Cassazione civile anno 2005 n. 1094 Liquidazione e valutazione equitativa Sospensione dei termini processuali in periodo feriale

DANNI IN MATERIA CIV. E PEN. DIRITTI POLITICI E CIVILI LAVORO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
La s.p.a. Impresa ing. La X, con ricorso alla Corte d’appello di Potenza, depositato il 12 febbraio 2003, esponeva che X X, già suo dipendente e da essa licenziato, con ricorso depositato il 2 giugno 1998, aveva agito in giudizio nei suoi confronti innanzi al Pretore di Taranto, chiedendone la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento. Il giudizio di primo grado si era protratto sino al 4 ottobre 2001, data dell’udienza in cui la causa era stata decisa con la lettura del dispositivo. La fase di appello, iniziata con ricorso depositato in data 25 gennaio 2002, si era conclusa con la sentenza resa in data 13 giugno 2002.
La ricorrente deduceva, quindi, la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito, CEDU), per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, non potendo ritenersi tale la durata di tre anni e quattro mesi, nonostante essa fosse stata solerte nel porre in essere gli adempimenti a suo carico e benchè l’istruttoria non avesse neppure richiesto l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio. Secondo l’istante, l’irragionevole durata del processo le aveva cagionato un danno patrimoniale consistente nello "obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra (pari ad euro 79.500,24) ed agli enti, assicuratore e previdenziale, i premi (pari ad euro 10.518,00) ed i contributi (pari ad euro 34.050,00), maturati nelle more di un giudizio" protrattosi per 36 mesi.
Costituitosi il Ministero della giustizia, la Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, con decreto depositato il 5 giugno 2003, ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU ed un danno patrimoniale subito dalla ricorrente e consistito in "una perdita secca: l’aver dovuto corrispondere retribuzioni – nonchè premi e contributi – per una prestazione lavorativa non conseguita", danno riferibile al tempo eccedente il "termine ragionevole" individuato in quello di "diciotto mesi, determinato in relazione alla utilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, alla delicatezza della lite, alla necessità di espletare attività istruttoria e di discutere la causa previo deposito di note difensive".
Relativamente al quantum, la Corte lucana ha, quindi, ritenuto di "dover(lo)" liquidare per ciascun anno (- recte, mese -) di ritardo la somma di euro 2954,00 come calcolata dalla ricorrente società, individuando come moltiplicatore (…) il fattore 24" e, conclusivamente, ha condannato il ministero della giustizia "al pagamento della somma di euro 70896,00 (euro 2954,00 X mesi 24)", oltre al rimborso delle spese del giudizio. Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso il Ministero della giustizia, affidato ad un motivo; ha resistito con controricorso la Impresa ing. La X s.p.a..

Motivi della decisione
1. – Il ricorrente, con un unico motivo di censura, denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della L. 24.3.2001 n. 89 e dell’art. 2697 c.c., art. 6.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.".
Ad avviso del Ministero della giustizia, l’art. 2, legge n. 89 del 2001, non configura un danno risarcibile per la sola circostanza che il processo non abbia avuto una durata ragionevole, ma stabilisce in favore della parte una equa riparazione che, tuttavia, è "legata ad un danno verificato in concreto, non costituendo essa una sanzione pecuniaria dovuta per il solo fatto del ritardo irragionevole".
Deporrebbe a favore di questa interpretazione la circostanza che l’art. 2, comma 3, cit., stabilisce che il giudice determina la riparazione a norma dell’art. 2056, cod. civ., il quale, a sua volta, rinvia agli artt. 1223, 1226 e 1227, cod. civ., sicchè presupposto imprescindibile per la sua attribuzione sarebbe "il verificarsi di un danno che sia conseguenza immediata e diretta del mancato rispetto del suddetto termine" di durata ragionevole del processo, essendo il danno rilevante un evento diverso ed ulteriore rispetto alla eventuale violazione di siffatto termine.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello "ha ritenuto erroneamente ed apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione, di individuare in soli diciotto mesi il termine ragionevole di durata del giudizio di primo grado: con ciò ponendosi in contrasto con i canoni forniti dalla Corte Sopranazionale, che fissa in tre anni la durata del primo grado del giudizio e in due anni quella del giudizio di appello, e senza peraltro dar conto del processo logico-giuridico che l’ha portata ad individuare un termine tanto riduttivo". La delicatezza della lite ed il riferimento ai criteri della giurisprudenza europea avrebbero invece dovuto condurre a ritenere ragionevole la durata del primo grado di tre anni e quattro mesi.
Ad avviso del Ministero della giustizia, erroneamente il decreto ha identificato il danno patrimoniale "con quanto la parte ha dovuto corrispondere al lavoratore e agli enti assicuratori e previdenziali, a causa di un suo comportamento, che le decisioni di entrambi i gradi del giudizio hanno stabilito essere arbitrario ed illegittimo, ovvero l’ingiustificato licenziamento del proprio dipendente". Infatti, è questo un danno che non deriva dalla irragionevole durata del processo, bensì dal licenziamento illegittimo, ascrivibile esclusivamente alla società, che avrebbe potuto revocare il licenziamento, transigere la lite e, quindi, avvalersi in tempi più brevi delle prestazioni del dipendente. Le conseguenze sfavorevoli del giudizio non configurano un danno risarcibile e l’equa riparazione prevista dalla legge n. 89 del 2001 dovrebbe, perciò, essere corrisposta esclusivamente "con riferimento ai danni, diversi ed ulteriori, derivanti ‘in via diretta ed immediatà dalla durata eccessiva della procedura".
Nel caso in esame, conclude il ricorrente, la società istante non ha subito alcun danno a causa della durata, peraltro assai limitata, del giudizio di primo grado e manca il nesso causale tra il danno asseritamene subito e detta durata, sicchè erroneamente il decreto, "senza alcuna motivazione" avrebbe liquidato una "somma considerevole non dovuta per un inesistente danno patrimoniale". 2. – Il ricorso è fondato e deve essere accolto per quanto di ragione.
2.1. – In linea preliminare, deve essere dichiarata infondata l’eccezione con la quale la controricorrente ha dedotto l’inammissibilità del ricorso, in quanto notificato "oltre i trenta giorni dalla notifica" del decreto, tenuto anche conto – sempre a suo avviso – che nella specie non sarebbe applicabile la sospensione dei termini processuali stabilita per il periodo feriale.
Al riguardo occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte si è consolidata nell’affermare che l’art. 3, comma 6, legge n. 89 del 2001, nel prevedere, avverso il decreto della Corte territoriale, il rimedio del ricorso per Cassazione, senza alcuna limitazione in ordine ai motivi proponibili, si riferisce al ricorso ordinario per cassazione (tra le molte, Cass., n. 17650 del 2002; n. 16936 del 2002; n. 15852 del 2002). Questa legge, nel dettare la disciplina del procedimento avente ad oggetto la domanda di equa riparazione e nel prevedere che il decreto della Corte d’appello è "impugnabile per cassazione", non ha peraltro introdotto alcuna deroga alle ordinarie regole procedurali concernenti il relativo ricorso, neppure quanto al termine entro il quale esso deve essere proposto, così come, in altri casi, è accaduto, in quanto il legislatore, eminentemente per esigenze di sollecitudine, ha invece inteso prevedere una riduzione del termine breve per proporre ricorso (ex multis – senza considerare il caso del regolamento di competenza, art. 47, cod.proc.civ. – cfr. art. 99, quinto comma, legge fallimentare; art. 5, legge n. 117 del 1988; art. 56, terzo comma, r.d. n. 1578 del 1933; artt. 155 e 156, legge n. 89 del 1913).
Pertanto, l’espressa previsione del ricorso per cassazione "deve essere intesa come rinvio alle regole ordinarie della impugnazione in questione" (Cass., n. 16936 del 2002).
In mancanza di una deroga espressa, al ricorso è applicabile il termine breve previsto dall’art. 325, secondo comma, cod. proc. civ., termine che, inoltre, deve ritenersi soggetto alla sospensione dei termini processuali stabilita per il periodo feriale.
Secondo un principio più volte affermato, che va qui ribadito, la sospensione dei termini processuali nel periodo dall’1 agosto al 15 settembre ha, infatti, carattere generale e le eccezioni a questa regola, elencate nell’art. 3, legge n. 742 del 1969, hanno carattere tassativo, in quanto è questa una norma eccezionale, quindi, di stretta interpretazione, non suscettibile di esegesi estensiva e, a fortiori, di applicazione analogica. Si tratta di una configurazione che, come condivisibilmente è stato rimarcato, si impone "anche per evidenti esigenze di certezza del diritto e di garanzia della difesa delle parti, che devono essere in grado di desumere espressamente ed univocamente dal testo della legge – e non ricavare per implicito attraverso opinabili operazioni interpretative – se, relativamente alle controversie cui esse siano interessate, i termini processuali siano o non sottratti alla generale sospensione nel periodo feriale" (Cass., n. 12964 del 2002, richiamabile, benchè concernente una diversa materia; successivamente, cfr. Cass., n. 7077 del 2003; n. 6963 del 2003). Orbene, la controversia in esame non è compresa tra quelle alle quali non è applicabile la succitata sospensione e neppure è riconducibile tra quelle di cui all’art. 409, cod. proc. civ. In contrario non rileva, infatti, che il diritto all’equa riparazione sia invocato in riferimento ad un giudizio di siffatta natura, trattandosi di elemento insufficiente a connotare la presente controversia della identica qualificazione, dato che essa ha ad oggetto un diritto che non trae origine da quel rapporto, che dello stesso costituisce mera occasione, poichè il fatto genetico va identificato in una violazione della CEDU in relazione ad un determinato processo (Cass., SS.UU., n. 1340 del 2004). Inoltre, per questa considerazione è del tutto ininfluente, al fine di derivarne l’inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale, la circostanza che la causa sia stata decisa dalla "Corte di appello di Potenza-Magistratura del lavoro", che peraltro attiene ad un profilo sul quale questa Corte non è chiamata a pronunciarsi, in difetto di ogni rilievo delle parti sia nel processo a quo che nel presente giudizio di legittimità, essendo comunque appena il caso di osservare che la succitata designazione attiene alla ripartizione degli affari all’interno dell’ufficio giudiziario e non involge questioni di competenza (Cass., n. 5368 del 2003; n. 3702 del 1987;
n. 5755 del 1982). in applicazione di questo principio, poichè il decreto, secondo quanto emerge dagli atti, è stato notificato il 23/6/03 ed il ricorso, anche avendo riguardo alla notifica ex officio, risulta notificato il 23/9/03 – quindi, tenuto conto della sospensione dei termini nel periodo feriale, nel termine dell’art. 325, cod.proc.civ. – deve affermarsi che l’eccezione di inammissibilità non merita accoglimento.
2.2. – Nel merito, il primo profilo della censura, con il quale il ricorrente si duole della valutazione di irragionevolezza della durata del processo compiuta dalla Corte lucana, è infondato.
La nozione di ragionevole durata del processo, come questa Corte ha più volte affermato, non ha carattere assoluto, bensì relativo e non si presta ad una predeterminazione certa e predefinita, in quanto è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che non permettono di stabilirla facendo riferimento a cadenze temporali rigide ed a schemi valutativi predefiniti. La ragionevolezza della durata di un processo va, quindi, verificata in concreto, in applicazione dei criteri stabiliti a questo scopo dall’art. 2, comma 2, legge n. 89 del 2001, che, imponendo al giudice di accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, richiede appunto di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare (tra le più recenti, Cass., n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004).
I parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno peculiare rilevanza, tenuto conto che essa costituisce il giudice della verifica e chiusura della adeguatezza e della effettività della tutela nazionale (Cass., n. 8529 del 2004) e le sue sentenze costituiscono certo una importante e fondamentale guida ermeneutica (Cass., n. 4207 del 2004). Tuttavia, ciò non esclude l’obbligo del giudice nazionale di apprezzarli ed applicarli alla luce degli elementi che caratterizzano ogni singola fattispecie, in quanto sono solo questi che permettono di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi in giustizia affrettata e sommaria e consentono la corretta applicazione di un criterio quale quello di ragionevolezza, che ha in sè insiti indubbi margini di elasticità.
La valutazione in ordine alla ragionevolezza della durata del processo costituisce, quindi, una tipica valutazione di merito e si risolve in un apprezzamento di fatto che, in quanto tale, è riservato alla Corte territoriale ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizi di motivazione (ex multis, Cass., n. 123 del 2004; n. 13741 del 2003; n. 13211 del 2003; n. 11715 del 2003; n. 1600 del 2003; n. 3 del 2003). Peraltro, la sufficienza della motivazione del decreto occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (decreto) – benchè esso abbia natura sostanziale di sentenza – e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare (Cass., n. 6168 del 2003; n. 1600 del 2003; n. 8 del 2003; n. 16256 del 2002; n. 15852 del 2002). Ciò implica che l’onere motivazionale deve ritenersi adempiuto, qualora si accerti che il giudice dell’equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall’art. 2, comma 2, cit., esplicitando le ragioni del suo convincimento, non essendo necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d’esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie.
2.2.1. – Nel caso in esame, la Corte d’appello ha ritenuto non ragionevole la durata del giudizio, eminentemente in riferimento alla fase di primo grado (tre anni e quattro mesi), dopo averlo "rapportato alla complessità ed alla natura della lite, ed ai parametri fissati dall’Organo sopranazionale". In particolare, il decreto impugnato ha osservato che, "se da un lato la parte ha dato causa ad alcuni rinvii, come quello per l’omessa comparizione del legale rappresentante alla prima udienza, e non appare giustificabile, anche se riconducibile ad una loro esclusiva scelta, peraltro non sanzionata dal g.i. procedente, la mancata comparizione dei testi ad udienze disposte a seguito di rinvio d’ufficio, ciò nondimeno va rilevato che comunque la s.p.a. ha subito il lungo glasso di tempo tra le varie udienze, glasso ascrivibile al solo difetto di organizzazione amministrativa".
La Corte d’appello ha, quindi, esposto le ragioni che l’hanno indotta a non accogliere la deduzione della parte, che aveva indicato quale termine ragionevole quello di sei o sette mesi, sulla base della mera somma dei termini previsti dal codice di rito, ed ha altresì espressamente fatto riferimento al "canone fornito dalla Corte sopranazionale e fissato in tre anni", il giudice del merito ha anche avuto cura di esplicitare che ha ritenuto di dovere valorizzare la circostanza che nella specie si tratta di una controversia di lavoro ed è pervenuto a determinare il termine ragionevole, avendo riguardo "alla utilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, alla delicatezza della lite, alla necessità di espletare attività istruttoria e di discutere la causa previo deposito di note difensive", ossia è partito da ipotesi astratte, che ha poi riesaminato alla luce delle specifiche caratteristiche e circostanze del caso in questione.
Il decreto risulta, quindi, caratterizzato da un impianto argomentativo conciso, ma che certo si sottrae alla censura del ricorrente, non essendo sostenibile – come egli ha invece dedotto – che il termine ragionevole sarebbe stato fissato "apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione" e neppure che la Corte si sarebbe sottratta all’onere di "dar conto del processo logico giuridico che l’ha portata ad individuare" il termine. Le argomentazioni svolte sono, infatti, logicamente coerenti e congruenti, immuni da contraddizioni e fondate sull’applicazione dei parametri stabiliti dall’art. 2, comma 2, legge n. 89 del 2001.
La motivazione appare, perciò, del tutto adeguata e discutere della valutazione formulata dalla Corte d’appello implicherebbe una revisione del giudizio di merito non consentita in questa sede, poichè il ricorrente, con il profilo in esame, muove a tale motivazione una diretta, inammissibile censura di merito, proponendo una sua valutazione, alternativa a quella accolta dal decreto impugnato. Inoltre, e ciò si osserva in riferimento alla pure prospettata censura di violazione dell’art. 2, legge n. 89 del 2001, il termine ragionevole di durata, per quanto sopra esposto, è stato individuato facendo corretta applicazione dei criteri stabiliti dal secondo comma di detta norma, avendo riguardo alla giurisprudenza della Corte europea, apprezzata alla luce dei parametri fattuali della fattispecie concreta, ossia proprio in aderenza al dettato della norma che infondatamente si assume violata.
2.3. – In riferimento al secondo profilo di censura, concernente il riconoscimento e la quantificazione del danno patrimoniale asseritamente subito dalla controricorrente, va ricordato che dalla violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1 della CEDO, deriva il diritto ad una equa riparazione della parte che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di questa violazione (art. 2, comma 1, legge n. 89 del 2001).
La previsione del danno (patrimoniale o non patrimoniale) come elemento generatore del diritto all’equa riparazione non altera peraltro la consistenza di quest’ultimo quale credito per fatto lecito. L’equa riparazione, secondo una configurazione più volte affermata da questa Corte, che il Collegio fa propria, ha infatti natura indennitaria, non risarcitoria, in coerenza con il disposto dell’art. 41 della CEDU e come si evince altresì, sul piano testuale, dai richiami all’equità e al limite delle risorse disponibili, dall’assenza di riferimenti all’elemento soggettivo della responsabilità, dall’adozione del termine "indennizzo" (art. 3, comma 7, legge n. 89 del 2001), e, sul piano logico-sistematico, dal rilievo che la violazione della Convenzione in riferimento al rispetto del termine ragionevole non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043, cod. civ..
L’equa riparazione costituisce dunque una obbligazione che non nasce ex delicto, ma ex lege, riconducibile agli "atti o fatti idonei a produrla secondo l’ordinamento giuridico" (art. 1173, cod. civ.; per tutte, Cass., 6071 del 2004; n. 14885 del 2002; n. 11600 del 2002) e che, perciò, prescinde dalla colpa dell’agente (Cass., n. 119 del 2004; n. 16053 del 2003; n. 920 del 2003; n. 15229 del 2002).
2.3.1. – Il danno risarcibile nel caso di violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU è peraltro diverso da quello connesso alla vicenda giudiziaria per la quale la stessa è dedotta (Cass., n. 13741 del 2003; n. 4 del 2003; n. 18130 del 2002; n. 15449 del 2002;
n. 13422 del 2002; n. 11987 del 2002), in quanto "non è infatti (e non può essere) rappresentato dal bene della vita dedotto nel processo irragionevolmente lungo" (Cass., n. 3143 del 2004), non è quello di cui, eventualmente, si controverte nella causa antecedente, il cui soddisfacimento dipende unicamente dall’esito di tale causa, bensì è lo specifico pregiudizio derivato alla parte dal fatto che la controversia si è irragionevolmente protratta nel tempo (Cass., n. 6163 del 2003).
In tesi, può certo accadere che, in taluni casi, l’esito della causa antecedente possa avere un indiretto riflesso anche sulla identificazione e sulla misura del pregiudizio sofferto dalla parte a cagione della eccessiva durata del giudizio. Tuttavia, ciò non può determinare equivoci di sorta, occorrendo mantenere "netta la distinzione tra l’oggetto di detta causa e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia" (Cass., n. 6163 del 2003). Dalla imprescindibilità di questa differenziazione deriva che dall’area del danno risarcibile "debbono escludersi tutti quei pregiudizi che sono connessi alla decisione di merito del processo, dal momento che il pregiudizio da valutare in sede di equa riparazione non può costituire una duplicazione del danno apprezzato nel giudizio a quo" (Cass., n. 3143 del 2004). Ciò implica che il giudice dell’equa riparazione, una volta accertata l’esistenza della violazione, è tenuto ad individuare, sulla scorta degli elementi che la parte ricorrente ha l’onere di fornirgli, quali siano stati gli effetti pregiudizievoli del ritardo, motivando in modo adeguato – benchè con la sintesi alla quale sopra si è fatto cenno – la sua determinazione.
2.3.2. – Il danno risarcibile è, inoltre, esclusivamente quello causalmente riconducibile alla violazione della CEDU, essendo irrilevanti il profilo soggettivo dell’agente e l’indagine sulla colpa, poichè l’obbligazione indennitaria deriva – come sopra si è precisato – da un’attività lecita dello Stato-apparato (Cass., n. 6071 del 2004). Peraltro, con specifico riguardo alla legge n. 89 del 2001, e proprio in riferimento all’identificazione del danno patrimoniale determinato dalla irragionevole durata del processo, questa Corte ha anche già affermato che al riguardo "non può che farsi governo del principio della causalità adeguata, principio cardine del nostro ordinamento e recepito dall’art. 41, c. 2, c.p., idoneo ad accertare se quel danno che si lamenti sia riconducibile alla ‘condottà od al fatto ipotizzato come generatore" (Cass., n. 6071 del 2004). Per questo principio, che ha segnato il distacco dalla concezione condizionalistica della conditio sine qua non, propria del diritto romano, deve escludersi che ogni accadimento che si inserisca nella concatenazione causale sia per ciò stesso causa dell’evento e devono ritenersi causa dell’evento solo quegli accadimenti che ne sono causa diretta, con la conseguenza che i fatti antecedenti o sopravvenuti fanno escludere il nesso di causalità, quando siano di per sè sufficienti a determinare l’evento.
Dunque, "il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che si ricolleghi al ritardo stesso sulla base di una normale sequenza causale (id quod plerumque accidit)" (Cass., n. 2382 del 2003). In altri termini, danno risarcibile è quello che costituisce "conseguenza "immediata e diretta" del fatto causativo" (ex art. 1223, richiamato dall’art. 2, comma 3, legge n. 89 del 2001, attraverso il rinvio all’art. 2056, cod. civ., Cass., n. 123 del 2004), in quanto sia ricollegabile al superamento del termine e trovi causa nel non ragionevole ritardo nella definizione del processo. In tal senso va ricordato che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è appunto consolidata nel richiedere, in riferimento al danno patrimoniale, la prova di "un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura" ed il danno (Corte europea dei diritti dell’uomo, 16 maggio 2002, N. c. Italia; 28 marzo 2002, M. c. Italia; 12 febbraio 2002, l. c. Italia; 11 dicembre 2001, S. c. Italia), in forza di un principio fatto proprio da questa Corte, sottolineando – proprio in relazione al danno patrimoniale – che l’equa riparazione "compete solo nella misura in cui essa valga ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo" (Cass., n. 15106 del 2004; cfr. anche Cass., n. 7524 del 2004).
2.3.3. – Una volta accertata l’esistenza del nesso di causalità, nei termini precisati, può convenirsi con la conclusione che, "in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione spetta a tutte le parti del processo stesso, attori o convenuti, a prescindere dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, perchè l’esito favorevole della causa … non è di regola condizione di azionabilità della pretesa indennitaria, salvi i casi di abuso" (Cass., n. 13211 del 2003; n. 6163 del 2003; n. 3973 del 2003; n. 3410 del 2003; n. 1069 del 2003).
Ciò significa che l’indennizzo va senz’altro negato "alla parte soccombente che risulti aver promosso una lite temeraria o avere artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie sub art. 2 l. 89/2001: configurando ciò una ipotesi di abuso del diritto, nella forma peculiare dell’abuso del processo" (Cass., n. 3410 del 2003). La piena consapevolezza della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità può, quindi, essere causa d’inesistenza del danno patrimoniale, qualora sia provata dalla parte che la eccepisca per negare l’esistenza dei danni eventualmente addotti (in tal senso, Cass., n. 13741 del 2003, benchè in una fattispecie concernente il danno non patrimoniale, ma con principio utilmente richiamabile nel caso in esame; cfr. anche, Cass., n. 17650 del 2002).
Tuttavia, questa configurazione non esclude affatto che, come pure ha precisato questa Corte, in armonia con un principio affermato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’esito del processo oggetto del ricorso per violazione del termine ragionevole, può essere apprezzato anche in mancanza di accertamento della ricorrenza di un’ipotesi di abuso del diritto, (Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1987, L. c. Regno Unito; 18 febbraio 1989, L. c. Italia), poichè, in una prospettiva valida anche nel quadro dell’ordinamento interno in riferimento alla legge n. 89 del 2001, esso può comunque concorrere a determinare l’entità del danno (Cass., n. 12935 del 2003; n. 2478 del 2003). L’esito del processo può dunque "avere un indiretto riflesso anche sull’identificazione e sulla misura del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza della eccessiva durata della causa stessa" (Cass., n. 6163 del 2003).
2.3.4. – Identificati la natura dell’obbligazione, il danno risarcibile, la struttura del nesso di causalità e l’eventuale rilevanza dell’esito della lite, deve affermarsi che la natura indennitaria e non risarcitoria dell’equa riparazione, la sua configurazione quale obbligazione ex lege, riconducibile, nel quadro delle fonti di cui all’art. 1173, cod. civ., agli "atti o fatti idonei a produrla secondo l’ordinamento giuridico", non fondano alcun automatismo nella sua attribuzione – in particolare, nell’attribuzione del danno patrimoniale – in favore del soggetto che lamenti la violazione del suo diritto alla ragionevole durata del processo.
Al riguardo è sufficiente ricordare che, di recente, le Sezioni Unite civili hanno rimarcato che l’art. 2, legge n. 89 del 2001, ha espressamente ricollegato l’indennizzo all’avere la parte "subito un danno patrimoniale o non patrimoniale", non considerando quindi a questo fine sufficiente l’accertamento della mera violazione della CEDU. La norma è caratterizzata da una formula che non impedisce "di ravvisare una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità strettamente correlata alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale".
Pertanto, "mentre l’esistenza del primo, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione", è solo per il danno non patrimoniale che può parlarsi "di prova (del danno) di regola in re ipsa" (Cass., SS.UU., n. 1338 del 2004).
Le Sezioni unite civili hanno, quindi, avuto cura di eliminare ogni equivoco, rimarcando l’impossibilità della equiparazione, sotto il profilo probatorio, tra danno patrimoniale e non patrimoniale.
Infatti, è solo per quest’ultimo che, "provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale", salvo che questa consequenzialità, normale e non necessaria o automatica, trovi, "nel singolo caso concreto, una positiva smentita", in presenza di circostanze che dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate (Cass., SS.UU., n. 1338 del 2004).
La tipologia di danno "patrimoniale" che il ricorrente può legittimamente allegare è, invece, soggetta alle ordinarie regole probatorie di cui all’art. 2697, cod. civ., sicchè grava sulla parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere "di dimostrare rigorosamente il danno (patrimoniale appunto) lamentato" (Cass., n. 12935 del 2003; n. 2478 del 2003), secondo un principio enunciato anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha infatti costantemente liquidato il danno patrimoniale dedotto dagli interessati esclusivamente nel caso in cui ne era stata fornita la piena prova (Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 luglio 1987, F. c. Governo Olandese; 28 giugno 1990, S. c. Svezia; 19 febbraio 1991, M. c. Italia; più di recente, costituiscono conferma di questo indirizzo, 16 maggio 2002, N. c. Italia; 28 marzo 2002, M. c. Italia;
12 febbraio 2002, l. c. Italia; 11 dicembre 2001, S. c. Italia).
Pertanto, incorre nel vizio di violazione di legge la pronuncia che faccia derivare il danno patrimoniale in modo automatico dal fatto in sè della durata del processo.
2.3.5. – Nel quadro dei principi delineati, il secondo profilo della censura merita di essere accolto.
La sentenza impugnata premette che la parte ha dedotto d’avere subito un danno patrimoniale costituito dallo "obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra", nonchè i contributi assicurativi e previdenziali "maturati nelle more di un giudizio durato in misura non ragionevole". La motivazione che ha fondato l’accoglimento della domanda consiste, quindi, nella considerazione che da questa durata irragionevole del giudizio "è derivato un danno alla s.p.a. concretizzatosi in una perdita secca: l’aver dovuto corrispondere retribuzioni – nonchè versare premi e contributi – per una prestazione lavorativa non conseguita", quantificato per ciascun mese di ritardo nella "somma di euro 2954,00 come calcolata" dalla parte.
L’affermazione nella quale si risolve la motivazione dimostra che la Corte territoriale non ha fatto buon governo dei principi sopra richiamati, ancor più a causa della mancanza di ogni considerazione sulla natura dell’indennità posta a carico del datore di lavoro dall’art. 18, quarto comma, legge n. 300 del 1970. Quest’ultima è, infatti, la norma di riferimento, in quanto il giudizio la cui durata è stata ritenuta irragionevolmente lunga aveva ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento individuale disposto dalla s.p.a.
Impresa ing. La X, dichiarato all’esito illegittimo, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione.
La società soccombente ha dedotto che il danno patrimoniale subito a causa della durata del succitato giudizio sarebbe costituito appunto dalla somma che è stata condannata a pagare al lavoratore "dal licenziamento alla reintegra". Questa prospettazione rende, quindi, necessario ricordare che la norma da ultimo richiamata prevede che il giudice, con la sentenza con la quale ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, "condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento (…) stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione", disponendo altresì che "in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto".
Si tratta di un’indennità che, secondo il più recente orientamento espresso da questa Corte, al quale il Collegio ritiene di dovere aderire, in quanto più aderente alla formulazione letterale della norma, non ha "natura retributiva", bensì ha "natura risarcitoria piena ed esclusiva". Infatti, la "dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, con esclusione della rilevanza dei profili del dolo o della colpa del recedente", in quanto il risarcimento eccedente la misura fissa minima (pari a cinque mensilità) richiede invece che sia "accertata la responsabilità contrattuale sulla base delle norme del codice civile" (Cass., n. 8263 del 2000; da ultimo, nello stesso senso, Cass., n. 12102 del 2004; n. 3509 del 2004; n. 3114 del 2004; per la chiara configurazione del richiamo alla retribuzione quale parametro per la quantificazione del danno, anzichè quale oggetto di una specifica obbligazione nascente dalla reviviscenza della lex contractus, Cass., n. 10307 del 2002; analogamente, anche Cass., n. 3509 del 2004) e cioè la sussistenza degli estremi dell’illecito civile imputabile al datore di lavoro (Cass., n. 9464 del 1998).
In altri termini, costituisce indefettibile presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro l’imputabilità a costui dell’inadempimento secondo il precetto generale dell’art. 1218, cod. civ. – fatta eccezione per la misura minima dell’indennità fissata ex lege, non cumulabile con l’indennità risarcitoria – che condiziona l’esistenza del danno risarcibile (Cass., n. 3509 del 2004; n. 10260 del 2002; n. 8621 del 2001). L’obbligo del risarcimento del danno non è dunque collegato ad una forma di responsabilità oggettiva, deve essere escluso qualora il rifiuto della prestazione sia giustificato da un motivo legittimo (Cass., n. 10260 del 2002) ed il datore di lavoro può andare esente da responsabilità, ovvero invocare una responsabilità attenuata, qualora dimostri, ex art. 1218, cod.civ., che l’inadempimento è ascrivibile ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile (Cass., n. 3114 del 2004).
La natura risarcitoria di questa indennità è stata affermata anche dalla Corte costituzionale – in particolare, in riferimento alla quota irriducibile – con la puntualizzazione che essa rinviene "la sua radice nel rischio d’impresa" ed è fondata sulla "previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione iuris et de iure di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo" della facoltà di recesso (Corte Cost., n. 420 del 1998; il principio è stato poi fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte ed affermato, da ultimo, da Cass., n. 12102 del 2004). Siffatta previsione, ha altresì sottolineato il giudice delle leggi, neppure si pone in contrasto con valori costituzionali, in quanto è frutto di un "non irragionevole bilanciamento" di interessi ed è strumentale rispetto allo scopo di riequilibrare il potere riconosciuto al datore di lavoro a fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione (Corte Cost., n. 420 del 1998).
Alla luce dei principi che si sono riassunti, deve ritenersi che la sentenza impugnata non abbia correttamente affrontato e risolto la questione dell’identificazione del danno patrimoniale risarcibile per effetto della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. La pronuncia, anche a causa della mancata considerazione della natura e della specifica disciplina dell’indennità che la società è stata condannata a pagare, ha infatti derivato il danno patrimoniale in modo automatico dal fatto in sè della durata del processo, commisurandolo, in buona sostanza, a detta indennità. La Corte territoriale – in contrasto con i principi sintetizzati nel 2.3.1 – è pervenuta in tal modo a configurare quale danno patrimoniale risarcibile ex art. 2, legge n. 89 del 2001, un pregiudizio direttamente connesso alla decisione di merito del processo, riconducibile all’atto illegittimo posto in essere dal datore di lavoro ed all’illecito civile ascrittogli, rendendo il giudizio di equa riparazione un mezzo attraverso il quale è stato replicato il merito della precedente controversia, senza considerare che la spettanza dell’indennità commisurata alla retribuzione costituiva il bene della vita dedotto nel processo giudicato irragionevolmente lungo, non già lo specifico pregiudizio derivante dalla durata del medesimo.
Inoltre, anche a causa dell’omessa esplicitazione di ogni considerazione in ordine alla natura dell’indennità ex art. 18, quarto comma, cit., alle ragioni che la fondano, alle modalità con le quali deve essere determinata, l’affermazione, l’identificazione e la quantificazione del danno sono state operate in violazione dei principi richiamati ai 2.3.2 e 2.3.3., quindi erroneamente. In particolare, non risulta in alcun modo apprezzata la circostanza che l’obbligo di corrispondere la somma de qua è per una quota fissa ed irriducibile ed ha carattere di penale che trova radice esclusivamente nel rischio di impresa. Per la residua parte, come è stato sopra precisato, essa non è oggetto di un’obbligazione derivante dalla reviviscenza della lex contractus, costituendo la retribuzione non corrisposta a seguito del licenziamento e fino alla reintegrazione nel posto di lavoro un mero parametro per la liquidazione del danno da risarcire, derivante dall’illecito civile imputabile al datore di lavoro. La Corte d’appello non ha, quindi, tenuto conto che danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2, legge n. 89 del 2001, è soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, che costituisce l’effetto immediato e diretto di tale ritardo al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale. La mancata, corretta valutazione dell’oggetto del giudizio che si è ritenuto protrattosi per una durata irragionevole e della natura dell’obbligo a carico del datore di lavoro ha peraltro anche condotto alla omissione della doverosa valutazione del suo esito e delle ragioni stesse dell’obbligo posto a carico della società, che invece occorre considerare ed apprezzare allo scopo di valutarne l’incidenza sull’identificazione e sulla misura del pregiudizio patrimoniale asseritamente subito dalla parte a causa di detta eccessiva durata. L’esistenza del danno patrimoniale, in buona sostanza, neppure ha costituito oggetto di specifica dimostrazione, come invece è necessario per quanto precisato al 2.3.4., ma è stato derivato automaticamente dalla ritenuta durata irragionevole del processo.
In conclusione, sussiste il vizio denunciato e, conseguentemente, il ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza cassata, con rinvio della causa alla stessa Corte di appello di Potenza, ma in persona di giudici diversi, che provvedere al riesame della controversia, conformandosi al principio enunciato, pronunciandosi inoltre anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P. Q. M.
La Corte, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Potenza, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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