Cassazione civile anno 2005 n. 1382 Indennità o rendita

INFORTUNI SUL LAVORO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con sentenza 20 ottobre 2000 il giudice del lavoro di Cagliari ha condannato l’X a liquidare la rendita costituita a favore di X X sulla base retributiva annua di L. 35.294.064, in parziale accoglimento della domanda del lavoratore ricorrente, anzichè di L. 25.072.850, determinata dall’istituto assicuratore.
Con sentenza 13/27 febbraio 2002 n. 80 la Corte d’Appello di Cagliari ha respinto l’appello principale dell’X e, in accoglimento dell’appello incidentale del X, ha determinato la base retributiva in L. 35.294.064. Il giudice d’appello ha rilevato in fatto che il X, nei dodici mesi anteriori alla indennizzabilità della malattia professionale, ha prestato la propria opera per 1041,5 ore contro le 2.080 contrattuali (come da modello X 29-I compilato dal datore di lavoro dell’assicurato). Ne ha dedotto che il calcolo non può essere effettuato alla stregua del 1 comma dell’art. 116, perchè non vi è stata una retribuzione effettiva per tutto il periodo annuale, bensì secondo il calcolo ricostruttivo della retribuzione indicato dal 2 comma.
Ha pertanto respinto l’appello principale dell’X ed accolto l’appello incidentale proposto dal X, ritenendo che la 14^ mensilità spetta – per accordi contrattuali come certificato dalla Nuova X X – nella misura di 200 ore anzichè in quella di 173,33 prevista per la 13^ mensilità e quindi, come indicato dal X, la maggiorazione per la 14^ è pari al 9,615%, anzichè dell’8,33% calcolato dall’X.
Conseguentemente ha determinato, sulla base dell’estratto libro paga in atti, la base salariale per la determinazione della rendita spettante al X in L. 35.294.064, ottenuta sulla base delle seguenti operazioni: compenso per lavoro ordinario (L. 10.530.414) più compensi corrisposti in via non continuativa (L. 4.787.025) + maggiorazione del 21,27% (3,33% + 8,33 + 9,61) = L. 18.575.458: 1041, 5 (ore lavorate) x 2000 ore (pari alle 300 giornate lavorative annue di cui all’art. 116, 2 comma (derivanti a loro volta dalla moltiplicazione di 50 settimane per 6 giornate lavorative; 40 ore settimanali per 50 settimane = 2000 ore) = L. 35.294.064.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’X, con due motivi. Si è costituito con controricorso, resistendo, il X.

Motivi della decisione
Con il primo motivo l’Istituto ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 3, 4 e 5 comma, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, 113, 115, 116 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), rileva che il calcolo effettuato dal giudice d’appello, quale che sia la sua correttezza, supera il massimale stabilito del 3 comma dell’art. 116, che era pari all’epoca (1991) a L. 27.947.000.
Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 29 (come modificato dall’art. 12 Legge 30 aprile 1969, n. 153, e dai successivi chiarimenti di cui all’art. 1, 1 comma, d.l. 9 ottobre 1989 n. 338, convertito, con modificazioni, in Legge 7 dicembre 1989, n. 389) 30, 116, 1 e 2 comma, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, in relazione agli artt. 113 e 116 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), censura la interpretazione dell’art. 116 adottata dalla sentenza impugnata, argomentando: nel caso di specie il calcolo della rendita va effettuato assumendo come base la retribuzione effettiva.
Tuttavia, e qui è la differenza con la sentenza impugnata, a tal fine rileva il sistema retributivo adottato dal contratto di lavoro, se orario, fisso mensile, o mensilizzato. Poichè nella specie la retribuzione del X non era oraria bensì mensilizzata, avrebbe errato la sentenza impugnata, per avere arbitrariamente sostituito alla retribuzione mensilizzata, adottata dalle parti, la retribuzione oraria. Questo errato presupposto di fatto avrebbe inficiato la decisione del giudice d’appello, per avere applicato il secondo comma ad una ipotesi di retribuzione effettiva per tutto il periodo annuale stabilito dal 1 comma.
La non conformità a diritto della interpretazione del giudice d’appello risulterebbe anche dalle conseguenze paradossali cui essa giunge, di riconoscere al X una rendita nettamente maggiore che se avesse lavorato tutto l’anno: assume che se il X avesse prestato la propria opera per l’intero orario di lavoro contrattualmente previsto (2080 ore) si sarebbe visto liquidare una rendita commisurata ad una retribuzione di L. 25.072.850; avendo invece il X lavorato per sole 1041,5 ore, contro le 2080 contrattuali, ha diritto, secondo la Corte di appello, a vedersi liquidare una rendita commisurata a L. 35.294.064, cioè commisurata ad una retribuzione che non avrebbe mai percepito ove avesse lavorato per tutte le 2080 ore contrattuali.
Evidenzia contabilmente tale differenza:
l’importo della retribuzione lorda mensilizzata pari a L. 1.449.070 (v. colonna 7 dell’estratto libro paga), va moltiplicato per 12, così pervenendosi alla retribuzione annua; sulla somma così ottenuta, va applicata una percentuale del 16,66% (8,33% + 8,33%) a titolo di tredicesima e quattordicesima mensilità. Vanno poi sommati i compensi corrisposti in via non continuativa (L. 4.787.025: colonna 12 dell’estratto libro paga), ottenendosi un totale pari a L. 25.072.850. Su tale base salariale (L. 25.072.850), che rappresenta esattamente ciò che l’assicurato avrebbe percepito ove avesse lavorato durante tutte le giornate lavorative comprese nell’anno in esame, deve essere liquidata la rendita al ricorrente e non già su quella (L. 35.294.064) determinata dal giudice d’appello.
Va esaminato per primo il secondo motivo di ricorso, perchè, in ordine logico, se fondato, assorbirebbe il primo.
La retribuzione rilevante ai fini infortunistici è in generale quella effettiva, come definita dall’art. 29 t.u., già sostituito dall’art. 12 L. 30 aprile 1969, n. 153, ora costituito dall’art. 6 D.Lgs. 2 settembre 1997 n. 314. Essa rileva per il calcolo sia dei contributi, sia, correlativamente, delle prestazioni (art. 1 d.l.lgt.
19 aprile 1946, n. 238; art. 29, 1 comma, t.u. 1124 testo originario;
art. 12 l. 153/69, ultimo comma, salvo alcune eccezioni).
La retribuzione effettiva rileva però diversamente, in relazione della diversità di funzione, per il calcolo della indennità per inabilità temporanea e della rendita.
La prima, avendo una funzione sostitutiva della retribuzione non percepita a causa della inabilità, va calcolata sulla retribuzione effettiva dei 15 giorni antecedenti la data della sospensione del lavoro, intendendo per retribuzione effettiva quella contrattualmente dovuta (anche se non corrisposta) risultante dalle registrazioni obbligatorie di cui all’art. 20 t.u., o quella superiore di fatto percepita (art. 120, 1 comma, t.u.), maggiorata dei ratei degli oneri differiti (mensilità aggiuntive e ferie).
La rendita, avendo una funzione indennitaria della perdita della capacità di lavoro generica, ed ora, nel regime del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche della integrità psicofisica, devono rispondere ad un criterio di adeguatezza (Cass. 5 luglio 2002 n. 9672 e 10 maggio 2004 n. 8873), intesa però come adeguatezza non alla retribuzione percepita, ma alle esigenze di vita, ai sensi dell’art. 38, 2 comma, Cost. Per questo motivo la retribuzione rilevante per il calcolo della rendita permanente è rapportata ad un arco temporale molto più ampio che per la indennità per inabilità temporanea assoluta, e cioè al reddito da lavoro effettivo dell’anno precedente l’infortunio o la malattia professionale, sia che la prestazione lavorativa si sia svolta con unico datore di lavoro (art. 116, 1 comma, t.u.), sia con diversi datori di lavoro, semprechè i periodi di lavoro siano contigui e le retribuzioni, sommate, coprano tutto l’anno (2^ comma); ma se il guadagno continuativo per un anno manca, o non rispecchia la capacità di guadagno presumibile della vita lavorativa, il sistema prevede criteri alternativi (contenuti sia nel t.u., sia in leggi successive), miranti ad assicurare l’adeguatezza, e cioè che la rendita sia rapportata non ad un evento retributivo puntuale, ma alla presumibile capacità di reddito lavorativo.
Ad. es., per gli apprendisti, che sono caratterizzati dal fatto di percepire una retribuzione d’ingresso che non rispecchia quella che sarà la futura storia retributiva piena quali lavoratori qualificati, e per i quali non sarebbe quindi giusto parametrare sulla ridotta retribuzione nell’anno precedente l’infortunio la rendita che viceversa deve indennizzare la perdita della capacità lavorativa dell’intera vita, l’art. 119 t.u. adotta il criterio di ragguagliare la rendita di inabilità e la rendita ai superstiti alla retribuzione della qualifica iniziale prevista per le persone assicurate di età superiore agli anni diciotto non apprendiste occupate nella medesima lavorazione cui gli apprendisti stessi o i minori sono addetti e comunque a retribuzione non inferiore a quella più bassa stabilita dal contratto collettivo di lavoro per prestatori d’opera di età superiore ai diciotto anni della stessa categoria e lavorazione (mentre, per quanto detto sopra, l’indennità per inabilità temporanea assoluta rimane ragguagliata alla retribuzione effettiva dell’apprendista secondo le norme dell’art. 117). Analogamente per gli operai in cassa integrazione guadagni l’art. 1, ultimo comma, d.l. 29 marzo 1966, n. 129, aggiunto in sede di conversione dalla L. 26 maggio 1966, n. 310, dispone che, in caso d’infortunio sul lavoro o di malattia professionale, ai fini della determinazione delle prestazioni economiche si deve fare riferimento non all’orario ridotto praticato a seguito della concessione dell’integrazione guadagni, ma alla durata oraria normale della settimana lavorativa in uso nell’azienda antecedentemente al periodo di contrazione dell’orario settimanale.
Per i lavoratori con contratto a tempo parziale la retribuzione da valere ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è uguale alla retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva per il corrispondente rapporto di lavoro a tempo pieno (art. 5, comma 9, d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, in Legge 19 dicembre 1984, n. 863; art. 9, comma 3, D.Lgs. 25 febbraio 2000 n. 61).
Nel caso di lavoratore non apprendista, e non versante in ipotesi particolari per le quali valgano le retribuzioni legali o convenzionali (art. 118 t.u.), il quale non abbia però prestato la sua opera durante i dodici mesi antecedenti l’evento in modo continuativo, l’art. 116, 2 comma, t.u. detta regole per calcolare l’ultima retribuzione annua presunta con la massima adeguatezza possibile a quella che sarebbe stata la retribuzione effettiva, se avesse lavorato tutto l’anno. A tal fine la retribuzione annua si valuta eguale a trecento volte la retribuzione giornaliera; a questo effetto, si considera retribuzione giornaliera la sesta parte della somma che si ottiene rapportando alla durata oraria normale della settimana di lavoro nell’azienda per la categoria cui appartiene l’infortunato il guadagno medio orario percepito dall’infortunato stesso, anche presso successivi datori di lavoro fino al giorno dell’infortunio nel periodo, non superiore ai dodici mesi, per il quale sia possibile l’accertamento dei guadagni percepiti.
In tal modo il t.u. realizza, con la disposizione dell’art. 116, 2 comma, il principio di adeguatezza di cui all’art. 38, 2 comma Cost..
Questa Corte ha ritenuto che per l’applicabilità della regola del 2 comma dell’art. 116 devono concorrere due elementi: a) quello fattuale indicato dalla norma stessa, nella specie la prestazione, nell’ultimo anno, di un numero di ore di lavoro inferiore rispetto all’orario annuale stabilito contrattualmente, il che integra la prestazione non continuativa; b) l’impossibilità di determinare la retribuzione annua effettiva per lo stesso periodo. Tale impossibilità non ricorre, fra l’altro, nelle ipotesi in cui, essendo la retribuzione contrattualmente mensilizzata (oppure altrimenti periodizzata) ne possa essere determinato comunque l’importo annuale, a prescindere dalle ore di lavoro effettivamente prestato (Cass. 5 luglio 2002 n. 9672; Cass. 10 maggio 2004 n. 8873 citate). La seconda condizione non ricorre nel caso di specie. La sentenza impugnata ha escluso che nel caso presente si tratti di una retribuzione indipendente dalle ore effettivamente prestate;
l’istituto ricorrente contesta che la mensilizzazione costituisca un artificio contabile, come qualificato dal giudice d’appello, e assume che il carattere di retribuzione mensilizzata risulta dal mod. 29/1 fornito dalla Nuova X X. Da tale documento, ritualmente prodotto, al cui esame diretto la Corte può procedere per verificare la fondatezza delle contrapposte argomentazioni delle parti che ad esso fanno comune, ampio ed analitico riferimento, risulta che il X nei dodici mesi antecedenti l’evento lavorò diversi mesi, nei quali non ha percepito una retribuzione fissa mensile, bensì retribuzioni differenziate rapportate alle ore lavorate (colonne 4 e 6) nonchè cospicue indennità, sempre proporzionate alle ore lavorate (colonna 12) che l’interessato assume, non smentito, essere l’indennità di sottosuolo come minatore ed altre indennità collegate permanentemente alle mansioni svolte.
Qualsiasi criterio matematico che si voglia adottare per inferire da tale situazione retributiva la retribuzione annua, non perverrebbe mai ad una retribuzione effettiva, ai sensi del primo comma, ma ad una retribuzione presunta, che è quella che il 2 comma intende ricostruire, con criterio matematico legale al quale l’interprete non può sostituirne altri arbitrari.
Tale conclusione si svolge nell’alveo della giurisprudenza di questa Corte, la quale, in analoga vicenda, proveniente, come le altre due citate supra, dal bacino minerario di Cagliari, non ha avuto dubbi, come neppure i giudici di merito, che la fattispecie andasse inquadrata nella previsione dell’art. 116, 2^ comma (Cass. 12 agosto 1996 n. 7486).
Il punto di diritto dirimente è dunque la interpretazione della parte iniziale del 2 comma "Qualora l’infortunato non abbia prestato la sua opera in detto periodo in modo continuativo".
Secondo l’approccio caratteristico del t.u., non definitorio ma fattuale e finalistico, quella che rileva è la continuità o discontinuità della prestazione d’opera, come la norma testualmente si esprime, e della correlata retribuzione; non del rapporto di lavoro. Le ipotesi di sospensione della prestazione, sia involontarie (ad es. CIG), sia volontarie (ad es. sciopero prolungato), integrano la discontinuità della prestazione che impone di adottare il criterio di determinazione presuntiva della retribuzione di cui al 2 comma.
L’argomento per absurdum addotto dall’istituto ricorrente è suggestivo, ma infondato. La retribuzione presunta, calcolata dal giudice del merito in L. 35.294.064 ai sensi del 2 comma, va raffrontata non con la sola retribuzione effettiva della colonna 7 (L. 25.072.850 secondo l’X), ma inserendo nella retribuzione effettiva, ai sensi del 1 comma, tutto ciò che il lavoratore ha ricevuto in danaro o in natura, e quindi anche le indennità percepite mensilmente (e quindi non occasionali) di cui alla colonna 12. Così correttamente calcolata la retribuzione effettiva, essa viene ad essere una valore monetario molto prossimo alla retribuzione presunta calcolata dalla sentenza impugnata; dal che rifulge il fine di adeguatezza del calcolo presuntivo legale del 2 comma.
Il secondo motivo di ricorso va per i motivi esposti respinto.
Va invece accolto il primo motivo di ricorso, in quanto basato sul tenore testuale del 3 comma dell’art. 116, che configura il massimale come limite al computo della retribuzione annua, e non come limite all’erogazione della rendita, con il che il massimale assolve, in un sistema indennitario, la sua funzione perequativa delle rendite, a disparità di retribuzione.
L’inconveniente opposto dal controricorrente, secondo cui la rendita verrebbe così ad essere determinata in misura tale che, con le rivalutazioni di legge, rimarrebbe inferiore a quella consentita dal massimale successivo, non appare sufficiente a scalfire l’argomento testuale sopra esposto.
Conclusivamente si deve accogliere il primo motivo di ricorso, rigettare il secondo; cassare la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, poichè sussistono i presupposti di legge previsti dall’art. 384 c.p.c., come modificato dall’art. 66 Legge 26 novembre 1990, n. 353 (accoglimento del ricorso per violazione di legge e non necessità di ulteriori accertamenti di fatto), questa Corte può decidere la controversia nel merito, determinando la retribuzione annua rilevante per il calcolo della rendita, ai sensi dell’art. 116, commi 2 e 3, in L. 27.947.000.
Provvedimenti sulle spese come in dispositivo.

P. Q. M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, determina la retribuzione annua in L. 27.947.000. Condanna l’X alle spese dei gradi di merito liquidandole nella stessa misura indicata dai giudici del merito, con distrazione agli avvocati antistatari X X e X X. Compensa le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 25 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *