Cassazione civile anno 2005 n. 1277 Domande o eccezioni non riproposte Decadenza Responsabilità professionale

PRESCRIZIONE E DECADENZA CIVILE SANITA’ E SANITARI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con atto 30 aprile 1986 X X ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Roma, X X, chiedendone la condX al risarcimento dei danni tutti patiti da essa attrice in conseguenza dell’intervento di mastoplastica riduttiva dei seni eseguito il 3 maggio 1984 sulla persona di essa attrice dal convenuto, specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva.
Ha esposto l’attrice, in particolare, che l’intervento aveva avuto un pessimo risultato sia per la eccessiva riduzione delle mammelle, sia per la presenza di evidenti e grosse cicatrici, di andamento quasi orXntale, a partire dallo sterno.
Costituitosi in giudizio il convenuto ha resistito alla avversa pretesa, opponendo che la rimozione delle mammelle aveva consentito la eliminazione di cisti, che le cicatrici dovevano ritenersi un effetto naturale dell’intervento, del quale l’attrice era stata edotta e infatti per due anni dopo l’intervento la X nulla aveva eccepito e che, infine, la causa delle ridotte dimensioni dei seni andava individuata in uno stato di deperimento.
Svoltasi la istruttoria del caso, nel corso della quale a seguito della morte del convenuto il giudizio era riassunto nei confronti dei suoi eredi, l’adito giudice con sentenza 27 febbraio – 14 maggio 1997 in accoglimento della domanda attrice ha condXto X Siv, X X X, X X, X X e X X, eredi del defunto X X, al pagamento della somma di lire 45.631.950, oltre interessi e spese.
Gravata tale pronunzia dai soccombenti X Siv, X X X, X X, X X e X X, la corte di appello di Roma con sentenza 28 settembre – 24 ottobre 2000 ha rigettato la proposta impugnazione con condX degli appellanti al pagamento delle spese del grado.
Per la cassazione di tale ultima pronunzia hanno proposto ricorso, affidato a due motivi, X Siv, X X X, X X, X X e X X.
Resiste, con controricorso e ricorso incidentale, affidato a tre motivi, X X.
X Siv, X X X, X X, X X e X X resistono con controricorso al ricorso incidentale di controparte e hanno, altresì, presentato memoria.

Motivi della decisione
1. I vari ricorsi avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
2. Con il primo motivo i ricorrenti principali censurano la sentenza impugnata – che, come osservato in parte espositiva, ha rigettato l’appello da loro proposto avverso la sentenza del tribunale di Roma che li aveva condXti al risarcimento dei danni patiti dalla X a seguito dell’intervento di chirurgia plastica eseguito dal loro dante causa X X – lamentando "nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 346 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.".
Si osserva, infatti, che la domanda proposta dalla X, diretta a sentir dichiarare che X X non aveva eseguito correttamente e diligentemente l’intervento chirurgico di mastoplastica riduttiva sulla persona della attrice è stata disattesa dal tribunale di Roma.
Quel giudice, evidenziano i ricorrenti, ha condXto essi concludenti, aventi causa dall’X, solo perchè questi non aveva adempiuto all’obbligo di informare la paziente sul possibile esito negativo dell’intervento.
La sentenza del tribunale – si precisa, ancora, al riguardo – è stata impugnata da essi concludenti sul rilievo che non incombeva al professionista dare la prova della mancata informazione, ma alla controparte dimostrare una tale circostanza (negativa) e la X, pur resistendo a tale deduzione, non aveva riproposto, in grado di appello, la domanda di condX in conseguenza della errata esecuzione dell’intervento (ai sensi dell’art. 346 c.p.c.).
Certo quanto sopra esposto, concludono i ricorrenti, è evidente che la corte di appello non poteva riesaminare la questione, specifica, affermando – come ha affermato – che nella specie "la colpa del medico appare conclamata", rigettando l’appello "esclusivamente su tale presupposto". 3. La deduzione è manifestamente infondata.
Almeno sotto due, concorrenti, profili.
3.1. Premesso che nella specie si deduce un error in procedendo in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado, nel rendere la loro pronunzia, e la circostanza impone un diretto esame degli atti di causa, si osserva che nella specie il tribunale di Roma – contrariamente a quanto si assume nel motivo – non ha affatto "disatteso la domanda della … X".
Si osserva, infatti, che la sentenza del tribunale, dopo avere accertato "ci troviamo … nell’ambito di un intervento determinato esclusivamente da esigenze di carattere estetico e non di natura funzionale", afferma:
– "per quanto attiene alla responsabilità del chirurgo si rileva che questi non ha provato la particolare difficoltà dell’intervento";
– "trova quindi applicazione, hanno riferito ancora quei giudici, il principio sancito da consolidata giurisprudenza secondo cui in tema di danni causati da una operazione chirurgica di non difficile esecuzione il paziente assolve l’onere probatorio a suo carico dimostrando che l’operazione non era di difficile esecuzione e che ne è derivato un risultato peggiorativo, dovendo poi presumersi la inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione da parte del chirurgo, salva la prova contraria a carico del professionista";
– ancorchè sia riportata, nella sentenza di primo grado, l’opinione del consulente tecnico d’ufficio e non del giudicante, circa la asserita assenza di un difetto di esecuzione dell’intervento nonostante le gravissime conseguenze di questo, sul piano estetico non risulta affermato in alcuna parte della pronunzia che nel caso concreto è stata superata la presunzione sopra ricordata;
– specie considerato, altresì, che a pagina 9 della sentenza si precisa, conclusivamente, "deve ritenersi provata la responsabilità del professionista in ordine ai danni subiti dall’attrice essendo sussistente il nesso di causalità tra la sua condotta colposa e gli esiti deturpanti ed invalidanti", ove l’espressione "condotta colposa" chiaramente non può che riferirsi alle modalità di esecuzione dell’intervento, piuttosto che alla mancata informazione (alla quale non sono ricollegabili, palesemente, esiti deturpanti e invalidanti).
3.2. in secondo luogo, anche a prescindere dai pur assorbenti rilievi che precedono , si osserva che l’assunto invocato dai ricorrenti principali è manifestamente infondato in diritto.
La prevalente giurisprudenza di questa Corte, infatti, è costante nell’affermare che la decadenza prevista dall’art. 346 c.p.c. riguarda le domande e le eccezioni in senso proprio, non riproposte in appello: non già le mere argomentazioni giuridiche, ovvero le questioni di diritto e di fatto addotte, a sostegno delle medesime.
(In termini, ad esempio, specie in motivazione, Cass. 6 aprile 2000, n. 4322, nonchè Cass. 7 marzo 1990, n. 1768).
Gli argomenti o le nozioni giuridiche, infatti, si devono sempre ritenere implicitamente richiamati con la semplice istanza di rigetto della impugnazione, anche se si fondano sulla deduzione di particolari fatti e sulla loro interpretazione.
Lo stesso vale per la riconduzione di un rapporto ad una determinata norma o ad un fatto specifico: neppure in questo caso, la mancata espressa riproposizione della tesi difensiva "a" – implica alcuna rinunzia (Cass. 6 aprile 2000, n. 4322. Sempre nel senso che le argomentazioni giuridiche e le questioni di fatto e di diritto addotte a sostegno delle domande e eccezioni espressamente accolte dal primo giudice, ancorchè sulla base di altre argomentazioni devono da intendersi implicitamente richiamate con la proposizione dell’impugnazione o con l’istanza di rigetto di questa, tra le altre, Cass. 25 luglio 1994, n. 6903; Cass. 7 marzo 1990, n. 1768; Cass, 3 aprile 1985, n. 2274; Cass. 5 maggio 1984, n. 2732).
Certo quanto sopra, pacifico che nella specie è stata ritenuta, in primo grado come in appello, la responsabilità del dante causa degli odierni ricorrenti, nell’esecuzione del contratto di prestazione d’opera professionale da costui concluso con la X ancorchè privilegiando alcuni aspetti, piuttosto che altri, sempre dedotti e acquisiti come pacifici in causa, della sua condotta, è di palmare evidenza la infondatezza – come accennato – del motivo di ricorso in esame.
Non sussiste, infatti, la violazione dell’art. 346 c.p.c., dovendosi escludere un onere specifico a carico della appellata vincitrice in primo grado di richiamare l’attenzione dei giudici di appello su tutti gli aspetti della condotta della controparte già dedotti in primo grado, ancorchè per ipotesi diversamente valutati da quel giudice.
Contemporaneamente deve escludersi che sia configurabile la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che questa sussiste unicamente allorchè il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere della parti ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto e diverso da quello domandato e non, certamente, allorchè pone a base della propria decisioni considerazioni di diritto – o di fatto risultanti dagli atti – diverse da quelle prospettate (Cass. 24 giugno 2000, n. 8636, nonchè Cass. 12 ottobre 1999, n. 11455) . 4. Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunziano, ancora, "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5", atteso che:
a) i giudici del merito non hanno condiviso le conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. (secondo le quali, da un lato, non era riscontrabile "una colpa professionale nella esecuzione dell’intervento" e, dall’altro, che gli esiti cicatriziali "in una mastoplastica in cui l’asportazione è così cospicua" sono senz’altro accettabili) motivando scarnamente la loro decisione e omettendo di indicare gli argomenti di cui si sono avvalsi per ritenere erronee le conclusioni del consulente;
b) pur non avendo specificato la consulenza l’ammontare percentuale del danno subito dalla controparte, erroneamente il primo giudice e la corte di appello hanno fissato questo apoditticamente nella misura del 15%, senza considerare che la naturale funzione dell’allattamento non era stata compromessa.
5. Neppure le riferite censure colgono nel segno. si osserva, infatti – in termini opposti, rispetto a quanto presuppone la difesa dei ricorrenti e alla luce di quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non può che ulteriormente ribadirsi – che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.
Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (In argomento, tra le altre, Cass. 7 agosto 2003, n. 11936; Cass. 7 agosto 2003, n. 11918; Cass. 14 febbraio 2003, n. 2222).
L’art. 360, n. 5 – in particolare – contrariamente a quanto suppone l’attuale ricorrente, non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti.
Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.
Certo quanto sopra si osserva che i ricorrenti lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, si limitano – in buona sostanza – a sollecitare una diversa lettura, delle risultanze di causa preclusa in questa sede di legittimità.
Inconferenti, e non pertinenti, ancora, al fine del decidere, si appalesano tutti i richiami al dovere di motivazione del giudice del merito, allorchè – come nella specie – disattende le conclusioni cui sia pervenuto il consulente tecnico.
Perchè, in particolare, sia censurabile – in sede di legittimità – il dissenso, manifestato dal giudice del merito, rispetto alle argomentazioni svolte dal consulente tecnico d’ufficio, è indispensabile che la pronunzia adottata, sia alternativamente, o disancorata dalle risultanze processuali, o priva di congrua e logica motivazione.
Nella specie non ricorre nè una, nè l’altra, delle ricordate condizioni.
Quanto alla prima è indubbio che i giudici di appello hanno valutato, nel rendere il loro giudizio, unicamente le risultanze di causa.
Quanto, alla "logicità" e "congruenza" delle argomentazioni svolte si osserva che la stessa è innegabile.
A prescindere dal considerare che il ctu come riferito dalla sentenza impugnata e in alcun modo contestato dai ricorrenti ha esposto la proprie conclusioni esprimendosi in termini probabilistici e non di certezza – e già tale circostanza rende scarsamente attendibili tutte le considerazioni esposte dallo stesso – è impossibile contestare la correttezza, sul piano logico, di quanto esposto nella sentenza impugnata in margine alle premesse fatte proprie dal consulente.
Pacifico, in particolare – la circostanza è ammessa anche dalla difesa dei ricorrenti – che a seguito dell’intervento, eseguito sulla persona della X dall’X "specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva", fondamentalmente per motivi estetici, sono residuate alla X "mammelle di ridottissime proporzioni, nonchè grosse cicatrici deturpanti lungo l’asse sottomammario e un’irregolare forma dell’aureola mammaria di destra" e pacifico, altresì che nè l’X, nè il consulente tecnico d’ufficio, hanno "fornito alcuna prova in ordine all’intervento di fattori estranei alla … condotta dell’X quali cause della produzione del lamentato evento" logiche appaiono le considerazioni svolte dai giudici del merito nel disattendere le conclusioni del ctu, quanto all’assenza di un errore professionale dell’X. Non può – infatti – come correttamente evidenziato dai giudici di merito, affermarsi che le conseguenze descritte sopra rientrino nella normalità, in caso di interventi di chirurgia estetica "su soggetti bruni".
Quanto, ancora, alla percentuale di invalidità, ampiamente contestata nella parte finale del secondo motivo/ la deduzione è, sotto alcuni profili, inammissibile, sotto altri, manifestamente infondata.
Quanto alla inammissibilità si osserva che nella specie si sollecita, in violazione di quelle che sono i limiti del giudizio di Cassazione, una nuova valutazione dei fatti di causa.
I giudici del merito, inoltre, hanno adeguatamente indicato le ragioni dell’apprezzamento espresso, evidenziando, da un lato, la giovanissima età della parte lesa al momento del fatto, dall’altro, la gravità delle lesioni riportate dalla stessa, specie considerato che l’intervento cui la stessa si era sottoposta aveva "evidente finalità estetica", essendo "destinato a eliminare gli aspetti sgradevoli del corpo del paziente e non a produrne altri come nella specie".
Contemporaneamente, anche a prescindere da quanto precede, si osserva che la deduzione è manifestamente infondata, atteso, da un lato, che specie nella specifica materia de qua (quantificazione del danno estetico) non sussisteva alcun obbligo per i giudici di rimettere il relativo accertamento – essenzialmente discrezionale – alle valutazioni di un consulente tecnico d’ufficio, dall’altro, che il danno è stato quantificato unicamente "nella misura del 15%" proprio perchè "nella specie non è risulta provata la perdita della funzione di allattamento per la parziale asportazione delle ghiandole mammarie" sì che non sono in alcun modo pertinenti al decisimi tutte le argomentazioni svolte dai ricorrenti allorchè si assume che il danno doveva essere quantificato in una percentuale inferiore mancando la prova che sia stata compromessa la naturale funzione dell’allattamento.
6. Quanto al ricorso incidentale i primi due motivi ("violazione art. 360 n. 5 per omessa motivazione nella parte in cui viene affermato non avere la X dato prova del fatto del Dott. X sia venuto meno all’obbligo di informarla sulle conseguenze negative dell’intervento" e "violazione art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per errata applicazione di norma di legge ed insufficiente motivazione"), ancorchè proposti in via principale, devono ritenersi oggettivamente condizionati all’accoglimento del ricorso avversario e vanno, per l’effetto, dichiarati assorbiti a seguito del rigetto di questo, per carenza di interesse al loro esame da parte della ricorrente incidentale.
7. Con il terzo motivo la ricorrente incidentale censura la sentenza gravata lamentando "violazione art. 360 n. 5 per la totale omessa motivazione su specifica domanda proposta dalla appellata".
Si osserva, infatti, che nelle conclusioni rassegnate innanzi alla corte di appello essa concludente aveva chiesto il rigetto della proposta impugnazione con conferma della sentenza di primo grado "con ulteriore rivalutazione e interessi" e che sulla questione – ancorchè fossero trascorsi tre anni e sei mesi tra la data di deposito delle due sentenze – la pronunzia gravata non si è espressa in alcun modo.
8. Oppongono le controparti che la deduzione è inammissibile, da un lato, perchè una tale domanda non era contenuta nella comparsa di costituzione in grado di appello della X, dall’altro, perchè, comunque,trattasi di censura non formulata nel rispetto del modello di cui all’art. 366, n. 4 c.p.c..
9. Entrambe tali deduzioni sono infondate e il li motivo di ricorso merita integrale accoglimento.
Alla luce delle considerazioni che seguono.
9.1. In termini opposti rispetto a quanto assumono i ricorrenti principali e in conformità a una giurisprudenza assolutamente pacifica di questa Corte, in particolare, si osserva che l’obbligo del risarcimento del danno derivante da fatto illecito ha natura di debito di valore e pertanto l’adeguamento della reintegrazione patrimoniale all’effettivo valore monetario al momento della decisione pur costituendo una modificazione della domanda, può (e deve) essere compiuto anche d’ufficio in grado di appello tranne nella ipotesi che il danneggiato domandando espressamente la conferma della determinazione del danno effettuata in prime cure abbia manifestato una volontà non equivoca incompatibile con una richiesta di rivalutazione.
In applicazione dei principi generali in tema di rinuncia, ancora, tale volontà non può desumersi soltanto dalla richiesta del danneggiato di rigetto dell’appello proposto dal danneggiante (Tra le tantissime, cfr. Cass. 18 dicembre 1998, n. 12686. Sempre nel senso che la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del maggior danno non coperto dalla corresponsione degli interessi moratori deve essere operata dal giudice d’appello sino alla pubblicazione della sentenza di secondo grado, anche indipendentemente da un apposito istanza della parte vittoriosa diretta al risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata, trattandosi di debito di valore avente fin dall’origine espressione monetaria, Cass. 20 giugno 2000, n. 8371 e, ancora, sull’obbligo del giudice di appello di operare la rivalutazione della somma liquidata in primo grado fino a tutto il giorno della sua pronuncia anche in assenza di una specifica domanda della parte, Cass. 4 dicembre 1997, n. 12297).
Pacifico quanto precede, non controverso che nella specie la X, con l’atto di costituzione in grado di appello, si è limitata a chiedere la "conferma" della decisione di primo grado, è di palmare evidenza che non vi è stata quella rinunzia, all’ulteriore rivalutazione, presente la quale esclusivamente poteva dirsi precluso alla stessa X chiedere, in sede di precisazione definitiva delle conclusioni, la rivalutazione ulteriore, rispetto alla pronunzia del primo giudice, con esonero per il giudice adito dall’onere di provvedere alla detta rivalutazione anche d’ufficio.
9.2. In alcun modo pertinenti, in secondo luogo, appaiono le considerazioni svolte dai ricorrenti principali al fine di dimostrare la inammissibilità della deduzione di controparte per non avere la stessa indicato i punti trascurati o insufficientemente valutati dalla sentenza gravata.
Ancorchè, per evidente errore materiale (che non rende inammissibile il motivo, atteso che l’effettiva volontà della parte prevale sulla indicazione, eventualmente erronea, delle norme che si assumono violate, Cass. 17 luglio 2003, n. 11202), la ricorrente abbia fatto riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., dal complesso delle argomentazioni svolte nel motivo si ricava che, in realtà, la X ha inteso censurare la violazione, da parte dei giudici a quibus del precetto di cui all’art. 112 c.p.c. e, pertanto, un vizio rilevante ex art. 360 n. 4 c.p.c..
Essendo, allo scopo, sufficiente la deduzione, da un lato, della domanda formulata (o rilevabile d’ufficio) e sulla quale il giudice non ha pronunziato, dall’altro, dell’atto nel quale la stessa è stata introdotta, è palese la insussistenza della dedotta inammissibilità.
La ricorrente incidentale, infatti, oltre a precisare il contenuto della domanda non esaminata (richiesta di condX delle controparti al pagamento della "ulteriore rivalutazione e interessi", rispetto alla sentenza di primo grado) ha anche indicato che la stessa era contenuta "nelle conclusioni riportate dalla sentenza della Corte di appello" (e, pertanto, che trattatasi di richiesta introdotta in causa in occasione della precisazione definitiva delle conclusioni da sottoporre all’esame del collegio).
9.3. Oltre che ammissibile, alla luce dei rilievi sopra esposti, il motivo in esame, peraltro, è fondato.
Certo, infatti, che la corte di appello doveva provvedere sulla rivalutazione e gli interessi spettanti alla X e maturati nell’intervallo tra la pronunzia di primo grado e quella di appello, sulla base della richiesta tempestivamente formulata dalla X ancorchè in sede di precisazione delle conclusioni (alla luce delle considerazioni svolte sopra) e non controverso, ancora, che nessun provvedimento risulta adottato, sul riferito capo di domanda è evidente, come anticipato, che la sentenza impugnata deve essere, sul punto, cassata, con rinvio della causa, per nuovo esame ad altra sezione della stessa corte di appello di Roma, che provvedere anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione.

P. Q. M.
LA CORTE riunisce i ricorsi;
rigetta il ricorso principale;
dichiara assorbiti i primi due motivi del ricorso incidentale;
accoglie il terzo motivo del ricorso incidentale;
cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia la causa, per nuovo esame, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, a altra sezione della Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 25 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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