Cass. Civ. Sez. Lav. 11.03.2011 n- 5878 – appello prove poteri del giudice

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Avellino decidendo sulla domanda proposta da C.A. nei confronti della società X s.p.a., dichiarava l’illegittimità del licenziamento senza preavviso intimato al ricorrente in data 11 settembre 2002 e condannava la società convenuta alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18.
La Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame proposto avverso la suddetta sentenza dalla società X s.p.a.. Affermava, in particolare, la correttezza della statuizione del giudice di prime cure secondo cui la tardiva costituzione in giudizio della società X s.p.a. aveva comportato la decadenza della stessa dalla prova; correttamente non erano stati ammessi i documenti e le prove testimoniali dedotte; con la conseguenza che gli addebiti posti a fondamento del provvedimento espulsivo erano risultati privi di supporto probatorio e che pertanto la datrice di lavoro era rimasta inottemperante rispetto all’onere ad essa imposto dalla L. n. 604 del 1966, art. 5. Aggiungeva che non ricorreva, nel caso di specie, un’ipotesi di violazione dell’art. 421 cod. proc. civ., comma 2, atteso che i poteri ufficiosi previsti da tale norma possono essere esercitati solo in presenza di elementi probatori, già legittimamente acquisiti al processo, che offrano significativi spunti di indagine.
Per la cassazione della sentenza la società X s.p.a. propone ricorso affidato a due motivi. C.A. resiste con controricorso.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la società ricorrente denuncia violazione degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. e dell’art. 2119 cod. civ., nonchè vizio di insufficiente e comunque contraddittoria motivazione. Deduce l’erroneità della statuizione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che i documenti già prodotti dalla società all’atto della costituzione nel giudizio di primo grado non fossero ammissibili neanche in grado di appello. Ed infatti la tardiva costituzione non precluderebbe alla parte, prima della discussione orale, la produzione delle c.d. prove costituite ossia la prova documentale.
Sotto altro profilo deduce che la Corte di merito non avrebbe considerato, ai fini dell’ammissione della prova documentale de qua, le difficoltà di reperimento della stessa, difficoltà che emergevano dallo stesso ricorso introduttivo.
Premesso che la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 3 febbraio 2007 ed è pertanto soggetta, ratione temporis, alla disciplina dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, l’illustrazione delle censure, concernente la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non si conclude con la formulazione di un quesito di diritto rispettoso della prescrizione dettata dal citato art. 366 bis c.p.c..
Al riguardo, le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che il quesito deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di Cassazione in poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamele compiuto dal Giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare: in sostanza, l’ammissibilità del motivo è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione (cfr., ad esempio, Cass., SS.UU. 25 novembre 2008 n. 28054). Nel caso di specie, la parte ricorrente non ha adempiuto alla prescrizione imposta dal citato art. 366 bis, atteso che l’illustrazione del motivo di ricorso, che è sostanzialmente riferita ai limiti posti all’ammissibilità della produzione di documenti in primo grado e soprattutto in grado di appello nel rito del lavoro, si conclude domandando alla Corte di stabilire se la costituzione tardiva del convenuto a norma degli artt. 416 e 437 c.p.c., può incidere a tal punto da far venir meno quel diritto ad un equo processo di cui è portatore l’intera collettività oltre che ogni singola parte costituita. Risulta evidente la non riconducibilità del quesito, in tali termini formulato, allo schema previsto dalla legge. La risposta a tale quesito si risolverebbe infatti in una affermazione inidonea ad assumere rilevanza conclusiva ai fini della decisione del motivo, atteso che una siffatta formulazione del quesito di diritto non indica in modo chiaro l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia. Per quanto riguarda la deduzione di vizio della motivazione, essa è rimasta sostanzialmente priva di autonoma rilevanza essendo comunque riconducibile al lamentato vizio di violazione dell’art. 437 c.p.c..
Il primo motivo di ricorso deve essere dichiarato pertanto inammissibile.
Col secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione dell’art. 421 cod. proc. civ. e dell’art. 2119 cod. civ., nonchè vizio di motivazione in relazione alla mancata considerazione, da parte della Corte di merito, della possibilità di compiere accertamenti sui fatti di causa avvalendosi dei suoi poteri d’ufficio previsti dalla norma processuale sopra citata e, con riferimento al giudizio di appello, dall’art. 437 cod. proc. civ..
Il motivo è infondato.
Questa Corte (cfr., in particolare, Cass. 10 gennaio 2006 n. 154) ha precisato che nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata che abbia determinato una preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali; l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti; l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Nel caso di specie non ricorrono i suddetti presupposti atteso che, a causa delle decadenze nelle quali era incorsa la società in relazione alla tardività della costituzione in giudizio in primo grado (cfr. Cass. SS.UU. 20 aprile 2005 n. 8202), non sussiste, come correttamente osservato dalla Corte territoriale, alcun elemento già ritualmente acquisito al processo, tale da poter offrire spunto per integrare un quadro probatorio già tempestivamente delineato, essendo invece ravvisatile una totale carenza probatoria sui fatti idonei a legittimare il potere di recesso.
La Corte territoriale, omettendo di avvalersi dei poteri di cui all’art. 437 c.p.c., ha correttamente applicato i suddetti principi;
la censura deve essere quindi rigettata.
Il ricorso deve essere in definitiva respinto.
In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 32,00, oltre Euro 2.500,00 per onorari e oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2011

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