Cassazione civile anno 2005 n. 139 Esenzioni

IVA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
1.- La s.r.l. X-Corpo di Vigilanza impugnava davanti alla Commissione tributaria provinciale di Roma la cartella di pagamento relativa al recupero dell’importo dell’IVA (oltre interessi) dichiarato dalla contribuente per l’anno 1992 in via cautelativa e non versato. La società sosteneva, in via principale, di aver diritto all’esenzione di cui all’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972. 2.- Con sentenza n. 304/38/96 del 15 novembre 1996, depositata il 5 dicembre 1996, l’adita Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso e compensava le spese di lite, affermando che l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, quale modificato dall’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, come convertito dalla l. n. 53 del 1983, prevedeva l’esenzione d’imposta per tutte le prestazioni di vigilanza o custodia a di cui al r.d.l. n. 1952 del 1935, senza escludere quelle effettuate direttamente da istituti autorizzati ad esercitare esclusivamente tale attività, tenuto conto che il regolamento di P.S. non contemplava la figura della guardia giurata autonoma/ ma solo la guardia giurata dipendente da un organismo autorizzato. La Commissione dichiarava perciò assorbita la "domanda subordinata" proposta con il ricorso, basata sulla tesi dell’avere operato la società in regime di sospensione d’imposta, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 633. 3.- Con sentenza n. 267/39/98 del 16 dicembre 1998, depositata il 15 gennaio 1999 e non notificata, la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto dall’Ufficio tributario avverso la sentenza di primo grado e compensava tra le parti le spese di lite. Al riguardo, il giudice regionale: a) premetteva che l’Ufficio aveva proposto impugnazione sotto il profilo che il thema decidendum non atteneva all’assoggettabilità o meno all’IVA delle prestazioni eseguite, ma all’omesso versamento dell’imposta autoliquidatasi dalla contribuente a seguito della dichiarazione annuale regolarmente compilata e presentata; b) osservava che l’appello "mira(va) a ricondurre la controversia non sul punto dell’esenzione o meno delle operazioni svolte" dalla società (attività di vigilanza) all’IVA, Spunto sul quale" l’appellante "sembra(va) quasi prestare acquiescenza", ma "sul carattere vincolante delle dichiarazioni prodotte dal contribuente"; c) rilevava che le dichiarazioni tributarie hanno valenza di dichiarazioni di scienza e non di volontà, senza costituire nei confronti del contribuente uno stato definitivo ed irrevocabile, con la conseguenza che l’avvenuta fatturazione delle prestazioni non rende necessario il versamento dell’imposta, se non dovuta, mentre la scelta della s.r.l. di presentare la dichiarazione IVA trovava giustificazione nell’esigenza cautelativa di evitare, in una materia di difficile interpretazione normativa, piuttosto le sanzioni amministrative per omesso versamento che non le sanzioni penali per l’omessa dichiarazione.
3.- Avverso la sentenza di appello, il Ministero delle finanze propone ricorso per Cassazione, notificato il 24 febbraio 200 e depositato il 13 marzo 2000, affidato ad un unico motivo.
4.- La s.r.l. X-Corpo di Vigilanza resiste con controricorso notificato il 17 marzo 2000 e depositato il 20 successivo.
5.- Il P.M., in data 23 ottobre 2001, in vista dell’udienza fissata ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., rassegna conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del ricorso perchè manifestamente fondato.
6.- La società presenta memoria illustrativa (datata 30 maggio 2002) e, dopo la discussione orale in Camera di consiglio, la causa, con ordinanza di questa Corte in data 7 giugno 2002, viene rimessa all’udienza pubblica per la trattazione. La contribuente presenta ulteriori memorie illustrative, datate 9 febbraio e 23 novembre 2004.

Motivi della decisione
1.- Non si rinviene in atti la procura alla lite dell’avvocato X X, che, secondo quanto indicato nelle memorie datate 9 febbraio e 23 novembre 2004, rappresenterebbe e difenderebbe la società controricorrente "in virtù di mandato reso a margine del controricorso". Tale difetto di procura non ha, tuttavia, pratici effetti, in quanto tutti gli atti difensivi sono sottoscritti dall’avvocato X X (da solo o congiuntamente con l’avvocato X), regolarmente e tempestivamente munito di procura alla lite.
2.- La controricorrente s.r.l. X-Corpo di Vigilanza eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso sotto quattro profili:
a) per difetto di autosufficienza del ricorso, in quanto contenente la denuncia la violazione e falsa applicazione di una norma del tutto estranea alla materia del contendere in appello (art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972), in quanto privo di riferimento alle difese della contribuente, in quanto solo genericamente indicante i motivi dell’appello; b) per la denuncia della violazione e della falsa applicazione di una norma non considerata dal giudice di appello (art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972); c) per il giudicato interno formatosi sull’esenzione della società dall’IVA; d) per la sopravvenuta cessazione della materia del contendere a seguito dello ius superveniens costituito dall’art. 3, comma 13-ter. del d.l. n. 138 del 2002, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 178 del 2002 ("la riscossione coattiva dei crediti dell’erario relativa alle prestazioni rese dai soggetti di cui al regio decreto-legge 12 novembre 1936, n. 2144, convertito dalla legge 3 aprile 1937, n. 526, fino alla soppressione dell’art. 10, n. 26, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, s’intende consentita nei limiti dell’applicazione della predetta disposizione.
Non si fa luogo, in ogni caso, a rimborsi o recuperi di somme già versate").
3.- Le eccezioni di inammissibilità sono infondate e vanno respinte.
3.1.- Il ricorso è autosufficiente, perchè indica i fatti della causa (sia pure succintamente), le parti, il contenuto della sentenza impugnata, la norma che si assume violata o non applicata dal giudice di appello, lo specifico motivo di impugnazione proposto, e quindi, in genere, tutti gli altri elementi richiesti dall’art. 366 cod. proc. civ. La completa indicazione di tali elementi nel ricorso ne esclude, infatti, l’inammissibilità, mentre i rilievi della controricorrente attengono piuttosto alla fondatezza dell’impugnazione.
3.2.- La asserita mancata menzione, nella sentenza di appello, dell’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972 (in realtà citate dal giudice regionale) non osta all’ammissibilità del motivo di ricorso basato sulla violazione o falsa applicazione di tale norma:
la censura si sostanzia, infatti, proprio nella denuncia della mancata od errata applicazione della norma da parte del giudice di appello, indipendentemente dalla sua indicazione nella sentenza impugnata. L’eventuale infondatezza del motivo di impugnazione non incide sulla sua ammissibilità. 3.3.- L’eccezione di giudicato è infondata.
Il giudice di primo grado aveva affermato che l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, quale modificato dalla l. n. 53 del 1983, andava interpretato nel senso che l’esenzione d’imposta si applica a tutte le prestazioni di vigilanza o custodia di cui al r.d.l. n. 1952 del 1935, senza escludere quelle effettuate direttamente da istituti autorizzati ad esercitare esclusivamente tale attività, tenuto conto che il regolamento di P.S. non contempla la figura della guardia giurata autonoma, ma solo la guardia giurata dipendente da un organismo autorizzato.
Come risulta dal fascicolo d’ufficio in atti (il cui esame è consentito in questa sede per accertare la sussistenza di un giudicato interno), l’Ufficio tributario aveva appellato deducendo, tra l’altro: a) di non condividere in fatto ed in diritto le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di prime cure; b) che non era in contestazione il trattamento fiscale dell’attività svolta dalla società, la quale aveva dichiarato come imponibili ai fini dell’IVA gli importi in questione; e) che un errore al riguardo non era stato invocato nemmeno dalla società ed era comunque da escludere, avendo questa dichiarato sempre operazioni imponibili anche a seguito di analoghe controversie. Tale impugnazione va interpretata, dunque, non solo nel senso dell’affermazione (inesatta) dell’inemendabilità degli errori di diritto contenuti nelle dichiarazioni IVA dei contribuenti, ma anche nel senso della deduzione che l’esenzione dall’iVA era tanto insussistente che la stessa contribuente aveva dichiarato di compiere operazioni imponibili. Questa seconda interpretazione dell’appello, del resto, era stata presa in considerazione dalla stessa appellata, la quale si era difesa proprio "insistendo nella prospettazione di esenzione dell’attività svolta" (come risulta dalla sentenza di secondo grado) e non si era, perciò, limitata ad affermare l’emendabilità della dichiarazione. E’ significativo che anche il giudice regionale, pur incentrando la propria motivazione sulla non vincolatività, in parte qua, delle dichiarazioni presentate dalla contribuente, tuttavia non si è sentito in grado di accertare la formazione di un giudicato sul punto dell’esenzione della società dall’iVA: la sentenza impugnata si limita, infatti, a manifestare dubbi al riguardo ("esenzione… punto sul quale sembra quasi prestare acquiescenza" l’appellante), incompatibili con il riconoscimento di un giudicato interno.
Non sussiste, dunque, l’invocata preclusione da giudicato, perchè la questione dell’interpretazione e, quindi, dell’applicabilità, nella specie, alla società dell’art. l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, quale modificato dall’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, come convertito dalla l. n. 53 del 1983, era oggetto del giudizio di appello.
3.4.- Il sopravvenuto art. 3, comma 13-ter, del d.l. n. 138 del 2002, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 178 del 2002, non ha comportato la dedotta cessazione della materia del contendere.
Va brevemente ricordato che l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, nella formulazione anteriore alle modifiche intervenute con l’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, quale convertito dalla l. n. 53 del 1983, disponeva l’esenzione dall’IVA per le prestazioni di servizi di vigilanza effettuate direttamente da Istituti autorizzati ad esercitare esclusivamente tale attività. Con il d.l. n. 953 del 1982, l’esenzione viene limitata alle prestazioni dei servizi di vigilanza o custodia di cui al r.d.l. n. 1952 del 1935 (che disciplina il servizio delle guardie particolari giurate, a differenza del r.d.l. n. 2144 del 1936, convertito dalla l. n. 526 del 1937, che disciplina gli istituti di vigilanza). A decorrere dal 1 gennaio 1994 è abrogato l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 2, comma 1, lettera b, del d.l. n. 557 del 1993, quale convertito dalla l. n. 133 del 1994). In questo quadro, l’invocato ius superveniens, si limita a confermare l’applicabilità dell’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972 fino alla sua abrogazione, senza innovare e senza introdurre una norma interpretativa sul punto ("la riscossione coattiva dei crediti dell’erario…fino alla soppressione dell’art. 10, n. 26, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, s’intende consentita nei limiti dell’applicazione della predetta disposizione").
La natura non innovativa di tale norma è, del resto confermata proprio dagli ordini del giorno del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, approvati rispettivamente il 23 luglio 2003 ed il 30 luglio, menzionati dalla controricorrente nelle sue memorie, con i quali si impegna il Governo a chiarire che l’art. 3, comma 13- ter, del d.l. n. 138 del 2002, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 178 del 2002, ha la finalità di evitare la riscossione coattiva dei crediti erariali nei confronti degli Istituti di vigilanza privata per l’IVA relativa agli anni dal 1983 al 1993. Non solo siffatti ordini del giorno non costituiscono fonte di diritto e non valgono neppure ad orientare l’interpretazione giudiziale delle norme che ne costituiscono l’oggetto (il Governo, del resto, non avrebbe alcun potere di "chiarire" l’interpretazione di norme di legge, se non con effetto nei soli rapporti interni all’amministrazione), ma, nella specie, risulta addirittura ammesso da ciascuna delle due Camere che la disposizione in questione non è "chiaramente" interpretabile nel senso da esse auspicato.
Le disposizioni sopravvenute, per il loro inequivoco tenore letterale, sono dunque confermative di una disciplina che esclude l’esenzione dell’IVA in favore degli Istituti di vigilanza privata (v. anche infra, sub 5) e non possono, perciò, comportare la cessazione della materia del contendere affermata dalla società controricorrente.
4.- Con l’unico motivo di ricorso prospettato, il Ministero delle finanze denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, quale modificato dall’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, come convertito dalla l. n. 53 del 1983, da interpretarsi nel senso che l’esenzione dell’IVA riguarderebbe solo le guardie particolari giurate, dato il richiamo testuale al r.d.l. n. 1952 del 1935 che le disciplina ("sono esenti dall’imposta…le prestazioni di servizi di vigilanza o custodia di cui al r.d.l. 26 settembre 1935, n. 1952"), e non anche gli Istituti di vigilanza privata, la cui attività non sarebbe disciplinata da tale r.d.l.
Poichè la sentenza impugnata non aveva seguito tale interpretazione (da preferirsi sia perchè confermata dal parere del Consiglio di Stato n. 247/96, 3^ sezione, del 5 marzo 1996; sia perchè i casi di esenzione, in quanto eccezionali, non sono suscettibili "di interpretazione analogica o estensiva"; sia, infine, perchè l’art. 13 della direttiva 77/388 CEE in materia di IVA non ricomprende tra le prestazioni esoneratali dall’imposta quelle rese da istituti come la s.r.l. X-Corpo di Vigilanza), il ricorrente conclude per l’annullamento del provvedimento del giudice regionale.
La s.r.l. X-Corpo di Vigilanza resiste, opponendo sostanzialmente: a) che l’ordinamento (in base al t.u.l.p.s. n. 773 del 1931; al regolamento di attuazione r.d. n. 635 del 1940; al r.d.l. n. 1952 del 1935) escluderebbe la figura della guardia particolare giurata a titolo personale ed in via autonoma, tenuto conto: dell’espressione "destinare guardie particolari alla vigilanza o custodia" (art. 133 t.u.l.p.s.), presupponente un rapporto di dipendenza della guardia (artt. 249, 254, 257 del regolamento attuativo); della necessità della presentazione della domanda di licenza di cui all’art. 134 t.u.l.p.s. da parte dell’istituto di vigilanza (art. 257 del regolamento attuativo); della mancata previsione normativa di richiesta o di concessione di autorizzazione da parte o in favore di un privato che intenda svolgere in via personale tali prestazioni; della prassi amministrativa di non concedere tali licenze a privati, b) che, dunque, non sussisterebbe nel nostro ordinamento (neppure in via di fatto) la figura della guardia particolare giurata a titolo autonomo e personale, inquadrabile nello schema del rapporto di lavoro autonomo di cui all’art. 2222 cod. civ. (come ribadito sia dalla difesa svolta dal Governo della Repubblica italiana davanti alla Corte di giustizia CE, in causa C-283/99, culminata nella sentenza del 31 maggio 2001, sia da due note del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e del Ministero dell’interno, rispettivamente n. 5/25014/70/SUB/AU e prot.
559/c. 12831. 10089. D70(40)); c) che, in particolare, la formulazione dell’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, quale modificato dall’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, come convertito dalla l. n. 53 del 1983 ("sono esenti dall’imposta…le prestazioni di servizi di vigilanza o custodia di cui al r.d.l. 26 settembre 1935, n. 1952"), individuerebbe in maniera oggettiva l’attività di vigilanza o custodia, senza limitazioni soggettive, mentre il richiamo al r.d.l. n. 1952 del 1935 atterrebbe solo alle modalità di investitura delle guardie giurate e del relativo servizio, con particolari poteri riservati al Questore, indipendentemente dalla circostanza che operino alle dipendenze di un privato o di un istituto di vigilanza (tenuto conto che il r.d.l. n. 2144 del 1936 concernerebbe non già l’attività di vigilanza svolta dagli istituti a mezzo delle guardie giurate, ma gli obblighi degli stessi nei confronti delle autorità di p. s. e limitatamente agli istituti con almeno venti guardie giurate dipendenti); d) che la linea interpretativa sostenuta dal ricorrente sarebbe stata disattesa da numerose sentenze della Suprema Corte (tra cui, Cass., n. 5184 del 1993, n. 8370 del 1995, n. 1789 del 1996), contrastate da poche pronunce (Cass., n. 7811 del 2000, n. 1953 del 2001, n. 1998 del 2003), così da imporsi la rimessione alle sezioni unite per dirimere il contrasto.
5.- Il ricorso è fondato e va accolto.
La giurisprudenza di questa Corte si è ormai consolidata nel senso che, dopo le modifiche apportate alla disciplina di cui all’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972, dall’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, come convertito -con modificazioni – dalla l. n. 53 del 1983 (l’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972 è stato poi abrogato dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 557 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 1994, con effetto dal 1 gennaio 1994), l’esenzione dell’IVA in essa prevista in materia di servizi di vigilanza, va intesa come limitata alle prestazioni fornite direttamente dalle guardie giurate ai privati e agli enti, in qualità di lavoratori autonomi; e che da ciò consegue che l’esenzione non spetta alle prestazioni fornite -anche se mediante guardie giurate- dagli istituti di vigilanza privata previsti dal r.d.l. n. 2144 del 1936, senza che in contrario rilevi la sentenza della Corte di giustizia CE del 31 maggio 2001, la quale ha condannato l’Italia per la previsione del necessario possesso della cittadinanza italiana ai fini dello svolgimento dell’attività di guardia particolare giurata (v., ex plurimis, Cass., n. 7811 del 2000; n. 1953 del 2001; n. 4254 del 2002; n. 1998 del 2003, in particolare, sulla citata sentenza della Corte di giustizia CE e sulla irrilevanza della linea difensiva tenuta dal Governo italiano davanti a tale Corte di giustizia).
Deve perciò riassuntivamente ribadirsi (v. anche supra, sub 3.4.) che tali conclusioni sono confermate dalla circostanza che l’art. 5 del d.l. n. 953 del 1982, convertito – con modificazioni – dalla l. n. 53 del 1983, ha eliminato dall’art. 10, n. 26, del d.P.R. n. 633 del 1972 la specifica menzione degli istituti di vigilanza dai soggetti esentati dall’iVA; che, infatti, l’esame comparato della normativa disciplinante il servizio delle guardie particolari giurate (r.d.l. n. 1952 del 1935) e gli istituti di vigilanza privata (r.d.l. n. 2144 del 1936) rivela un rapporto di alternatività tra le due discipline (come desumibile dall’art. 5 del r.d.l. n. 2144 del 1936, che esclude espressamente dall’ambito applicativo di tale r.d.l. l’attività delle guardie particolari giurate non operanti alle dipendenze degli istituti di vigilanza, perchè lavoratori autonomi o dipendenti di altro tipo di datore di lavoro); che gli istituti di vigilanza di cui al r.d.l. n. 2144 del 1936 sono solo quelli, costituiti ai sensi dell’art. 134 del t.u.l.p.s. n. 773 del 1931, con non meno di venti guardie giurate dipendenti e con prestazioni rivolte a terzi privati, così da presentare un profilo imprenditoriale prevalente rispetto al riconoscimento di servizio pubblico per la difesa della proprietà posto a giustificazione della previgente normativa di favore; che il r.d.l. n. 1952 del 1935, invece, contiene norme destinate a disciplinare "il servizio delle guardie giurate, nominate a sensi dell’art. 133 e seguenti" del t.u.l.p.s., per vigilare direttamente sui propri beni, da privati ed enti (anche pubblici ed anche in forma associata), con rapporto di lavoro dipendente od autonomo; che, pertanto, in relazione all’anno d’imposta in contestazione (1992), mentre sono soggetti ad IVA gli istituti di vigilanza organizzati in forma di impresa, sono esenti da tale imposta le prestazioni delle guardie particolari giurate, quali lavoratori autonomi; che il terzo può ben instaurare con la singola guardia particolare giurata un rapporto di lavoro dipendente o di lavoro autonomo, non sussistendo a ciò ostacoli normativi, come dimostrato anche dall’art. 2 del d.l. n. 557 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 1994 (il quale, con effetto dal 1 gennaio 1994, ha soppresso il n. 26 dell’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972 ed ha modificato l’art. 5, secondo comma, del medesimo d.P.R., escludendo che le prestazioni di custodia e vigilanza rese da guardie giurate di cui al r.d.l. n. 1952 del 1935 si considerino effettuate "nell’esercizio di arti e professioni"): tale ultima disposizione, infatti (introdotta, probabilmente, per eliminare i problemi interpretativi sorti nella prassi), non fa riferimento alcuno all’art. 4 del d.P.R. (riguardante l’esercizio di imprese) e presuppone che, in difetto della (abrogata) norma di esenzione ed in difetto della (introdotta) norma di esclusione, i servizi di vigilanza forniti direttamente dalle guardie giurate al di fuori di un rapporto di lavoro dipendente, siano assoggettati ad IVA; che le leggi di pubblica sicurezza non valgono ad escludere, di fatto, la possibilità di espletamento da parte di guardie giurate "autonome" (tanto che il legislatore tributario ritiene, appunto, possibile tale eventualità).
La controricorrente non ha apportato nuovi elementi per discostarsi da tale orientamento, ormai consolidato al punto da far escludere qualsiasi necessità od opportunità di rimessione della questione alle sezioni unite.
La sentenza deve essere pertanto cassata.
6.- La controricorrente chiede in subordine, in caso di accoglimento del ricorso, la decisione nel merito, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., con disapplicazione delle sanzioni, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, data l’obiettiva incertezza dell’interpretazione della norma in questione, invocando il precedente di Cass., n. 17515 del 2002. 7.- La richiesta va intesa come rinuncia ad ogni altro motivo di impugnazione eventualmente proposto dalla contribuente davanti al giudice di primo grado e, solo consequenzialmente, dato il rigetto in punto di diritto di tale ricorso originario, come istanza di disapplicazione delle sanzioni.
Così interpretate le istanze della contribuente e tenuto conto delle ragioni di accoglimento del ricorso proposto dal Ministero, la causa va decisa nel merito (non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto), con una pronuncia di rigetto dell’originario ricorso proposto dalla società contribuente avverso la cartella di pagamento, non spettando l’invocata esenzione dall’IVA. Peraltro, la violazione perpetrata dalla contribuente con il mancato versamento dell’IVA, appare giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione del citato art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972, dato il precedente orientamento giurisprudenziale di questa Corte (solo successivamente superato) che esentava dall’IVA l’attività degli istituti di vigilanza: ciò induce a considerare integrata l’ipotesi di cui agli artt. 8 del decreto legislativo n. 546 del 1992, 6, comma 2, e 25, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997 e, perciò, a dichiarare non applicabili le sanzioni inflitte con la cartella di pagamento impugnata (Cass., n. 17515 del 2002; n. 10495 del 2003).
8.- Sussistono giusti motivi, date le sopra menzionate incertezze di interpretazione delle norme rilevanti per il giudizio, per compensare integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.

P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso proposto dalla contribuente avverso la cartella di pagamento, dichiarando non applicabili le sanzioni, ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo n. 546 del 1992; compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione tributaria, il 29 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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