CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO – SENTENZA 22 giugno 2011, n.13681 INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Diritto

Col proposto ricorso la società assicuratrice lamenta violazione e falsa applicazione degli art. 1362 cc.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale, nell’interpretare la clausola di cui all’art. 90/b delle condizioni generali della polizza di assicurazione, intervenuta tra la (…) s.p.a. (ora …s.p.a.) ed il ristorante, (…) secondo cui "la Compagnia si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi degli artt. 10 ed 11 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti dai prestatori di lavoro da lui dipendenti, aveva ritenuto che la comune volontà delle parti, in presenza di un quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile del datore di lavoro per danno biologico e danno morale in forte evoluzione, fosse nel senso di coprire, con la polizza assicurativa stipulata, anche la responsabilità civile del datore di lavoro per tali ipotesi di danno.

E pertanto la motivazione della Corte territoriale si appalesava censurabile laddove pretendeva di individuare il contenuto della volontà delle parti non secondo una valutazione oggettiva dei dati del contratto, ma secondo una interpretazione della clausola che andava oltre la comune volontà delle parti, e che attribuiva esclusivo rilievo all’evoluzione giurisprudenziale delle norme di legge cui il contratto stesso rinviava.

Il ricorso è fondato.

Osserva innanzi tutto il Collegio che la ricorrente ha ottemperato al disposto dell’art. 366 bis c.p.c, applicabile nella fattispecie ratione temporis, avendo, sia pure sotto forma interrogativa, esposto il quesito di diritto posto all’attenzione di questa Corte.

Orbene, il motivo proposto si fonda, essenzialmente, sulla interpretazione dell’art. 90/b del contratto in parola.

Posto ciò, è necessario innanzi tutto ricordare che, secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte (v., fra le molte pronunce, Cass. sez. I, 24.6.2008 n. 17088; Cass. sez. lav. 13.6.2008 n. 16036; Cass. sez. lav. 12.6.2008 n 15795; Cass. sez. I, 22.2.2007, n. 4178), l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Il sindacato dì questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito.

Argomentando da questi rilievi la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi, in sede di legittimità, del fatto che sia stata privilegiata l’altra.

Specularmente, per come parimenti rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte, il vizio di motivazione, in punto di interpretazione del contratto, deve emergere dall’esame del ragionamento e degli argomenti svolti dal giudice del merito, e non dalla possibilità di un diverso significato attribuibile al negozio, né deve riguardare l’apprezzamento del significato delle clausole del contratto, ma solo la coerenza formale, ossia l’equilibrio dei vari elementi che costituiscono la struttura argomentativa (cfr., ex plurimis, Cass. sez. I, 2.5.2006 n. n. 10131; Cass. sez. IlI, 21.4.2005 n. 8360; Cass. sez. III, 25.2.2005 n. 4063; Cass. sez. IlI, 6.8.2004 n. 15197; Cass. sez. IlI, 19.7.2004 n. 13344; Cass. sez. IlI, 17.7.2003 n. 11193).

Alla luce di tali principi il motivo all’esame si appalesa fondato, ove si osservi che la regola che riserva al giudice di merito l’interpretazione dell’accordo trova il limite della coerenza logica del ragionamento e degli argomenti svolti dal decidente, coerenza che si sostanzia nel rispetto dei canoni di ermeneutica contrattuale.

Rileva invero il Collegio che, in tema d’interpretazione del contratto, la volontà delle parti – da intendersi quale volontà esteriormente riconoscibile – dev’essere desunta dal senso letterale delle parole utilizzate e dalla loro comune intenzione (art. 1363 cc).

Con la ulteriore precisazione che, se pur è vero che a norma dell’art. 1362 cc. l’interpretazione della norma contrattuale richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, come trasfusa nel contratto stesso e quale risulta dal loro comportamento complessivo, l’elemento basilare per l’accertamento di tale comune intenzione è fornito dal senso letterale delle parole usate; e pertanto, in presenza di dichiarazione bilaterale o plurilaterale, siffatta comune intenzione delle parti non può prescindere dalla formulazione letterale della dichiarazione medesima, e quindi dal senso letterale delle parole che tale dichiarazione compongono.

Tutte le altre norme di ermeneutica contrattuale sono applicabili solo se si determinano situazioni peculiari (ad esempio laddove vengano usate espressioni generali o indicazioni esemplificative) o quando, applicati i criteri dettati dagli articoli precedenti, le previsioni contrattuali conservano ambiguità non risolte (per espressa previsione degli artt. art. 1371.

Orbene, nel caso in esame la Corte territoriale ha ritenuto che la formulazione della clausola di cui all’art. 90/b delle condizioni generali della polizza di assicurazione, secondo cui "la Compagnia si obbliga a tenere indenne rassicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi degli art. 10 anzidetto, senza limitazione alcuna, abbiano inteso riferirsi anche alla responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico sofferto dai dipendenti, come, del resto, è confermato più oltre, ove, nell’indicare espressamente i danni non compresi nella garanzia assicurativa, nulla si dice in ordine al danno biologico ed al danno morale".

Rileva il Collegio che l’iter argomentativo della Corte territoriale non appare coerente alle regole codicistiche sopra indicate, previste in tema di ermeneutica contrattuale.

Non si vede invero, come a fronte della assolutamente chiara previsione degli art. 2059) cod. civ.

Ed inveirò la Corte territoriale non indica significativi dati extratestuali utili per la individuazione, nel contratto in questione, della comune volontà delle parti, essendosi limitata ad evidenziare elementi di significato neutro rispetto a tale finalità, quale il fatto che all’epoca del contratto di assicurazione fosse già da tempo sul tappeto la problematica della risarcibilità o meno del danno biologico e fosse stata tale problematica già affrontata e chiarita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 485/91, pervenendo ad una lettura della clausola in questione ritenuta da questa Corte, in fattispecie analoghe, non coerente con il tenore letterale della normativa di cui al decreto presidenziale predetto, che – per come detto – costituisce il primo e fondamentale dato significativo della comune volontà delle parti (Cass. sez. lav., 2.7.2010 n. 15793).

Né può omettersi di rilevare che parimenti non condivisibile si appalesa l’assunto della Corte di merito circa l’insussistenza dell’aggravamento del rischio, ove si osservi che la necessaria correlazione del premio con il rischio non può tollerare un’alea ulteriore, rappresentata dalla evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria che in qualche modo possa incidere sulla natura e sull’entità dell’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e, di riflesso, sul contenuto della garanzia pattuita a carico della società che ha stipulato la polizza (Cass. sez. lav., 10.3.2004 n. 4920).

E che l’impugnata sentenza si presti alle censure contenute nel proposto ricorso, proprio sul piano nel quale è consentito il vaglio di legittimità da parte della Corte di Cassazione, emerge altresì dal rilievo, più volte evidenziato da questa Corte (art. 10 del D.P.R. 1124/65, di tale ipotesi di responsabilità dalla garanzia assicurativa).

Parimenti non può omettersi di evidenziare che questa Corte ha, a più riprese, rilevato che il richiamo, nella clausola contrattuale, degli Cass. sez. lav., 29.9.1998 n. 9730).

Ritiene pertanto il Collegio, alla stregua delle considerazioni svolte, che il percorso motivazionale adottato dalla Corte territoriale relativo alla interpretazione della polizza assicurativa in questione si appalesa non conforme alle regole di ermeneutica contrattuale sopra indicate; e si appalesa altresì non conforme al costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, in base alla disciplina dettata dal Cass. sez. lav., 21.12.2010 n. 25860).

Conclusivamente il ricorso deve essere accolto.

Si impone di conseguenza la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio della causa per un nuovo esame, alla stregua delle osservazioni in precedenza svolte, ad altro giudice di appello, designato nella Corte d’Appello di Milano, che provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 385, co. 3, c.p.c.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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