Cass. civ. Sez. lavoro, 22-08-2006, n. 18271 Contratto a termine

POSTE E TELEGRAFI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con separate sentenze il Tribunale di Milano dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati fra i lavoratori indicati in epigrafe da una parte e le P. I. s.p.a. dall’altra.
Avverso le suddette sentenze proponevano appello le Poste Italiane s.p.a. deducendo la legittimità dell’apposizione del termine ai contratti de quibus.
Disposta la riunione dei giudizi, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza depositata in data 2 marzo 2004, affermava, con riferimento ai contratti stipulati per la sostituzione di lavoratori in ferie, l’illegittimità del termine in quanto le Poste, sulle quali gravava il relativo onere, non avevano fornito la prova che il numero dei dipendenti in ferie corrispondeva a quello dei lavoratori assunti a termine con la suddetta causale.
Confermava per gli altri lavoratori l’illegittimità dei termini apposti in applicazione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997. Con riferimento a quest’ultimo profilo la Corte Territoriale premetteva che la fattispecie riguardava i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati a norma della L. 28 febbraio 1987 n. 56, art. 23, che attribuisce alla contrattazione collettiva la possibilità di definire nuove ipotesi di legittima apposizione del termine rispetto a quelle previste dalla legge, e che i contratti de quibus erano stati stipulati ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. del settore integrato dal citato accordo integrativo 25 settembre 1997 che aveva consentito l’assunzione a termine per esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo completo equilibrio sul territorio delle risorse umane. Ad avviso della Corte di merito il ricorso ai contratti a termine ai sensi della suddetta clausola collettiva poteva avere solo carattere temporaneo e non poteva diventare un obiettivo permanente per far fronte a problemi ricorrenti di un’azienda. Nella specie era consentita la stipulazione di contratti a termine solo fino al 30 aprile 1998, avendo le stesse parti valutato l’eccezionaiità della situazione nel suo concreto sviluppo ed avendo stipulato in proposito i c.d. accordi attuativi.
Doveva pertanto escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 non potendosi attribuire alcun valore alla circostanza che successivamente era stato siglato altro accordo in data 18 gennaio 2001.
Con riferimento al lavoratore S., assunto ai sensi dell’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, osservava che la nuova disposizione, anche se formulata in maniera diversa, aveva gli stessi limiti applicativi riscontrati nell’art. 8 prima citato. Anche in tale ipotesi riteneva pertanto l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro.
Per quanto concerne le conseguenze patrimoniali derivanti dalla declaratoria di illegittimità del termine affermava che l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni decorreva, per i lavoratori B. e S., dalla data di costituzione in mora avvenuta con la comunicazione della richiesta di conciliazione, salvi i periodi di successiva occupazione.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la P I s.p.a. affidato a sei motivi. Resistono con controricorso illustrato da memoria i lavoratori.

Motivi della decisione
Dopo aver premesso che nell’attuale momento non è più lecito considerare il contratto a termine come eccezione rispetto al contratto a tempo indeterminato, e dopo aver sottolineato la complessità del procedimento di privatizzazione delle Poste, col primo motivo la società ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia nella parte in cui la sentenza, da una parte, sembra riconoscere validità all’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 mentre, dall’altra, nega la validità della suddetta norma contrattuale subordinandola all’esistenza di un limite temporale di efficacia della norma stessa concordato dalle parti sociali. In sostanza, secondo la sentenza impugnata, la sussistenza di un piano di ristrutturazione e di trasformazione aziendale di lungo periodo (inevitabilmente indeterminato nella sua effettiva durata temporale) non può costituire di per sè una legittima causale per i contratti a termine ancorchè la contrattazione collettiva lo abbia espressamente qualificato come tale; e ciò a meno che le parti collettive non prevedano ex ante la durata del processo di ristrutturazione il quale però, per definizione, ha tempi necessariamente lunghi e dunque non prevedibili a priori.
Analogo vizio di contraddittorietà di motivazione deve rinvenirsi, ad avviso della società ricorrente, per quanto riguarda la statuizione della Corte di merito concernente l’ipotesi di assunzione a termine per sostituzione di personale in ferie. Osserva in proposito che la sentenza impugnata ha posto a carico del datore di lavoro un onere probatorio che non è previsto dalle norme collettive che regolano la fattispecie.
Col secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, nella parte in cui la sentenza ha affermato che sussistono limiti sostanziali imposti alla contrattazione collettiva e verificabili dal Giudice in materia di contratti a termine e che, in conseguenza di tali limiti, le parti sociali non possono individuare liberamente le ipotesi di legittima apponibilità del termine finale ai contratti di lavoro subordinato. Deduce in particolare che la L. n. 56 del 1987, art. 23, ha affidato alla contrattazione collettiva il compito di introdurre nuove ed ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato imponendo come unico limite all’autonomia collettiva l’individuazione di una quota di lavoro temporaneo negli organici aziendali (c.d. quota di contingentamento).
Nello stesso motivo la ricorrente censura inoltre l’interpretazione data dalla Corte di merito all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001 deducendo che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, tale norma collettiva non richiede, ai fini della legittimità dell’assunzione a termine, la prova che il lavoratore assunto abbia svolto mansioni particolari.
Sempre nello stesso motivo la società ricorrente ribadisce la censura relativa alla statuizione l’ipotesi di assunzione a termine per sostituzione di personale in ferie deducendo che la ragione per cui la norma contrattuale che disciplina tale tipo di assunzione non richiede alcun onere probatorio è data dal fatto che la diminuzione di personale nel periodo feriale costituisce circostanza assolutamente nota.
Col terzo motivo la società ricorrente denuncia ulteriore vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata, sul presupposto del carattere eccezionale della disciplina del contratto a termine e della necessità della sussistenza di un elemento temporale nella normativa fissata dall’autonomia collettiva, ha reperito tale elemento temporale in alcuni verbali sindacali di dubbio significato 1 quali, nel dare atto della persistenza delle esigenze che, ai sensi del contratto collettivo, legittimavano il ricorso alle assunzioni a termine, avevano indicato (riferendosi una volta al marzo e un’altra volta all’aprile 1998) il periodo entro il quale era possibile procedere alle dette assunzioni. Osserva in particolare che i suddetti verbali non avevano dignità di contratto collettivo e non potevano derogare alla norma collettiva che, nel fissare la nuova ipotesi giustificatrice dell’apposizione del termine, non aveva stabilito alcun termine di durata. Sottolinea che ancora nel maggio del 1999 le organizzazioni sindacali avevano convenuto sul perdurare delle esigenze di ristrutturazione e rimodulazione e che nel verbale di riunione del 18 gennaio 2001 le parti sociali avevano fornito un’interpretazione autentica dell’accordo del 25 settembre 1997 ribadendo che lo stesso non era mai scaduto ed era pertanto tuttora in vigore.
Col quarto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ., comma 2, nonchè vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia nella parte in cui non ha accolto, con riferimento alla domanda della lavoratrice D.P.A., secondo la quale, anche a voler ammettere l’illegittimità dell’apposizione del termine, il rapporto si era comunque risolto ai sensi dell’art. 1372 cod. civ.. La soluzione accolta dalla Corte di merito sarebbe basata, secondo la ricorrente da errata interpretazione della norma suddetta e comunque non sarebbe sufficientemente motivata. Sottolinea che la lavoratrice era rimasta inerte dopo il recesso per oltre due anni dimostrando così evidente disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro. La stessa aveva inoltre, prestato attività lavorativa a favore di altri datori di lavoro.
Col quinto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 2, nonchè vizio di motivazione, deducendo che la sentenza impugnata non si è pronunciata sul problema delle proroghe dei contratti a termine.
Sostiene che tali proroghe sono state disposte per fatti accidentali ed imprevedibili derivanti da circostanze estranee alla volontà di Poste Italiane.
Col sesto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2099 e 2697 cod. civ., della L. n. 230 del 1962, art. 1, nonchè vizio di motivazione osservando che, anche a voler ritenere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in conseguenza della pretesa illegittimità dell’apposizione del termine, i lavoratori non avevano comunque diritto alla retribuzione maturata nei periodi di sospensione della prestazione lavorativa. La sentenza deve pertanto ritenersi erronea avendo riconosciuto il diritto dei lavoratori a percepire le retribuzioni dalla data di comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione.
I primi tre motivi devono essere esaminati congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi.
Per quanto concerne le censure che in tali motivi vengono proposte a proposito della statuizione concernente l’illegittimità del termine apposto ai contratti stipulati per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione, le stesse devono essere rigettate, anche se la motivazione della sentenza merita di essere parzialmente corretta ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2.
Deve premettersi, conformemente, sul punto, a quanto recentemente affermato da questa Corte con le sentenze n. 14011/2004 e 7745/2005 (ed in parziale contrasto con le precedenti sentenze n. 18354/2003 e n. 995/2004), che la L. n. 56 del 1987, art. 23, sancisce, al primo comma, che l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 e successive modificazioni e integrazioni, nonchè al D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 79 del 1983, è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato.
L’ipotesi in esame è quella individuata dall’accordo sindacale 25 settembre 1997, sottoscritto ad integrazione dell’art. 8 del c.c.n.l.
26 novembre 1994, che fa riferimento alle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, della sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane;
ipotesi che è stata precisata dall’accordo sindacale, stipulato anch’esso in data 25 settembre 1997, intitolato accordo attuativo per assunzioni con contratto a termine, a norma del quale, in relazione all’art. 8 del c.c.n.l., così come integrato con accordo 25 settembre 1997, le parti si danno atto che, fino al 31 gennaio 1998, l’impresa si trova nella situazione che precede, dovendo affrontare il processo di ristrutturazione della sua natura giuridica con conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione. In conseguenza di ciò e per far fronte alle suddette esigenze si potrà procedere ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato. Il termine del 31 gennaio 1998 è stato, poi, definitivamente prorogato al 30 aprile 1998 in forza dell’accordo sindacale "attuativo" sottoscritto in data 16 gennaio 1998.
La norma dell’art. 23 rappresenta uno sviluppo, indubbiamente innovativo, del modello dei contratti a termine "autorizzati", per i quali, cioè, l’autorizzazione costituiva il presupposto necessario per la valida apposizione del termine di durata, già introdotto nell’ordinamento dal D.L. n. 876 del 1977, convertito in legge n. 18 del 1978, (con le successive modificazioni di cui alla L. n. 737 del 1978, L. n. 79 del 1983, di conversione del D.L. n. 117 del 1983 e D.L. n. 84 del 1986), mediante l’attribuzione ad un organo pubblico (Ispettorato del lavoro) del potere autorizzativo all’esito di un accertamento preventivo degli elementi della fattispecie normativa.
Con tale modello, in effetti, sono state create aree di lavoratori precari e stagionali in funzione d’integrazione ricorrente dell’organico normale dell’impresa.
Le riserva all’autonomia collettiva dell’individuazione di ipotesi di contratti a termine, ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge, ha inteso creare, evidentemente, un diverso sistema di controllo sulle modalità di utilizzazione dello strumento contrattuale, parallelo e alternativo rispetto a quello della L. n. 18 del 1978, per cui, accanto all’area originaria del contratto a termine per esigenze organizzative qualitativamente straordinarie, è stata introdotta la possibilità di prevedere un’area di impiego normale e ricorrente di tale tipo di rapporto, del quale risulta in parte modificata la funzione economico-sociale, restando la tutela del lavoratore affidata non più alle previsioni di norme inderogabili, generali e astratte, ma allo strumento negoziale collettivo.
Peraltro, sulla portata della delega alla contrattazione collettiva, è sorto un problema interpretativo. Ci sì è chiesto, cioè, se il contratto a termine autorizzato dalla contrattazione collettiva costituisca, essendone mutata la funzione economico-sociale, un tipo contrattuale a sè stante, interamente sottratto all’area di applicazione della L. n. 230 del 1962, rimasta, fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, la legge generale che regola la materia. Tale problema può considerarsi definitivamente risolto dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 13343/1993;
Cass. n. 18354/2003) con l’affermazione del principio di diritto secondo cui la disposizione della L. n. 56 del 1987, art. 23, che consente alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto individuale di lavoro, opera sul medesimo piano della disciplina generale in materia e si inserisce nel sistema da questa delineato. Consegue a questo principio di diritto che l’applicazione di detta disposizione non si sottrae alla sanzione della conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non deroga al principio dell’onere della prova a carico del datore di lavoro.
Il rinvio della legge alla contrattazione collettiva, per l’individuazione di ipotesi ulteriori rispetto a quelle già previste dalle norme richiamate dallo stesso art. 23, reca la precisazione del livello della stessa contrattazione (nazionale o locale) con esclusione di quella aziendale, nonchè gli agenti contrattuali (sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale); ma nessun principio o criterio direttivo viene contestualmente enunciato in ordine alle ipotesi da individuare, prevedendosi soltanto che le stesse debbano essere ulteriori e, perciò, diverse rispetto a quelle già previste dalla legge. Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe rispetto a quelle già previste dalla legge (Cass. n. 14011/2004).
In tale contesto è altresì da precisare che la fattispecie contrattuale ora in contestazione si è esaurita anteriormente all’entrata in vigore del sopra ricordato D.Lgs. n. 368 del 2001, che ha modificato in senso abrogativo la precedente normativa:/di cui alla L. n. 230 del 1962. Non sono, poi, neppure applicabili ratione temporis le disposizioni derogatorie del regime di diritto comune di cui al D.L. n. 510 del 1996, art. 9, comma 21, convertito in L. n. 308 del 1996, secondo cui le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall’Ente Poste Italiane, a decorrere dalla data della sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono invece allo scadere del termine finale di ciascun contratto.
In forza della sopra citata "delega in bianco" ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, le parti sindacali ivi indicate hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella determinata da esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali quale condizione per la trasformazione giuridica dell’Ente (Accordo sindacale 25 settembre 1997).
La legge da ultimo citata, con la sua portata applicativa affidata all’autonomia sindacale, si inserisce nel complesso sistema delineato dalla L. n. 230 del 1962, nel senso che restano applicabili le regole da questa prescritte, come ad esempio la trasformazione in un unico rapporto a tempo indeterminato dei successivi contratti a termine posti in essere con intento elusivo delle disposizioni di legge (Cass. n. 7519/1998) ed anche la regola per cui l’onere probatorio sulle condizioni che giustificano sia l’assunzione a termine, sia la sua temporanea proroga, resta a carico del datore di lavoro (Cass. n. 19695/2003, Cass. n. 8532/2003, Cass. n. 3843/2000).
Ciò premesso, appare parzialmente inesatta la statuizione contenuta nella sentenza impugnata nel punto in cui rinviene nel sistema delineato dalla legge la necessità che, ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere il rapporto tra la regola generale dell’assunzione a tempo indeterminato e l’assunzione a termine, la norma contrattuale deve naturalmente avere, di per sè, un’efficacia temporale limitata, perchè, come già rilevato, nella particolare fattispecie normativa l’autonomia sindacale non trova limiti nella legge per quanto riguarda la tipologia delle nuove ipotesi di contratti a termine da introdurre. E in tal senso va corretta la motivazione della sentenza, la quale resta comunque conforme a diritto, avendo ancorato, mediante specifica ragione motivazionale autonoma e autosufficiente, il termine di validità alle pattuizioni contrattuali e, più precisamente, ai termini del 31 gennaio 1998 e 30 aprile 1998 specificamente previsti dai sopra citati accordi sindacali "attuativi" rispettivamente del 25 settembre 1997 e del 16 gennaio 1998.
La Corte d’Appello di Milano ha, infatti, statuito, sulla base di argomentazioni da sole sufficienti a sorreggere il decisum di rigetto dell’impugnativa della s.p.a. Poste Italiane e, conseguentemente, di accoglimento dell’originaria domanda giudiziale, che comunque la legittimità dei contratti a termine viene esclusa per i contratti stipulati dopo il 30 aprile 1998 (nel cui ambito di tempo rientrano le fattispecie contrattuali in contestazione), avendo le stesse parti sindacali valutato l’eccezionaiità della situazione nel suo concreto sviluppo ed avendo stipulato i cosiddetti accordi attuativi. Di conseguenza, con riferimento a quanto ritenuto con orientamento giurisprudenziale consolidato e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una sentenza (o un "capo" di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione; questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano; è sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che, come nella specie, sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni perchè il ricorso debba essere respinto integralmente (Cass. n. 5149/2001).
Tanto precisato, si conferma che la Corte Territoriale ha correttamente osservato che le parti collettive avevano fissato un limite di tempo alla facoltà di procedere a assunzioni a termine in deroga alla normativa di cui alla L. n. 230 del 1962 e la cennata statuizione non viene inficiata dal precedente errore di diritto per cui l’apposizione del termine medesimo sarebbe necessitata ex lege, poichè la disposizione normativa-sindacale viene considerata un motivo in più per conferire valore alla volontà delle parti, la quale viene in rilievo anche come elemento autonomo (così, con motivazione sostanzialmente analoga, Cass. n. 19695/2003, Cass. n. 2866/2004).
Conformemente con le sentenze da ultimo citate deve ritenersi che non sia ravvisabile la violazione di alcun canone ermeneutico nell’interpretazione della clausola contrattuale, avendo la Corte d’Appello rilevato che le parti avevano stipulato accordi attuativi dei quali quello in data 16 gennaio 1998 aveva differito il termine fino al 31 gennaio 1998, termine poi prorogato con successivi accordi fino a 30 aprile 1998, di talchè l’assunzione a termine effettuata dopo il 30 aprile 1998 era priva di strumento derogatorio.
In merito alle censure formulate con riguardo all’interpretazione degli accordi sindacali sopra citati si rileva che la motivazione addotta dal Giudice dell’appello appare, al riguardo, sinteticamente congrua e sicuramente rispettosa dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 cod. civ. e segg., in quanto nell’interpretazione degli accordi sindacali succedutisi per introdurre la possibilità di una nuova ipotesi di contratto a termine ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 – costituiti da: a) il primo accordo in data 25 settembre 1997 per individuare la causale della nuova ipotesi di contratto a termine ("esigenze eccezionali collegate alla trasformazione giuridica dell’Ente"); b) il secondo (e contestuale al primo) accordo, attuativo per assunzioni con contratto a termine, sempre del 25 settembre 1997, per indicare fino a quando l’Ente avrebbe potuto fare ricorso alla cennata ipotesi di contratto a termine(fino al 31 gennaio 1998); c) l’accordo, sempre attuativo, del 16 gennaio 1998 per prorogare la summenzionata data (sino al 30 aprile 1998) – il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti.
Infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente i tre accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 12245/2003, Cass. n. 12453/2003).
In ogni caso la sentenza impugnata ha correttamente, sia pure implicitamente, rispettato il canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, attribuendo così significato agli accordi attuativi con cui erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997 (che peraltro si riferiva espressamente alle esigenze conseguenti agli assetti occupazionali collegati alla trasformazione giuridica dell’ente effettivamente avvenuta con trasformazione dell’Ente Poste in società per azioni in data 28 febbraio 1998) in quanto, diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass. n. 2866/2004).
Le censure contenute in ricorso non valgono ad inficiare la ricostruzione della volontà delle parti come operata dai Giudici di merito: in particolare è da considerare inidoneo all’annullamento della statuizione il richiamo all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto sì era già perfezionato. In relazione a questi eventi, non sussiste la denunziata violazione dell’art. 1363 c.c., siccome la Corte Territoriale ha valutato tale accordo come irrilevante alla luce del sistema di gestione concordata delle assunzioni recato dagli accordi attuativi. Deve osservarsi che non può certamente ritenersi illogico il suddetto convincimento del Giudice di merito ove si consideri che, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25.0.1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la Corte di Milano ha comunque deciso in modo conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, escludendo che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n. 5141).
In conclusione, l’interpretazione che la sentenza impugnata ha dato ai contratti ed accordi succedutisi nel tempo, in relazione all’ambito di operatività dei termini di durata apposti ai singoli contratti di lavoro, risulta adeguatamente motivata, priva di salti logici e del tutto rispondente ai canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 cod. civ. e segg..
Sono invece fondate le censure concernenti la statuizione della sentenza impugnata concernente la ritenuta illegittimità del termine apposto ai contratti stipulati per necessità di sostituzione del personale in ferie.
E’ pacifico che i termini de quibus sono stati apposti con riferimento all’ipotesi di assunzione a tempo determinato prevista dall’art. 8 c.c.n.l. 26 novembre 1994: necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno- settembre. Il contratto collettivo ha previsto quest’ipotesi di assunzione a termine ai sensi del disposto della L. n. 56 del 1987, art. 23, in precedenza citato.
Ciò premesso deve osservarsi che la giurisprudenza della Suprema Corte, superando iniziali incertezze, ha ritenuto erronea la tesi secondo la quale, se la contrattazione collettiva è stata abilitata all’aggiunta di fattispecie diverse rispetto a quelle legalmente fissate, non le è stato, tuttavia, attribuito il potere di incidere sulla disciplina di quelle già contemplate dalla legge (così, ad esempio, l’occasione temporanea di lavoro costituita dall’assenza per ferie presupporrebbe necessariamente la funzione sostitutiva del personale assente), nè di individuare ipotesi di lavoro a termine prive del fondamentale connotato dell’assenza di un’occasione stabile di lavoro, in contrasto con la disciplina legale che contempla fattispecie di assunzione a termine tutte riconducibili al comune presupposto, di carattere oggettivo, della temporaneità dell’occasione di lavoro. Ritiene, infatti, la giurisprudenza di legittimità che siffatta limitazione del potere conferito all’autonomia collettiva non trova rispondenza nella lettera e nella ratio della norma: un’ipotesi individuata dalla contrattazione collettiva non può che essere, in tutti i casi, diversa da quella contemplata dalla legge, restando di conseguenza sottratta alle condizioni di legittima apposizione del termine previste dalla disciplina legislativa. La riserva all’autonomia collettiva dell’individuazione di ipotesi di contratti a termine ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge, ha inteso, evidentemente, creare un diverso sistema di controllo sulle modalità di utilizzazione dello strumento contrattuale, parallelo e alternativo rispetto a quello del D.L. n. 876 del 1977, convertito in L. n. 18 del 1978, cosicchè, accanto all’area originaria del contratto a termine per esigenze organizzative qualitativamente straordinarie, è stata prevista la possibilità di prevedere anche un’area di impiego normale e ricorrente del tipo contrattuale, del quale risulta in parte modificata la funzione economico-sociale, restando la tutela del lavoratore affidata non più alle previsioni di norme inderogabili, generali e astratte, ma allo strumento negoziale collettivo. Come si è già accennato la delega conferita alla contrattazione collettiva dal legislatore è da intendere quale "delega in bianco" in ordine all’introduzione di ipotesi di contratto di lavoro a termine (cfr., con riferimento all’azienda postale, Cass. n. 167/2006; n. 2866/2004, n. 14011/2004).
La necessità dell’accordo collettivo garantisce adeguatamente gli interessi del lavoratori ed è l’esatto contrario della liberalizzazione (ritenuta inammissibile da Corte costituzionale n. 41/2000, in forza dell’obbligo dell’Italia di rispettare la direttiva 1999/70/Ce del Consiglio dell’Unione europea del 28 giugno 1999).
La Corte Territoriale, pertanto, è incorsa in violazione di norme di diritto nel negare, nella sostanza delle argomentazioni, che l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva fosse del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie. Ed infatti, decidendo la causa in base alla regula iuris dell’onere del datore di lavoro di provare la legittima apposizione del termine, regola, per quanto si è detto, pacificamente applicabile, ha del tutto omesso l’indagine sull’intenzione espressa dagli stipulanti, ritenendo senz’altro che dovesse essere comprovata la funzione sostitutiva del contratto e la carenza di personale nel periodo dell’assunzione a termine. Ha escluso, cioè, che l’autorizzazione conferita dal contratto collettivo potesse contemplare, quale unico presupposto per la sua operatività, l’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie, come reso palese dalla totale omissione di attività rivolta all’accertamento della volontà contrattuale.
Il quadro legislativo di riferimento, invece, imponeva, per pervenire correttamente a questo risultato interpretativo, l’esame del significato delle espressioni usate dalle parti stipulanti, spiegando adeguatamente le ragioni dell’uso di una formula diversa da quella della legge, priva di riferimenti alla sostituzione di dipendenti assenti, sostituiti dalla precisazione del periodo per il quale l’autorizzazione è concessa (pur potendo le ferie essere fruite in periodi diversi), onde verificare se la necessità di espletamento del servizio facesse riferimento a circostanze oggettive, o esprimesse solo le ragioni che avevano indotto a prevedere questa ipotesi di assunzione a termine, nell’intento di considerarla sempre sussistente nel periodo stabilito, in correlazione dell’uso dell’espressione "in concomitanza".
Sotto questo profilo, le censure contenute nel primo e secondo motivo di ricorso devono essere in definitiva accolta.
Per quanto concerne infine l’ulteriore censura, contenuta nel secondo motivo al ricorso, concernente l’interpretazione, da parte della Corte di merito, dell’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, la stessa deve considerarsi inammissibile per l’assorbente ragione che non è stato riprodotto in ricorso il testo della norma in questione. Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., fra le più recenti, Cass. 4 novembre 2005 n. 21379), infatti, qualora in sede di legittimità venga denunciato un vizio della sentenza consistente nella erronea interpretazione, per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizio di motivazione, di una norma della contrattazione collettiva, il ricorrente ha l’onere – in forza del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione – di riportare il contenuto della stessa, stante il divieto per il Giudice di legittimità di ricercare negli atti gli elementi fattuali utili per la decisione della controversia.
Il quarto motivo deve essere rigettato. Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., da ultimo, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554) nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al Giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto. Nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non era sufficiente a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.
Il quinto motivo di ricorso è inconferente in quanto, contrariamente a quanto dedotto dalla società ricorrente, la Corte di merito ha preso posizione sulle ipotesi di contratti a termine prorogati affermando che ogni eventuale questione sulla legittimità di tali proroghe doveva ritenersi assorbita in relazione alle soluzioni adottate in tema di illegittimità del termine e delle relative conseguenze sulla continuità del rapporto di lavoro.
Anche il sesto motivo è infondato. La Corte di merito ha ritenuto dovute le retribuzioni dalla data in cui è stata messa in mora la società datrice di lavoro con la richiesta della conciliazione. Tale soluzione è stata ritenuta corretta da Cass. 28 luglio 2005 n. 15900 (che in questa sede si intende confermare) la quale, con riferimento ad un’ipotesi analoga (più contratti di lavoro a termine illegittimamente posti in essere e sostituiti da un contratto a tempo indeterminato), sulla premessa che la sospensione dell’obbligo retributivo, negli intervalli non lavorati, viene meno allorchè il lavoratore, deducendo l’invalidità del termine e l’unicità del rapporto, si offra di riprendere il lavoro mettendo a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto prova idonea di tale disponibilità, rilevante ai fini della decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni, la comunicazione del lavoratore indirizzata ad un terzo – nella specie, l’Ufficio di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro – ma portata a conoscenza del datore di lavoro nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria, contenente l’espressa dichiarazione della propria volontà di riprendere l’attività lavorativa.
In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il primo ed il secondo motivo devono essere accolti per quanto di ragione mentre gli altri motivi devono essere rigettati.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione al profilo accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia la quale, uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati procederà all’interpretazione della contrattazione collettiva e della domanda giudiziale, al fine di stabilire quali circostanze di fatto avrebbero dovuto essere provate dal datore di lavoro al fine di dimostrare la legittimità del termine apposto al contratto.
Il giudice di rinvio è anche incaricato della regolazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P. Q. M.
La Corte accoglie il primo e secondo motivo di ricorso per quanto di ragione, rigetta nel resto; cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Brescia.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2006
Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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