legge è applicabile anche in riferimento alle sanzioni previste dalle leggi regionali, dato che al legislatore regionale, nelle materie di propria competenza, spetta definire e sanzionare gli illeciti amministrativi, nell’osservanza dei principi fondamentali stabiliti dalla legge statale (Corte Cost. n. 350 del 1991; successivamente, nel senso che il riparto di competenze tra Stato e Regioni ricalca quello nella materia cui le sanzioni si riferiscono, Corte cost. n. 115 del 1995 e n. 28 del 1996).
Solo con legge formale, dunque, le Regioni potranno delineare fattispecie sanzionatole e fissare le relative pene amministrative.
Lo spazio lasciato ai regolamenti deve essere circoscritto entro i limiti derivanti dalla riserva "tendenzialmente assoluta" di legge:
sia rispetto alla normativa regionale precedente alla legge n. 689/1981, sia rispetto alla normativa regionale successiva, le disposizioni regolamentari dovranno limitarsi ad enunciazioni di carattere tecnico, o comunque tali da non incidere sulla individuazione del disvalore del fatto e tanto meno sulla determinazione della sanzione.
Restano così abrogate (ex art. 10, comma 1^, della legge 10 febbraio 1953, n. 62) – e non potranno essere riproposte in futuro – le disposizioni regionali che demandano a norme regolamentari il compito di definire gli ambiti della fattispecie sanzionata, ovvero di specificare, rispetto a categorie di fattispecie illecite, la misura della sanzione da irrogare.
Al suddetto principio di legalità non si è uniformata la legge della regione Lombardia 5 aprile 1976, n. 8, così come modificata e integrata dalla legge regionale 22 dicembre 1989 n. 80. Essa, infatti, (vedi art. 27 commi primo e quarto) stabilisce, al primo comma, che "salvo quanto disposto dal successivo quarto comma, per le violazioni delle norme contenute nella presente legge e per le violazioni delle disposizioni contenute nei regolamenti di cui all’art. 10 del r.d. 5 dicembre 1923 n. 3267 ovvero nelle prescrizioni di massima e di polizia forestale emanate dalla Regione, si applicherà la sanzione di una somma compresa tra il minimo di lire 50.000 e un massimo di lire 500.000, nonchè quella proporzionale all’eventuale danno cagionato al territorio ed al patrimonio boschivo come determinato a norma delle prescrizioni stesse"; e, al quarto, che "Per le violazioni, accertate dagli agenti forestali nonchè dagli organi locali di polizia urbana e rurale, del disposto del precedente art. 25", che assoggetta all’autorizzazione di cui all’art. 7 r.d. citato qualsiasi attività comportante un mutamento di destinazione ovvero trasformazione nell’uso dei boschi, " si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da lire 150.000 a lire 20.000.000; successivamente all’entrata in vigore delle prescrizioni di massima e di polizia forestale di cui al precedente primo comma si applicherà una sanzione amministrativa proporzionale al danno cagionato al territorio così come determinato a norma di dette prescrizioni". Tali prescrizioni di massima e di polizia forestale sono state introdotte dalla Regione Lombardia con il regolamento regionale 23 febbraio 1993 n. 1, ove all’art. 8, comma secondo, per ogni pianta o ceppala sradicata in violazione al comma precedente (che vieta lo sradicamento delle piante e l’estrazione delle ceppale nelle aree boschive, salvo specifica autorizzazione) è prevista "una sanzione amministrativa da lire 50.000 a lire 75.000" e all’art. 55, per le attività, non previamente autorizzate, comportanti il mutamento permanente nell’uso del suolo dei terreni soggetti a vincolo idrogeologico e dei boschi, stabilisce "la sanzione amministrativa da lire 150.000 a lire 300.000 per ogni mq. o frazione, e la sanzione amministrativa da lire 50.000 a lire 100.000 per ogni metro cubo di terreno movimentato o scavato".
La legge regionale prevede, per le violazioni alla norme in essa contenute, oltre a sanzioni graduate fra un minimo e un massimo, un modello di sanzione "proporzionale all’eventuale danno cagionato al territorio ed al patrimonio boschivo", che non configura in termini sufficientemente definiti, demandandone la determinazione alle prescrizioni di massima e di polizia forestale introdotte successivamente con norma regolamentare. La previsione di una futura quantificazione della sanzione amministrativa proporzionale al danno cagionato al territorio, in assenza di qualsiasi parametro per la sua determinazione e in particolare per la individuazione del relativo metodo di calcolo, non assurge di certo a definizione di un criterio predeterminato ed esaustivo e concreta una violazione del principio di riserva di legge. Il tenore della legge regionale, quindi, è nel senso di prevedere un’integrazione sublegislativa di contenuti caratterizzanti la potestà sanzionatola amministrativa. In violazione del principio dell’art. 1, legge n. 689 del 1981, la legge ha sostanzialmente delegato a fonte subordinata, il regolamento ragionale, il compito di determinare in concreto la sanzione amministrativa nella materia della tutela del patrimonio boschivo e di individuare i parametri per il calcolo proporzionale (al mq. – al mtc. Ecc.), senza fissare il minimo ed il massimo entro cui la sanzione avrebbe dovuto essere stabilita e senza indicare i eri tari e i parametri da seguire a tal fine. Essa è qualificabile come norma punitiva in bianco, e comporta delega all’autorità amministrativa per determinare la misura della sanziona.
La sentenza impugnata ha violato detto principio nella parte in cui ha ritenuto legittimi gli artt. 8 e 55 del regolamento n. 1/1993 della regione lombarda che, fissando direttamente sanzioni amministrative per la violazione alle norme dello stesso regolamento, si pongono in contrasto con l’art. 1 della legge n. 689/1981 e vanno, perciò, disapplicate ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E. Di conseguenza, la sentenza impugnata va cassata nella parte in cui ha ritenuto legittime le predette norme sanzionatorie del regolamento n. 1/1993.
Poichè, peraltro, sono rimaste accertate in fatto le contestate violazioni alla legge regionale n. 8 del 1976, che nella parte precettiva la disposizione secondaria si limita ad integrare mediante una mera specificazione del contenuto degli elementi della fattispecie delineati dalla fonte primaria, e poichè tali violazioni sono sanzionate in misura graduata fra un minimo e un massimo, rispettivamente, dai Gommi primo e quarto dell’art. 27 della medesima legge, il giudice di rinvio esaminerà nuovamente l’ordinanza- ingiunzione emessa nei confronti del C. e applicherà la sanzione prevista dal menzionato art. 27, ossia da disposizione diversa da quella alla quale si è riferita la sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso va accolto e la causa va rinviata al Tribunale di Como, divenuto nelle more competente ai sensi dell’art. 132 del D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, che si pronunzierà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P. Q. M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Como.
Così deciso in Roma il 1 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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