Cassazione civile anno 2005 n. 1343 Diritti politici e civili Danno non patrimoniale

COMUNITA’ EUROPEA DIRITTI POLITICI E CIVILI DANNI IN MATERIA CIV. E PEN.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
La Corte di appello di Perugia, con decreto depositato il 25 ottobre 2001, accogliendo la domanda proposta da X X contro il Ministero della giustizia ai sensi degli artt. 2 e ss. della legge n. 89 del 2001, condannò il detto Ministero a pagare al X la somma di lire 7.500.000= (oltre alle spese del procedimento) a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale subito dalla parte privata per effetto della non ragionevole durata di un processo per separazione personale tra lo stesso X e la moglie.
A sostegno della decisione la Corte territoriale considerò: che il ricorso per separazione era stato depositato nel gennaio del 1993 presso la cancelleria del Tribunale di Frosinone;
che, dopo la fase presidenziale, il giudice istruttore designato aveva portato la causa a sentenza circa sette anni e nove mesi dopo il deposito dell’atto introduttivo;
che, per quanto non tutti i rinvii fossero stati dovuti ad iniziative delle parti o del giudice (rinvio per le elezioni, sciopero degli avvocati), tuttavia il tempo trascorso tra l’inizio del processo e la sentenza risultava contrario ad una corretta gestione della causa e la responsabilità di ciò risaliva da un lato alle parti, che avevano appesantito l’istruzione con una serie d’istanze, dall’altro lato al giudice che aveva seguito le parti stesse in tale erronea gestione del processo, dimenticando durante il corso di questo che la sua attività doveva essere rivolta all’assunzione delle prove e, poi, all’eventuale modifica dei provvedimenti presidenziali, destinati peraltro ad essere superati dal contenuto della sentenza;
che, tenuto conto della non eccessiva complessità della causa, dei parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e del criterio di ragionevolezza, che portava a giudicare eccessiva la durata della controversia de qua, il danno non patrimoniale (in difetto di prova di quello patrimoniale) poteva essere liquidato in via equitativa nella somma sopra indicata.
Avverso il suddetto decreto il Dott. X X, con atto notificato al Ministero della giustizia ed a X X il 25- 26 marzo 2002, ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi illustrati con memoria.
Il X ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria.
Il Ministero della giustizia non ha svolto in questa sede attività difensiva.

Motivi della decisione
Il ricorrente – giudice del Tribunale di Frosinone designato a trattare il processo di separazione de quo (in sostituzione di altro magistrato) con decreto del presidente del detto Tribunale in data 14 maggio 1997 – premette che a fine novembre del 2001 gli era stata trasmessa una nota dell’Avvocatura distrettuale dello Stato, recante copia del citato decreto della Corte di appello di Perugia.
Richiamato il contenuto del decreto, afferma che nessun atto gli sarebbe stato notificato e nessuna comunicazione sarebbe stata effettuata nei suoi confronti (prima della pronunzia del detto decreto), sicchè il giudizio – da quel provvedimento concluso – si sarebbe svolto in sua assenza.
Ciò posto, ritenendo il provvedimento stesso "ingiusto e gravatorio", formula i seguenti mezzi di Cassazione:
1. violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 3, n. 4, L. n. 89 del 2001, artt 737 e ss. c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3 e 4, c.p.c. – Con riguardo ai procedimenti in Camera di consiglio, costituirebbe ius receptum che ad essi debba partecipare ogni soggetto nei cui confronti il provvedimento da emanare sia destinato a riverberare i propri effetti. L’idoneità del provvedimento ad incidere nella sfera di tale soggetto attribuirebbe a quest’ultimo la qualità di interessato al giudizio, donde la necessità (quanto meno) della sua audizione. Nel caso di specie l’interesse discenderebbe dall’art. 5 della legge n. 89 del 2001 (recante l’obbligo di comunicare il decreto, che accoglie la domanda di equa riparazione, al P.G. della Corte dei conti e ai titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici interessati dal procedimento). La Corte di merito avrebbe emesso il decreto inaudita altera parte, senza farsi carico della posizione dell’attuale ricorrente, con conseguente nullità dell’atto qui impugnato per violazione del contraddittorio;
2. violazione e falsa applicazione di norme di legge: art 2, n. 2, L. n. 89 del 2001, art. 175 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nonchè vizi di motivazione – La Corte di Perugia, considerando la complessità del caso, nonchè il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, non avrebbe minimamente chiarito le ragioni delle valutazioni espresse su tali punti, così incorrendo in falsa applicazione delle norme denunciate e in rilevanti vizi di motivazione;
3. violazione e falsa applicazione di norme di legge: arti 155 (ult. comma) c.c., 710 e 175 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nonchè motivazione illogica – La Corte territoriale avrebbe errato sotto diversi profili nell’assumere che il giudice, incaricato della trattazione del processo, non avrebbe dovuto farsi carico delle istanze avanzate dalle parti, dirette ad ottenere provvedimenti provvisori in ordine all’affidamento della prole, al contributo di mantenimento e all’assegnazione della casa coniugale;
4. violazione e falsa applicazione di norme di legge: artt. 1127 (recte: 1227), secondo comma, 2056 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., motivazione illogica in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. – Nel processo di separazione quasi tutte le istanze dirette ad ottenere provvedimenti provvisori sarebbero state avanzate dalla difesa del X, peraltro nell’esercizio di diritti processuali previsti dalla legge. Tuttavia il X non avrebbe potuto, poi, dolersi della durata del processo determinata dall’attuazione di meccanismi ai quali lui stesso avrebbe dato impulso primario. Tale profilo sarebbe stato del tutto trascurato dalla Corte d’appello, la quale sarebbe quindi incorsa in gravi incongruenze giuridiche e logiche;
5. omessa trattazione di un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c. – La Corte distrettuale avrebbe trascurato di considerare l’enorme mole del contenzioso pendente dinanzi all’autorità giudiziaria, le lacune della legge n. 89 del 2001 e le cause di forza maggiore che in concreto avrebbero dilatato i tempi del processo, nonchè la delicatezza e complessità di questo, considerando senz’altro responsabile del ritardo il giudice, senza neppur valutare che all’attuale ricorrente la causa era stata assegnata il 14 maggio 1997 (essendo stata trattata in precedenza da altro magistrato).
Il ricorso per Cassazione deve essere dichiarato inammissibile.
Non è controverso che il Dott. X sia il giudice istruttore designato a trattare (dal 14 maggio 1997) il giudizio di separazione tra i coniugi X, cui è riferita la durata non ragionevole fonte dell’equa riparazione attribuita a quest’ultimo dalla Corte di appello. Il magistrato, quindi, rimase estraneo al procedimento svoltosi davanti alla detta Corte d’appello. Il che, peraltro, trova conferma nell’esame del decreto in questa sede impugnato, dal quale emerge che quel procedimento fu celebrato tra il X (ricorrente) e il Ministero della giustizia (resistente), secondo il modello processuale definito dagli artt. 2 e ss. della legge 24 marzo 2001, n. 89.
Ne deriva che il X, non avendo assunto la qualità di parte nel grado di merito concluso col decreto qui impugnato, non è legittimato a proporre il ricorso per Cassazione avverso tale decreto, perchè il relativo potere processuale spetta soltanto a chi abbia partecipato al pregresso grado di giudizio (tra le più recenti: Cass., 19 novembre 2003, n. 17504; 3 aprile 2003, n. 5158;
14 marzo 2002, n. 3756; 17 gennaio 2002, n. 442).
Nè il ricorrente può recuperare la legittimazione ad impugnare adducendo una (presunta) violazione del contraddittorio nei suoi confronti.
La citata legge n. 89 del 2001 contempla – per far valere il diritto all’equa riparazione nascente dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata dei processi – uno schema processuale modellato sul rito dei procedimenti in Camera di consiglio (artt. 737 e ss. c.p.c.). In particolare, il diritto all’equa riparazione è attribuito a chi ha subito un danno per effetto della violazione di quel termine, cioè alle parti del processo cui la violazione stessa è riferita. Il contraddittorio va instaurato "nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di 9 procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Negli altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri" (art. 3, comma 3, L. n. 89/2001, cit.).
La legge stessa, dunque, identifica le parti necessarie (ed esclusive) del procedimento di equa riparazione, parti tra le quali non figura – nè potrebbe figurare – il giudice del processo cui il ritardo è riferito, sia perchè la finalità dell’equa riparazione è indennitaria, non risarcitoria (onde non postula necessariamente l’accertamento di una responsabilità soggettiva dell’organo che ha trattato il processo), sia perchè il relativo diritto è ancorato al dato oggettivo costituito dalla violazione della normativa introdotta con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), cioè alla violazione di un obbligo assunto dallo Stato in una dimensione internazionale e recepito nell’ordinamento interno, tanto che lo Stato è identificato come unico destinatario della pretesa all’indennità. La tesi del ricorrente – secondo cui egli avrebbe un interesse giuridicamente rilevante a partecipare al procedimento disciplinato dagli artt. 2 e ss. della legge n. 89 del 2001 – non può essere condivisa.
E’ vero, infatti, che l’art. 2, comma secondo, della legge ora citata stabilisce che, per l’accertamento della violazione, devono essere considerati la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire comunque alla sua definizione. Ma questi sono parametri, dettati appunto per accertare la violazione (secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea ai Strasburgo), prescindendo da profili di (eventuale) responsabilità per colpa che, dunque, non vengono in rilievo ai fini di quell’accertamento. Basta considerare che possono darsi comportamenti legittimi (o addirittura doverosi nell’ordinamento interno: si pensi alle proroghe dell’esecuzione degli sfratti imposte da norme di legge) che, tuttavia, possono dar luogo a violazioni del termine di durata ragionevole dei processi.
Neppure può essere condivisa la tesi secondo cui l’interesse nascerebbe dall’art. 5 della legge n. 89 del 2001, alla stregua del quale il decreto che accoglie la domanda di equa riparazione è comunicato, a cura della cancelleria, anche al procuratore generale della Corte di conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonchè ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.
In primo luogo, come il testuale dettato normativo rivela (anche nella lettura coordinata con le norme precedenti), il citato art. 5, ponendo l’accento sui "dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento", non intende riferirsi al procedimento di equa riparazione bensì a quello nei quale la violazione del termine di ragionevole durata si è verificata. Pertanto dal testo della norma non può desumersi per quei soggetti alcun interesse giuridicamente rilevante a partecipare al giudizio di equa riparazione.
A parte ciò, si deve osservare che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse (art. 100 c.p.c.). Tale interesse deve essere attuale e non riferirsi a situazioni future e meramente ipotetiche (Cass., 1^ aprile 2002, n. 5635; 19 agosto 2000, n. 11010; 9 ottobre 1998, a 10062; 15 gennaio 1996, n. 264).
Nel caso di specie l’interesse addotto dal ricorrente non è quello di resistere alle pretese indennitarie del X (che potevano essere fondate o infondate a prescindere dai comportamenti del giudice e, peraltro, non erano dirette nei confronti di quest’ultimo), bensì: a) quello di tutelare la propria immagine professionale, asseritamente lesa da alcuni rilievi critici contenuti nel decreto impugnato; b) quello di non subire le conseguenze di eventuali responsabilità per danno erariale o disciplinari, senza aver potuto interloquire nell’ambito del processo di equa riparazione.
Si deve però replicare, quanto al punto sub a), che quell’interesse non è in discussione nel giudizio di equa riparazione (nel quale il comportamento del giudice e delle altre autorità è valutato nella sua consistenza oggettiva, prescindendo da eventuali profili di colpa), sicchè esso resta estraneo al detto giudizio. Quanto al punto sub b), le comunicazioni di cui all’art. 5 della legge n. 89 del 2001 si traducono in semplici segnalazioni, che possono dar luogo ad accertamenti preliminari ma non comportano alcun automatismo per l’avvio di (eventuali) procedimenti di responsabilità. Qualora tale avvio segua, si apre un procedimento nel quale il magistrato è, ovviamente, contraddittore necessario, onde può svolgere ogni attività di difesa. Il decreto emesso nel procedimento ex lege n. 89 del 2001 non fa stato nei suoi confronti, appunto perchè egli non ha rivestito il ruolo di parte in quel procedimento (arg. ex art. 2909 c.c.). E’ vero che gli atti relativi possono essere acquisiti nei giudizi di responsabilità, al fine di trarre da essi elementi di convincimento, ma è vero del pari che tali elementi non hanno alcun effetto vincolante, essendo invece liberamente valutabili dai giudici, e, soprattutto, che l’acquisizione avviene nell’ambito di processi nei quali sono garantiti il contraddittorio e il diritto di difesa, sicchè all’interessato è assicurata ogni possibilità di adeguata contestazione.
Dagli esposti rilievi consegue, altresì, che le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente (segnatamente con riferimento agli artt. 24 e 111 Cost.) devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Alla declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione consegue, per il principio della soccombenza, la condanna del ricorrente al pagamento, in favore del resistente X, delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo ed attribuite al difensore del detto resistente, avv. Giovanni Romano, il quale ne ha fatto richiesta.
Nessuna pronuncia sulle spese, invece, deve essere emessa nei confronti del Ministero della giustizia, che in questa sede non ha svolto attività difensiva.

P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate (nei confronti del resistente X) in complessivi euro 1.200,00= (milleduecento), di cui euro mille per onorari, oltre rimborso spese forfettarie, i.v.a. e c.p.a. come legge, con attribuzione all’avv. Giovanni Romano.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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