Cassazione Civile, Sentenza 22023 del 2010 Avvocato. Nessun limite massimo per le indennita di maternità maturate prima del 2003

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

L’avv. [OMISSIS], iscritta alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, avendo partorito una bambina il (…), aveva chiesto nel febbraio 2001 alla Cassa, a norma del Decreto Legislativo n. 151/2001, art. 70, (nel quale è confluito la L. n. 379 del 1990, art. 1) il pagamento dell’indennità di maternità, pari all’80% di 5/12 del reddito dell’anno 1999, per un importo complessivo di Euro 855.080,08, avendo denunciato ai fini IRPEF per tale anno un reddito professionale di lire 4.970.483.000.

La Cassa aveva corrisposto alla richiesta erogando alla Avv. [OMISSIS] la minor somma di Euro 23.498,79, avendo ritenuto di dover contenere l’importo da erogare con l’effettuare il calcolo indicato nei limiti della parte dei compensi professionali assoggettati al contributo del 10%, utile per la pensione (all’epoca stabiliti in L. 136.500.000).

Proposta l’azione giudiziaria per ottenere l’importo pieno dell’indennità, calcolato senza alcun limite massimo, il Tribunale di Roma aveva accolto integralmente le domande della legale, mentre la Corte d’appello di Roma, sul gravame della Cassa, ha adottato, con sentenza depositata il 15 settembre 2005, una soluzione intermedia, di tipo equitativo, liquidando alla [OMISSIS] per il titolo indicato l’importo complessivo di Euro 300.000,00, oltre accessori.

Per la cassazione di tale sentenza propone ora ricorso l’avv. [OMISSIS], con un unico motivo.

Resiste alle domande la Cassa con rituale controricorso, proponendo altresì contestualmente ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui la ricorrente principale resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1 – I due ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., investendo la medesima sentenza.

2 – Col ricorso principale, la difesa di [OMISSIS] denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, artt. 70 e 71, (nel testo vigente prima della novella di cui alla legge 289/2003) e della L. 11 dicembre 1990, n. 379, artt. 1 e 5, nonché degli artt. 113, 114 e 432 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente negato il diritto della propria assistita ad una indennità di maternità pari all’80% di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali nell’anno 1999, quale secondo anno precedente quello della domanda.

In proposito, riproducendo il testo della norma invocata, la ricorrente ne evidenzia la chiarezza di significato, nel senso che essa non prevede alcun tetto all’importo dell’indennità, come del resto per oltre dieci anni (dalla legge del 1990) riconosciuto e applicato dalla stessa Cassa.

Ricorda che un tetto all’indennità in parola è stato posto unicamente con la L. n. 289 del 2003 (che non ha natura interpretativa o efficacia comunque retroattiva), il che ne confermerebbe l’assenza nella disciplina precedente, applicabile al caso in esame ratione temporis.

L’avv. [OMISSIS] censura pertanto la decisione della Corte territoriale che avrebbe ritenuto di esprimere un giudizio equitativo nella materia in cui ciò non sarebbe consentito, per la presenza di una chiara diretta disciplina di legge.

Infine, la ricorrente contesta la rilevanza giuridica degli argomenti a suo tempo espressi in giudizio dalla Cassa a sostegno della sua tesi interpretativa, ritenendoli mere valutazioni di opportunità, che del resto nel tempo avevano condotto alla modifica della disciplina di cui alla L. del 2003 e deduce la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale che la Cassa aveva proposto nei gradi di merito in via subordinata.

Concludendo, l’avv. [OMISSIS] chiede l’annullamento della sentenza impugnata, con decisione di questa Corte, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, anche nel merito della originaria propria domanda, di accoglimento della stessa.

3 – Il ricorso incidentale della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense riprende i due motivi disattesi dalla Corte territoriale a sostegno della presenza nella stessa legge, ove interpretata in maniera corretta, di un determinato tetto alla indennità di maternità delle libere professioniste o, in via subordinata, della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge medesima, ove diversamente interpretata.

Col primo motivo, la Cassa deduce infatti la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, commi 1 e 2, e L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 10, nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Sostiene che l’interpretazione letterale della norma di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, condurrebbe ad un risultato incompatibile col sistema normativo relativo alla previdenza forense, che è una previdenza privata che si regge sulle regole della solidarietà tra gli iscritti e dell’equilibrio di bilancio.

In particolare, la Cassa evidenzia come il finanziamento delle prestazioni che essa eroga provenga da un duplice contributo, del 10% fino ad un tetto massimo di reddito professionale (al tempo dei fatti di L. 136.500.000) e del 3% sulla restante parte e che le pensioni di vecchiaia, anzianità, inabilità e invalidità vengono calcolate unicamente sulla base della parte di reddito professionale soggetto alla contribuzione del 10%, mentre quello derivante dall’applicazione dell’aliquota del 3% sarebbe un mero contributo di solidarietà verso gli iscritti meno abbienti.

In tale sistema, sarebbe, secondo la Cassa, assurdo che l’indennità di maternità, alimentata da un modesto contributo aggiuntivo uguale per tutti gli iscritti, possa non avere un tetto in rapporto allo stesso reddito massimo soggetto alla contribuzione principale e utile ai fini pensionistici.

La tesi propugnata dalla ricorrente sarebbe inoltre irragionevole, in quanto comporterebbe il ricorso alla solidarietà categoriale oltre ogni ragionevole limite e metterebbe in pericolo il bilancio della Cassa.

Sotto il primo profilo, se le esigenze della professionista che l’indennità è diretta a soddisfare sono quelle di evitare che la maternità induca uno stato di bisogno compromettendo la libertà della donna di essere madre e la salute sua e del figlio, la solidarietà che al riguardo può richiedersi agli altri iscritti alla medesima Cassa di previdenza non potrebbe peraltro essere senza limiti, ostacolando, diversamente, anche il perseguimento degli altri fini istituzionali della Cassa.

Sarebbe pertanto logico e necessario ritenere che la legge abbia voluto rapportare anche il calcolo dell’indennità di maternità alla retribuzione imponibile col contributo “utile”, così come esplicitamente operato per le altre prestazioni.

La sentenza impugnata sarebbe allora errata nel tentativo di trovare una terza impossibile soluzione di tipo meramente equitativo nella interpretazione della legge, che non sopporta una tale tecnica creativa.

3 – Col secondo subordinato motivo, la Cassa sostiene l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, commi 1 e 2, ove interpretato diversamente da quanto da essa sostenuto.

In proposito, richiamando alcune pronunce della Corte costituzionale nella materia della tutela economica della maternità, la difesa della Cassa ricorda come alle professioniste non sia imposta l’astensione obbligatoria in prossimità del parto e successivamente ad esso, per cui il loro trattamento economico dovrebbe essere necessariamente diverso da quello delle lavoratrici dipendenti; che in linea generale la protezione della maternità non richiede che le donne debbano essere tenute completamente indenni dalla possibile diminuzione del reddito, per cui l’imposizione di un limite sarebbe legittima, anzi costituzionalmente doverosa nelle gestioni fondate sul principio solidaristico, per non sottrarre risorse ad altri impieghi parimenti necessari a soddisfare bisogni costituzionalmente rilevanti; che sarebbe doverosa la regolazione dell’indennità al fine di tener conto della peculiarità delle singole situazioni.

Premesse tali considerazioni, la Cassa sostiene il contrasto della disciplina in esame, come interpretata dalla ricorrente principale:

– con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, in quanto l’indennità è parametrata ai redditi, anche quando ciò non sarebbe necessario per perseguire le finalità sue proprie;

– ancora con l’art. 3 Cost., per l’indebita equiparazione delle professioniste alle lavoratici dipendenti, laddove le loro situazioni sono diverse in fatto e in diritto;

– con gli artt. 36 e 38 Cost., perchè obbligherebbe gli iscritti alle Casse professionali ad una solidarietà illimitata, in contrasto con la logica stessa del principio solidaristico;

– ancora con gli artt. 36 e 38 Cost., perchè non opererebbe alcun bilanciamento tra esigenze previdenziali ed assistenziali e le esigenze di equilibrio della gestione economico – finanziaria della Cassa.

Inoltre la legge è censurata anche in ragione del fatto che l’ammontare dell’indennità, in ragione dell’illogico ancoraggio della stessa al reddito di un solo anno e della naturale fluttuazione dei redditi da attività professionale da un anno all’altro, sarebbe, nella migliore delle ipotesi, lasciata al caso e, nella peggiore, determinata da una scelta “mirata” dei tempi della maternità, tenendo anche conto del fatto che Panno di riferimento, invece che dalla data dell’evento, dipende dalla scelta del momento in cui presentare la domanda all’interno di un ampio periodo che va da novanta giorni prima del parto ai centoottanta successivi ad esso).

Infine, la ricorrente incidentale indica come tertium comparationis, cui uniformare la disciplina in esame, la normativa introdotta dalla legge 289 del 2003, della quale riproduce il contenuto.

La Cassa conclude pertanto per il rigetto del ricorso principale e per la cassazione della sentenza impugnata nei sensi indicati, eventualmente previa proposizione della questione di legittimità costituzionale dedotta.

4 – I due ricorsi possono essere esaminati congiuntamente, comportando sostanzialmente l’interpretazione della norma di legge citata e, in subordine, la sua correttezza sul piano costituzionale.

Il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, (contenente il T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), nel testo anteriore alla novella di cui alla L. n. 289 del 2003, stabiliva:

“Alle libere professioniste iscritte ad una cassa di previdenza ed assistenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi della stessa.

L’indennità di cui al comma 1 viene corrisposta in misura pari all’80% di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda.

In ogni caso l’indennità di cui al comma 1, non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari all’80 per cento del salario minimo giornaliero stabilito dal D.L. 29 luglio 1981, n. 402, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 settembre 1981, n. 537, e successive modificazioni, nella misura risultante, per la qualifica di impiegato, dalla tabella A e dai successivi decreti ministeriali di cui al comma 2, del medesimo articolo”.

A tale disciplina, applicabile ratione temporis al caso in esame, la L. 15 ottobre 2003, n. 289, ha apportato alcune modifiche, in particolare, per quanto qui interessa, sostituendo al comma 2, le parole “del reddito percepito e denunciato a fini fiscali” con le parole “del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito di lavoro autonomo” nonchè le parole “dalla domanda” con quelle “dall’evento” e aggiungendo il comma 3 bis, secondo il quale:

“L’indennità di cui al comma 1 non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo derivante dell’applicazione del comma 3, ferma restando la potestà di ogni singola cassa di stabilire con delibera del consiglio di amministrazione, soggetta ad approvazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un importo massimo più elevato, tenuto conto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e della compatibilità con gli equilibri finanziari dell’ente”.

Sia l’interpretazione sostenuta dalla Cassa della norma di L. del 1990 (trasfusa nel T.U. del 2001), che quella costituente il risultato dell’esercizio dell’equità fatta propria dalla sentenza impugnata sono infondate.

Manifestamente infondata è anzitutto la pretesa del ricorso all’equità operato dalla sentenza impugnata in un caso in cui tale tipo di giudizio non è consentito dalla legge, in una materia viceversa disciplinata direttamente dalla legge.

Ma altresì infondata si rivela la pretesa interpretazione adeguatrice sostenuta dalla difesa della Cassa.

Il testo della norma applicabile al caso in esame ratione temporis è infatti chiaro e inequivoco: il riferimento al reddito percepito e denunciato ai fini IRPEF (quindi a qualunque reddito e non solo a quello strettamente professionale, l’uso del quale termine potrebbe vagamente evocare i limiti imposti alla sua rilevanza ai fini pensionistici) nonchè l’assenza di qualunque ulteriore limitazione (oltre l’abbattimento del 20% del reddito di riferimento) non lascia adito ad alcun dubbio al riguardo.

Né il collegamento ai limiti propri della rilevanza del reddito professionale ai fini pensionistici potrebbe derivare dal parallelismo con le altre prestazioni previdenziali, anche alla luce del sistema di finanziamento delle relative prestazioni e per le necessarie esigenze di bilancio della Cassa.

Come rilevato anche dalla ricorrente principale, la L. n. 379 del 1990, art. 5, prevede il concorso di tutti gli iscritti alla Cassa al finanziamento della indennità in parola, attuato attraverso il versamento di un contributo annuo in misura fissa, rivalutato annualmente, aggiungendo che “al fine di assicurare l’equilibrio delle gestioni delle singole casse… il Ministro del tesoro, sentito il parere dei rispettivi consigli di amministrazione, stabilisce, anche con separati decreti, la variazione dei contributi di cui al presente articolo”.

A ciò consegue l’autonomia, anche sul piano del relativo finanziamento, della disciplina relativa alla indennità di maternità per le libere professioniste rispetto a quella concernente le prestazioni pensionistiche nonché la previsione di un sistema rapido ed efficiente, idoneo ad ovviare ad eventuali inconvenienti, indotti nel tempo dall’erogazione dell’indennità di maternità, su piano dell’equilibrio delle gestioni delle singole casse o di possibile incidenza negativa sulle altre prestazioni previdenziali e assistenziali.

La mancata determinazione di un tetto ulteriore oltre l’abbattimento del 20% del reddito di riferimento risponde poi, nell’ottica del legislatore dell’epoca, ad una migliore valorizzazione dello scopo di sostegno della libertà della donna di essere madre, accanto a quello della salvaguardia della salute della madre e del figlio nel delicato periodo della nascita, scopi che accomunano le discipline del sostegno economico alla maternità in ogni settore.

Con differenze sempre possibili, come ricordato dalla Corte costituzionale citata dalla ricorrente incidentale, che sono il frutto dell’esercizio della discrezionalità del legislatore nel modulare il livello della tutela, categoria per categoria e diversamente nel tempo, in relazione a fattori di variabilità incidenti ora sulle esigenze di bilancio degli enti erogatori ora sull’interesse della donna a mantenere nel periodo considerato un livello economico di vita più vicino possibile a quello previsto come normale.

Ad es., un fattore entro certi limiti importante potrebbe essere rappresentato, in un determinato momento storico, dalla rilevazione del numero prevedibile delle finitrici dell’indennità rispetto agli obbligati al versamento dei contributi, e rilevanti variazioni in tale ambito potrebbero costituire la ragione di mutamenti successivi di disciplina positiva.

Quest’ultima considerazione consente altresì di fornire una risposta adeguata alla obiezione relativa alla dedotta assurdità, in primo luogo sul piano interpretativo, di una disciplina che non individua un limite alla solidarietà cui sono tenuti tutti gli iscritti alla Cassa.

E la risposta è appunto quella per cui il legislatore dell’epoca (dal 1990 al 2003), evidentemente valutando che la percentuale di donne esercenti libere professioni fosse esigua rispetto all’universo dei soggetti tenuti al (modesto) contributo finalizzato all’indennità maternità, ha ritenuto di espandere fino quasi (salvo infatti l’abbattimento del 20%) al massimo l’ampiezza possibile della tutela economica.

Quando poi è cresciuta la presenza delle donne nelle libere professioni e una quota non irrilevante di esse ha cominciato a raggiungere vertici di reddito in precedenza impensabili, il legislatore è intervenuto a rimodulare la tutela con la L. 15 ottobre 2003, n. 289, ancorando il trattamento economico di maternità al reddito strettamente professionale e stabilendone un tetto massimo, seppur elevabile su iniziativa delle singole Casse, proprio in rapporto alle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e alla compatibilità con gli equilibri finanziari dell’ente.

Tale legge, che sicuramente non può ritenersi interpretativa della precedente o comunque retroattiva, costituisce infine la conferma della inesistenza in precedenza di un limite massimo dell’indennità di maternità delle professioniste e quindi della correttezza della interpretazione qui resa (del resto in continuità rispetto ai due precedenti specifici, rappresentati dalle sentenze di questa Corte 17 dicembre 2007 n. 26568 e 13 febbraio 2008 n. 3515, richiamati dalla difesa della ricorrente).

Tale interpretazione non contrasta infine con gli articoli della Costituzione indicati dalla difesa della ricorrente incidentale e non deve pertanto essere mutata per adeguarla ad essi.

La norma non contrasta infatti con l’art. 3 Cost., perchè ispirata ad una più ampia tutela economica della maternità laddove questa era consentita dalle risorse di settore dell’epoca – nel perseguimento degli scopi costituzionalmente rilevanti del sostegno alla maternità e della tutela della salute della madre e del figlio -, col parametrare il relativo trattamento al reddito presumibilmente (e con previsione realistica) inciso dall’evento, senza alcun limite ulteriore oltre al ricordato abbattimento del 20% di tale reddito.

In proposito, questa Corte (sentenza n. 3515/08, cit.) ha avuto già modo di rilevare in generale la non comparabilità delle situazioni che la Cassa pretende di porre a raffronto, in quanto la netta differenza tra lavoro subordinato e lavoro autonomo non consente, in linea generale, di ritenere “gli strumenti di tutela (….) per l’uno (…..) automaticamente applicabili anche all’altro” e, con riferimento specifico alla tutela della maternità, che “il diverso sistema di autogestione dell’attività consente alle donne professioniste di scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio” (così, testualmente, Corte Cost. n. 3 del 1998).

D’altro canto, il sostegno del diritto della donna alla maternità può comportare trattamenti economici differenziati per determinate categorie di lavoratrici madri, in quanto implica, secondo la medesima sentenza della Corte costituzionale che, “per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale, (all’uopo) lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana, (mentre) la probabile diminuzione del reddito, a motivo della sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, non incide, comunque, sulla predetta necessaria serenità, se compensata dal sostegno economico proveniente dalla solidarietà della categoria cui la donna appartiene”.

Quanto, poi, al parametro costituzionale rappresentato dall’art. 38 Cost., è stato già rilevato dalla citata sentenza della Corte, cui questo collegio intende dare continuità, che “il diritto alla previdenza – che ne risulta garantito – non pare, all’evidenza, vulnerato dell’asserito eccesso di tutela dello stesso diritto, che secondo la prospettazione della Cassa ricorrente deriverebbe dall’inclusione nella base di calcolo dell’indennità di maternità per le libere professio-niste dell’intero reddito di riferimento.

Peraltro il contributo degli assicurati al finanziamento dell’indennità di maternità per le libere professioniste (di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 83)… ne priva di qualsiasi fondamento le denunce – di dubbia rilevanza, peraltro, sul piano costituzionale – concernenti, da un lato, una sorta di abuso della solidarietà categoriale e, dall’altro, esigenze di equilibrio del bilancio della Cassa”.

A ciò può aggiungersi, a sviluppo delle considerazioni già svolte in sede di interpretazione della norma di legge in esame, che l’assenza di un tetto dell’indennità in parola si colloca in una fase storica in cui difettavano argomenti concreti che ne sostenessero l’introduzione, anche sul piano dei possibili inconvenienti relativamente al livello di solidarietà intercategoriale coinvolto. Si consideri in proposito che, secondo i dati forniti dalla stessa Cassa, il contributo da essa richiesto agli assicurati per finanziare l’indennità di maternità ammontava nell’anno 2003 a 160 Euro, di per sè modesto, seppure in rapido aumento secondo gli stessi dati.

Ed è appunto in considerazione di quest’ultimo rilievo, unitamente a quello della crescita della spesa totale per le erogazioni e al manifestarsi di casi in cui la donna professionista (cresciuta anche nella percentuale di genere sul totale degli iscritti) raggiungeva in alcuni casi livelli di reddito notevoli, che il legislatore è intervenuto per il futuro con la L. n. 289 del 2003, anche imponendo un tetto al trattamento.

Concludendo sul punto non emergono pertanto elementi sufficienti a far ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale proposta (o a indurre a modificare l’orientamento consolidato di questa Corte in ordine alla interpretazione costituzionalmente orientata della norma di legge esaminata).

In base alle considerazioni svolte, va accolto il ricorso principale dell’avv. [OMISSIS] e rigettato quello incidentale della Cassa, con conseguente cassazione della sentenza impugnata.

Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., non essendo necessario alcun altro accertamento in fatto, la causa può essere decisa nel merito, con la conferma della sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda della [OMISSIS], anche per quanto riguarda il regolamento delle spese di tale grado. Le spese dell’appello vanno compensate, in ragione dell’esito del relativo giudizio, mentre le spese di difesa della [OMISSIS] in questo giudizio di cassazione vanno poste a carico della Cassa e liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta l’incidentale e accoglie il principale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, conferma la sentenza di primo grado anche per le spese; compensa le spese dell’appello e condanna la Cassa alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 51,00, per spese ed Euro 10.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Depositata in Cancelleria il 28.10.2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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