Cassazione civile anno 2005 n. 1063 Interessi Liquidazione e valutazione equitativa Svalutazione monetaria

AVVOCATO E PROCURATORE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Gli Avv.ti X X e X X, a-vendo prestato la loro opera professionale in favore dell’Arciconfraternita Sant’X dè X – in un giudizio tra la stessa ed il Comune di Messina innanzi alla corte d’appello di Messina e nel successivo giudizio di cassazione nonchè in altro giudizio tra la stessa e X X ed altri pure innanzi alla corte d’appello di Messina e nel successivo giudizio di cassazione – senza ottenere dalla cliente il compenso loro dovuto, di questo chiedevano la liquidazione alla corte d’appello di Messina con ricorso depositato il 12.9.00.
Con ordinanza 5.7.01, successivamente corretta con ulteriore ordinanza 4.9.01, il giudice adito, nella dichiarata contumacia della convenuta ritualmente intimata e non costituitasi, liquidava ai professionisti, per l’opera prestata in favore della cliente, L. 26.117.000 con accessori ed interessi moratori dal 7.4.91 quanto al primo giudizio, L. 62.609.450 con accessori ed interessi dal 25.3.99 quanto al secondo giudizio, L. 96.796.500 con accessori ed Interessi dal 1.12.92 quanto al terzo giudizio, L. 31.455.950 con interessi dal 15.4.93 quanto al quarto giudizio, compensando in fine le spese del procedimento.
Avverso tale ordinanza l’Arciconfraternita S. X dè X proponeva ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. formulando tre motivi di censura.
Resistevano con controricorso gli Avv.ti X e X contestualmente proponendo ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

Motivi della decisione
I due ricorsi, proposti avverso il medesimo provvedimento e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 CPC. Vanno, preliminarmente, esaminate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso principale sollevate in rito dai controricorrenti, dacchè un rigoroso ordine di trattazione delle questioni non si richiede se non ai fini di un’esposizione svolta secondo un iter logico- consequenziale, mentre altrettanto non può dirsi allorchè si verta in tema di questioni pregiudiziali o preliminari, la soluzione delle quali costituisca l’imprescindibile antecedente dell’eventuale successiva trattazione delle altre questioni, che ne resta condizionata e che ne deve, pertanto, essere necessariamente preceduta; in particolare, la decisione in rito della questione sull’ammissibilità del ricorso, determinando, ove risolta in senso negativo, un’ipotesi di difetto di giurisdizione (Cass. 11.12.99 n. 13898, 11.6.98 n. 5832, 8.10.98 n. 9973, 26.6.98 n. 6335, SS.UU. 14.3.90 n. 2078), si pone come ineludibilmente pregiudiziale alla decisione nel merito, potendone essere ostativa.
Con un primo argomento, si eccepisce la tardività dell’impugnazione, in quanto, notificatosi il provvedimento di cui trattasi il 14.9.01 con elezione di domicilio in Messina alla Via Duca degli Abruzzi n. 3 presso l’Avv. X X, contestualmente nominato procuratore e difensore degli istanti in ogni fase e grado del giudizio, l’atto contenente il ricorso era stato, ad avviso dei resistenti, erroneamente ed inutilmente notificato il 7.11.01 in Messina, Via Consolare Pompea, Complesso l’X n. 51 palazzina B, luogo estraneo all’indicato domicilio eletto, per il che nessuna valida impugnazione sarebbe stata proposta entro termine di legge, scaduto il 13.11.01.
L’eccezione non merita accoglimento.
Premesso che l’impugnazione è stata notificata non in un luogo estraneo al domicilio delle controparti bensì nel domicilio dalle stesse eletto ai fini del procedimento di liquidazione introdotto innanzi alla corte d’appello di Messina e conclusosi con l’impugnato provvedimento, è del tutto ininfluente, ai fini della corretta individuazione del luogo di notifica dell’impugnazione e, consequenzialmente, della tempestività della stessa, che il detto provvedimento fosse stato notificato, il 14.9.01, congiuntamente ad un pedissequo precetto di pagamento nel quale gli intimanti Avv.ti X e X venivano dichiarati "elettivamente domiciliati presso e nello studio dell’Avv. X X sito in Messina, via Duca degli Abruzzi n. 3".
Detta elezione di domicilio, infatti, nulla aveva a che vedere con l’elezione di domicilio di cui all’art. 330/1 CPC – a seguito della quale l’impugnazione può essere validamente notificata soltanto nel luogo espressamente indicato – in quanto effettuata nel diverso contesto del precetto, in conformità al combinato disposto degli artt. 479 e 480 CPC ed ai differenti fini del processo d’esecuzione;
onde la conoscenza della sentenza in tal guisa acquisita al di fuori della specifica forma stabilita dalle pertinenti disposizioni del codice di rito era del tutto improduttiva d’effetti agli specifici fini dell’impugnazione ed, in particolare, a quello dell’indicazione al destinatario del luogo, diverso da quello risultante nell’elezione di domicilio effettuata nel giudizio di merito, ove eseguirne la notificazione, non essendo in tal caso applicabile neppure il principio del raggiungimento dello scopo dell’atto, dal momento che il luogo indicato con detta elezione di domicilio rimane esclusivamente connesso all’introduzione del processo d’esecuzione e non al giudizio di merito, nell’ambito del quale soltanto può e deve operare l’impugnazione della decisione giudiziaria anche se, nel frattempo, questa venga utilizzata quale titolo legittimante all’esecuzione forzata (Cass. 24.10.03 n. 15999, 19.8.02 n. 12240, 13.8.01 n. 11088, 3.5.99 n. 4397, 2.4.97 n. 2873).
Con un secondo argomento, si eccepisce l’omessa indicazione, nel contesto del ricorso, dei documenti prodotti, invocando precedenti giurisprudenziali per i quali detta omissione comporta l’inammissibilità dell’impugnazione.
L’eccezione non merita accoglimento.
L’onere della produzione dei documenti e dell’indicazione degli stessi nel contesto del ricorso od in calce ad esso attiene, infatti, com’è agevole desumere dai precedenti cui è fatto riferimento e da ulteriori altre conformi pronunzie, alla peculiare ipotesi dell’impugnazione per cassazione proposta da soggetto diverso rispetto a quelli nei cui confronti è stata pronunziata la decisione impugnata, nel qual caso la legittimazione all’impugnazione, costituendo condizione d’ammissibilità del ricorso, dev’esser dedotta e comprovata mediante indicazione e produzione della relativa documentazione nei modi di cui all’art. 372/11 CPC, in difetto di che, ove a tali adempimenti non si fosse già provveduto, appunto, in sede di redazione e deposito del ricorso, questo sarebbe inammissibile, in quanto non si potrebbe procedere all’esame dei documenti irritualmente prodotti e, quindi, all’accertamento della legittimazione del ricorrente (Cass. 12.2.04 n. 2702, 4.2.02 n. 1468, 24.8.00 n. 11077, 18.2.00 n. 1822, SS.UU. 21.2.96 n. 1325); al di fuori di tale ipotesi, e di quella relativa all’impugnazione di nullità della sentenza per vizi suoi propri, dipendenti dalla mancanza dei requisiti essenziali di sostanza e/o di forma, nessuna produzione di documenti è consentita in sede di legittimità e, quindi, non ci sono indicazioni da fornire al riguardo con il ricorso.
Nella specie non ricorre alcuna delle due menzionate ipotesi per le quali è necessaria e consentita la produzione di documenti, onde nessuna documentazione doveva produrre od indicare la ricorrente, mentre, ovviamente, non le era non solo imposto ma neppure consentito, attesi i limiti del giudizio di legittimità e la preclusione di cui al richiamato art. 372 CPC, produrre documenti concernenti il merito della controversia diversi da quelli già acquisiti nella precedente fase e fare ad essi riferimento nelle svolte difese.
Con un ulteriore argomento, si eccepisce l’inammissibilità del ricorso per essere la ricorrente principale rimasta contumace nel giudizio di merito e per non avere la stessa formulato, nè potendo obiettivamente formulare in difetto dei necessari presupposti, istanza di rimessione in termini ex art. 294 CPC; per essere, inoltre, i motivi di ricorso inammissibili in quanto basati su domande ed eccezioni nuove non consentite nel giudizio di legittimità.
Neppure tali eccezioni meritano accoglimento.
La contumacia nel precedente grado o nella precedente fase del giudizio non priva, infatti, la parte del diritto d’impugnazione in ordine alla decisione con la quale quel grado o quella fase si siano conclusi, mentre la rimessione in termini attiene esclusivamente alle attività difensive, istruttorie e probatorie, da svolgersi nella fase di merito; pertanto, la contumacia della parte nella detta fase non impedisce alla stessa il ricorso per cassazione, inteso a far valere gli eventuali errori del giudice a quo, peraltro quali deducibili con esclusivo riferimento allo stato degli atti come cristallizzato a conclusione della fase di merito, mentre è questione d’inammissibilità non del ricorso ma, se mai, dei singoli motivi e, quindi, di consequenziale rigetto del ricorso e non di declaratoria d’inammissibilità dello stesso, la novità delle questioni con i detti motivi sollevate.
Ciò che, infatti, si rileverà di seguito.
Si può, dunque, procedere all’esame dei motivi prospettati nel ricorso principale.
Con il primo dei quali la ricorrente – denunziando violazione del principio del ne bis in idem e motivazione apparente – si duole che il giudice a quo non abbia rilevato come la liquidazione delle spese del giudizio, anche in riferimento al grado d’appello ed alla fase di cassazione, avesse già avuto luogo con provvedimento adottato dal tribunale di Messina a seguito d’istanza proposta dalla controparte il 10.12.99 ed abbia, inoltre, limitato la giustificazione dell’entità delle somme riliquidate al solo richiamo del valore e dell’importanza della causa nonchè dell’impegno profuso dai professionisti.
Con il secondo motivo, la ricorrente – denunziando violazione degli artt. 132 e 156 CPC e vizio di motivazione – si duole che il giudice a quo, nel liquidare in L. 96.796.500 il compenso dovuto ai professionisti per il giudizio d’appello, compresa l’inibitoria, e per quello di cassazione, abbia violato il disposto dell’art. 6 delle tariffe forensi accettando il valore della causa (15 o 6 miliardi di lire) quale desunto dalla controparte istante non dall’oggetto della domanda nel momento iniziale della lite, bensì dall’atto introduttivo d’altro diverso giudizio, mentre per il giudizio in discussione avrebbe dovuto applicare il parametro del valore indeterminato rilevante, ed abbia, inoltre, omesso di fornire le ragioni dell’operata liquidazione.
Con il terzo motivo, la ricorrente – denunziando violazione degli artt. 1224 e 1282 CC – si duole che il giudice a quo abbia riconosciuto, sulla somma liquidata alla controparte, gli interessi moratori dal 7.4.91 (per il giudizio n. 1), dal 25.3.94 (per il giudizio n. 2) e dal 1.12.92 (per i giudizi nn. 3 e 4) senza tener conto che, essendovi contestazione sulle somme da corrispondere, solo lo stesso provvedimento di liquidazione adottato era idoneo a costituire in mora il debitore e, quindi, a far decorrere gli interessi.
Nessuno dei riportati motivi – che, per identità delle ragioni per le quali vanno disattesi, possono essere trattati congiuntamente – merita accoglimento.
Le varie questioni di cui sopra, infatti, non hanno formato oggetto di trattazione nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dall’esame del provvedimento impugnato, ond’è che, sebbene trattisi di questioni di diritto che potrebbero, tuttavia, essere invocate in sede di legittimità, poichè introducono temi di dibattito completamente nuovi, implicando accertamenti in fatto non effettuati in fase di merito e decisione su elementi di giudizio pure in fatto sui quali non si è svolto il contraddittorio nella fase medesima, stanti la natura ed i limiti del giudizio di legittimità, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza impugnata in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto nello stesso già proposte e dibattute, non possono essere prese in considerazione.
In proposito questa Corte ha, infatti, avuto ripetutamente occasione d’evidenziare come i motivi del ricorso per cassazione debbano investire, a pena d’inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano già formato oggetto di contraddittorio e che siano, dunque, già comprese nel thema decidendum del giudizio di merito quale fissato dalle deduzioni e dalle richieste delle parti, mentre non è consentita – salvo trattisi di questioni rilevabili anche d’ufficio, ipotesi che non ricorre nella specie – la prospettazione di questioni che modifichino la precedente impostazione difensiva od una del tutto nuova ne introducano, in tal guisa stravolgendo quella della controparte in violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, con il porre a fondamento delle domande od eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nella fase di merito o questioni di diritto fondate su elementi di fatto nuovi o diversi rispetto a quelli dedotti in detta fase ed in ragione dei quali s’era svolta l’avversa difesa (e pluribus, da ultimo, Cass. 22.10.02 n. 14905, 16.9.02 n. 13470, 21.6.02 n. 9097, ma già Cass. 9.12.99 n. 13819, 4.10.99 n. 11021, 19.5.99 n. 4852, 15.4.99 n. 3737, 15.5.98 n. 4910).
Ciascuno degli esaminati motivi risultando, per tale ragione, inammissibile, il ricorso principale va, dunque, rigettato.
Va, quindi, esaminato il ricorso incidentale.
Con il cui primo motivo i ricorrenti – denunziando violazione del dovere di giudicare iuxta probata et alligata, violazione e falsa applicazione dell’art. 360 n. 3 e 4 CPC – chiedono che, nell’ipotesi d’accoglimento dell’avverso primo motivo di ricorso, venga accertato e dichiarato essere il provvedimento del tribunale di Messina 28.2.00 limitato alla liquidazione di quanto loro spettante in relazione all’attività difensiva prestata nel solo primo grado del giudizio.
A parte ogni altra pur possibile positiva considerazione basata sull’effettivo riscontro della liquidazione come effettuata dal tribunale limitatamente al solo primo grado, il motivo, in quanto condizionato all’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, resta assorbito per la reiezione dello stesso.
Con il secondo motivo, i ricorrenti – denunziando "violazione e falsa applicazione dell’art. 360 n. 3 CPC, violazione del dovere di giudicare iuxta probata et alligata; motivazione mancante; violazione e falsa applicazione degli artt. 132/11/4 e 156/11 CPC e quindi vizio ex art. 360 nn. 3 e 4 CPC" – si dolgono che il giudice a quo "non abbia ritenuto il valore della lite al momento della domanda in L. 15 miliardi apoditticamente ritenendo che detto valore era di L. 6 miliardi per i giudizi di cui ai nn. 1 e 2 dell’istanza di liquidazione 22.8.00, e per l’identico giudizio n. 4, come documentato dagli atti. Ciò ovviamente se considerato e deciso avrebbe spostato tutti i calcoli del provvedimento".
Il motivo, limitato a quanto sopra riportato per esteso, non merita accoglimento per palese difetto di specificità e violazione del principio d’autosufficienza del ricorso, non essendo esplicitate le ragioni per le quali il giudice a quo avrebbe dovuto determinare il valore della causa nell’un senso piuttosto che nell’altro ed essendo così impedito al giudice di legittimità – cui non è consentito l’esame diretto dell’incarto processuale se non nell’ipotesi, estranea al caso di specie, della denunzia di errores in procedendo, ed innanzi al quale non sono, di conseguenza, ammessi riferimenti per relationem agli atti della fase di merito – qualsiasi controllo sulla fondatezza della doglianza e, quindi, sulla correttezza o meno della decisione impugnata.
Con il terzo motivo, i ricorrenti – denunziando "violazione di legge, artt. 1219 e 1224 CC, in relazione all’art. 360 n. 4; violazione della disposizione comune alle tariffe forensi di cui al D.M. 31.10.85, D.M. 24.11.90, disposizione comune alla tariffa civile, penale e stragiudiziale, D.M. 5.10.94 n. 585 e legge n. 533/1973 in relazione all’art. 360 n. 4; omessa pronunzia sulla richiesta di rivalutazione" – si dolgono che il giudice a quo abbia erroneamente determinato la decorrenza degli interessi, essendo state conferite in atti le intimazioni e messe in mora alle cui date la stessa doveva essere collegata non essendosi avuta contestazione, ed abbia omesso di pronunziarsi sulla richiesta di rivalutazione.
Il motivo va disatteso sotto entrambi i prospettati profili.
Per quanto attiene agli interessi, da quanto dedotto nel motivo non emerge con chiarezza se siasi inteso far valere la violazione dell’art. 1219 CC o quella della pertinente disposizione tariffaria;
nell’uno come nell’altro caso, comunque, la censura non merita accoglimento.
Va, infatti, anzi tutto rilevato come la questione non rientri nella dedotta previsione dell’art. 360 n. 4 CPC ma in quella dell’art. 360 n. 3 CPC e come il vizio della sentenza previsto da tale disposizione debba essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 n. 4 CPC, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità e/o dalla prevalente dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione d’adempiere al suo istituzionale compito di verifi-care il fondamento della lamentata violazione; ond’è che risulta inidoneamente formulata, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso dedotto ai sensi della disposizione in esame, la deduzione di errori individuati per mezzo della sola indicazione delle singole norme assuntivamente violate ma non dimostrati per mezzo d’una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito, nel risolvere la questione giuridica controversa, operata mediante specifiche contestazioni delle soluzioni stesse nell’ambito d’una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo.
Orbene i ricorrenti – ove avessero inteso far valere il loro diritto agli interessi secondo la disciplina generale delle obbligazioni ex art. 1219 CC, volendo seguire quella parte della giurisprudenza di questa Corte per la quale tale diritto può essere autonomamente perseguito (Cass. 29.1.99 n. 813, 20,11.98 n. 11736, 30.10.96 n. 9514; contro, invece, Cass. 29.5.99 n. 5240, 28.4.93 n. 5004, 11.6.88 n. 3995) una volta ritenuta inapplicabile per eccesso dalla delega la disposizione emanata in proposito dal Consiglio Nazionale Forense e recepita dal D.M. d’approvazione (Cass. 17.4.01 n. 5605, 29.11.98 n. 11736, 30.10.96 n. 9514, 1.7.96 n. 596227.3.93 n. 3690) – avrebbero dovuto, a fronte della specifica liquidazione effettuata dalla corte territoriale con riferimento a dies a quibus determinati in relazione alle singole prestazioni considerate, puntualmente contestare ciascuna di tali determinazioni, allegandone e dimostrandone le eventuali ragioni d’erroneità, mentre si sono limitati a fare inammissibile riferimento per relationem alle parcelle 7.4.91 e 9.9.96, il cui contenuto ed i cui termini di riferimento restano ignoti a questa Corte, alle cui funzioni è estraneo l’esame dell’incarto processuale al di fuori delle ipotesi d’accertamento degli errores in procedendo, senza non solo argomentare ma neppure indicare quale diversa concreta decorrenza degli interessi la corte territoriale avrebbe dovuto riconoscere in relazione a ciascuna delle quattro liquidazioni operate.
Sotto l’esaminato profilo il motivo, oltre a non essere conforme al principio d’autosufficienza, manca, dunque, anche della necessaria specificità.
Va, del pari, disattesa la censura con la quale i ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale non abbia riconosciuto loro il risarcimento dei danni da svalutazione, premettendo che l’invocato art. 429 CPC trova applicazione nei soli casi in cui il rapporto tra avvocato e cliente abbia i caratteri della subordinazione o, quanto meno, della parasubordinazione (Cass. 26.2.02 n. 2823, 17.4.01 n. 5605, 29.5.99 n. 5240, 6.3.99 n. 1912).
Il credito del professionista per il compenso spettantegli in ragione dell’attività svolta nell’esecuzione d’un contratto d’opera ex artt. 2230 ss. CC è di valuta e non di valore, in quanto ha per oggetto, ab origine, la prestazione d’una somma di denaro; pertanto, può e deve l’obbligato, ex art. 1277/1 CC, estinguere il suo debito mediante corresponsione della somma dovuta in valuta avente al momento corso legale e nell’esatto numerario cui essa ammontava, atteso che 11 debito di valuta non si trasforma in debito di valore per il solo fatto dell’inadempimento, comportamento, questo, del debitore, la cui contrarietà ai principi dell’ordinamento il legislatore ha già espressamente preso in considerazione sanzionandolo con il ricollegarvi, nell’art. 1224/1 CC, l’effetto di dar luogo alla corresponsione degli interessi nella misura legale indipendentemente da ogni prova di danno.
E’ ben vero che al detto inadempimento lo stesso legislatore ha, altresì, ricollegata, nell’art. 1224/11 CC, la conseguenza di dar luogo ad un’ulteriore obbligazione risarcitoria, di valore questa, ma tale effetto gli ha riconosciuto solo ove abbia cagionato al creditore un danno autonomo e diverso, rispetto alla semplice indisponibilità della somma oggetto dell’originaria obbligazione del debitore, e per il quale non possa aversi integrale ristoro con la sola corresponsione degli interessi mora-tori previsti dall’art. 1224/1 CC; per il che, a differenza dal determinarsi del diritto alla percezione di questi ultimi, il determinarsi del diritto al conseguimento del maggior risarcimento ex art. 1224/11 CC non è stato configurato quale effetto automatico dell’inadempimento del debitore, bensì si sono richieste da parte del creditore, anzi tutto, una motivata allegazione ed, in secondo luogo, un’idonea dimostrazione, del danno assuntivamente subito.
Incombe, pertanto, sull’avente diritto alla riscossione d’un credito di valuta, dunque anche sul professionista, il quale agisca per ottenere il compenso dovutogli per l’attività svolta nell’ambito d’un rapporto d’autonoma prestazione d’opera, l’onere di dedurre e poi provare che il pagamento tempestivo da parte del debitore, nella specie il cliente, gli avrebbe consentito, mediante l’opportuno impiego della somma, d’evitare o limitare gli effetti della sopravvenuta inflazione (Cass. 15.7.03 n, 11031, 29.4.02 n. 6224, 17.4.01 n. 5605, 1.10.99 n. 10876, 15.2.99 n. 1266, 29.5.98 n. 5326, 2.5.96 n. 4018, 6.9.94 n. 7667, 3.11.88 n. 5957, 4.12.85 n. 6068).
Nel caso in esame, censurando sul punto l’impugnata ordinanza, i ricorrenti non si fanno carico di prospettare d’aver allegato e dimostrato la sussistenza di quegli elementi di fatto dai quali si sarebbe potuto e dovuto desumere un orientamento all’impiego di capitali tale da assicurare loro rendimenti superiori a quelli derivanti dalla percezione degli interessi al tasso legale, ma si limitano a sostenere la sufficienza, al riguardo, della sola domanda e l’onere per il giudice di presumere d’ufficio la debenza della rivalutazione sul solo presupposto d’un utile usuale impiego delle somme percette.
Tesi siffatta non è condivisibile, dacchè l’onere probatorio che s’è visto incombere sul creditore non può ritenersi assolto con la mera allegazione d’un determinato status professionale o sociale non corredata da elementi idonei ad evidenziare o le disposizioni economiche del creditore (6.9.94 n. 7667, 1.3.1991 n. 2182) oppure le particolari esigenze della specifica attività svolta implicanti l’organizzazione dei mezzi necessari al suo svolgimento in forma aziendale (Cass. 4.4.97 n. 2938, 25.3.97 n. 2618), atteso che solo le une possono indicare la categoria d’appartenenza del detto creditore e le altre qualificarne diversamente l’attività e, quindi, giustificare presunzioni circa l’impiego della somma di danaro dovutagli ove tempestivamente percetta; non appare, infatti, sostenibile l’equiparazione tout court del credito del professionista, l’essenza della cui attività è una serie di prestazioni d’opera intellettuale personali, rispetto alle quali gli elementi accessori risultano marginali, a quello dell’imprenditore, nel cui confronti può essere applicata la presunzione dell’investimento delle somme percette nelle materie prime e nei macchinari necessari allo svolgimento dell’attività produttiva, e neppure, evidentemente, a quello dei modesti consumatori, l’intero reddito dei quali è utilizzato onde sopperire alle esigenze del quotidiano.
Pertanto, i presupposti in fatto perchè potesse quanto meno presumersi detto possibile utile impiego della somma dovevano essere adeguatamente allegati e dimostrati, ciò cui i ricorrenti non risulta abbiano provveduto in sede di merito, il che giustifica l’implicita reiezione della domanda.
Con il quarto motivo, i ricorrenti – denunziando violazione dell’art. 91 CPC – si dolgono che la Corte territoriale abbia compensato le spese del procedimento con motivazione incongrua in quanto basata sulla mancata contestazione del credito da parte della soccombente, circostanza ricollegabile alla contumacia e non ad un atteggiamento positivo della stessa.
Il motivo non merita accoglimento.
Devesi preliminarmente considerare che gli odierni ricorrenti non risultano affatto totalmente vittoriosi nel giudizio di merito, tant’è che la loro domanda principale è stata accolta solo, parzialmente, e che per ritenere totalmente o parzialmente vittorioso il convenuto non è affatto necessario avesse questi proposto a sua volta una domanda rimasta accolta in tutto od in parte e neppure che la reiezione della domanda di parte attrice abbia avuto luogo in ragione dell’accoglimento di sue eccezioni, bensì solo essere stato questi chiamato in giudizio ed esserne uscito in tutto od in parte assolto dalle avverse pretese.
Ciò posto, va richiamato il ripetuto insegnamento di questa Corte per cui la liquidazione delle spese di giudizio costituisce estrinsecazione d’un potere ampiamente discrezionale del giudice del merito che incontra il solo limite del divieto di condanna alle spese nei confronti della parte totalmente vittoriosa, giacchè, nel caso di soccombenza reciproca, ovvero ove si adduca dal giudice stesso la sussistenza di "giusti motivi" o delle analoghe "ragioni di equità", è rimesso unicamente al detto giudice, che solo può conseguire un’approfondita conoscenza di tutti gli atti processuali e del comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio, l’apprezzamento dell’opportunità di compensare le spese e di determinare la misura dell’eventuale compensazione; tale apprezzamento – che attiene in primis alla valutazione della ricorrenza o meno di circostanze tali da giustificare l’esercizio del potere de quo – poichè si sostanzia in una valutazione esclusivamente di fatto, non è censurabile in sede di legittimità.
E’ ben vero che il sindacato di legittimità può estendersi all’esame della motivazione ove i giusti motivi previsti dall’art. 92 CPC, oltre che enunziati, siano stati anche sviluppati formando oggetto di specifiche argomentazioni, tuttavia, nel caso in esame non solo non è ravvisabile alcun vizio logico della ragione addotta, l’astensione dalla contestazione giudiziale ben potendo essere equivalente alla mancata contestazione in giudizio, ma devesi considerare altresì come, nei ricorsi ex art. 111 Cost., quale il presente, il vizio sulla motivazione sia deducibile solo in caso di motivazione mancante o apparente, non anche quando la motivazione sussista e possa non essere soddisfacente.
Ricorrono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P. Q. M.
LA CORTE riuniti i ricorsi, respinge il principale, dichiara assorbito il primo motivo dell’incidentale e rigetta gli altri, compensa integralmente le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 gennaio 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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