Cassazione, sez IV, 27 giugno 2011, n. 25658 Applicare l’aggravante per le qualità personali del reo è incostituzionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Ritenuto in fatto

S.T. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, nel confermare quella di primo grado, affermativa del giudizio di responsabilità per il contestato reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente del tipo eroina [kg. 2,478, con principio attivo di gr. 164, 548, pari a 6542 dosi medie singole], in accoglimento dell’appello proposto dal pubblico ministero, rideterminava in peius il trattamento sanzionatorio, eliminando le attenuanti generiche già concesse in primo grado con giudizio di equivalenza.

Articola otto motivi.

Con il primo si duole dell’intervenuta rimessione in termini del PM relativamente alla presenza della lista testimoniale, giustificata in ragione della mancata disponibilità del fascicolo determinata da disfunzioni dell’ufficio GIP, che non poteva addebitarsi al rappresentante dell’ufficio requirente.

Si sostiene che non si tratterebbe di una ipotesi di forza maggiore, onde indebita era stata la rimessione in termini.

Con il secondo, terzo, quarto e quinto motivo, tutti connessi, si duole del giudizio di responsabilità.

Si contesta la valorizzazione dell’individuazione fotografica eseguita da uno degli operanti, ribadita in sede dibattimentale, e considerata satisfattiva ai fini del riconoscimento dell’imputato, e ciò, si contesta, pur avendo il giudicante ammessa la non valutabilità della formale ricognizione espletata in dibattimento in ragione del fatto che il teste aveva avuto occasione di vedere l’imputato in più riprese dopo il fatto incriminato. L’individuazione fotografica, comunque, non sarebbe stata attendibile a fini dimostrativi della colpevolezza, in ragione di una prospettata intrinseca inattendibilità conseguente alla specificità del caso concreto [formula dubitativa dell’identificazione; esecuzione a distanza temporale dal fatto].

Si contesta, ancora, la valenza dimostrativa attribuita al ritrovamento delle impronte papillari del prevenuto sull’autovettura ove era stata trasportata la droga.

Ci si impegna a dimostrare le ragioni alternative a giustificazione della presenza delle impronte [anche attraverso la riproposizione di dichiarazioni testimoniali] e a contestare la possibilità di dare una certa collocazione temporale di dette impronte in termini coerenti con la contestazione.

Si mira a censurare la svalutazione dell’alibi fornito a mezzo testimoni operato dalla corte di merito.

Con il sesto motivo, ci si duole del trattamento sanzionatorio, in particolare dell’accoglimento del motivo di appello del pubblico ministero, per cui erano state negate le attenuanti generiche che il giudice di primo grado aveva concesso per "calmierare" la pena, ergo, con argomenti che il giudice di secondo grado non condivideva ritenendoli giuridicamente erronei.

Si sviluppano gli argomenti che avrebbero dovuto portare a mantenere la concessione delle generiche [comportamento processuale; risalenza dei precedenti; ecc.].

Con il settimo motivo si censura la applicazione dell’aggravante di cui all’articolo 61, comma 11 bis, c.p., successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.

Con l’ottavo motivo contesta il giudizio che ha portato il giudicante a ritenere la recidiva, valorizzando, a riprova della pericolosità, le precedenti condanne, di cui una specifica, e il ravvisato collegamento con gli ambienti delinquenziali non interrotto neppure da un periodo di carcerazione.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato, se non per quanto si dirà con riferimento al settimo motivo.

Quanto al primo motivo è sufficiente evidenziare che il riconoscimento di una causa di forza maggiore, impeditiva dell’esercizio di una facoltà processuale, costituisce apprezzamento di fatto del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità purché esente da vizi logici e giuridici: in questi termini, è corretta e correttamente motivata la determinazione giudiziale fondata, in fatto, sul rilevato ritardo nella trasmissione del fascicolo al pubblico ministero da parte dell’ufficio del Gip, ossia su un disservizio non imputabile all’inquirente e pertanto giustificatamente il rappresentante dell’accusa aveva chiesto [e gli era stato concesso] di essere reintegrato nella facoltà di rito (cfr., in termini, Sezione III, 14 aprile 2000, S., rv. 247494).

I motivi [dal secondo al sesto] relativi all’addebito di responsabilità sono di mero fatto, sostanziandosi in una censura, tra l’altro parcellizzata, dei diversi elementi valutativi posti dal giudicante a base della condanna, comunque in modo pienamente adesivo all’impostazione già assunta dal primo giudice.

È sufficiente ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè ad una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex articolo 606, comma primo, lettera e), c.p.p., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sezione IV, 10 febbraio 2009, Ziello ed altri, non massimata).

In realtà, qui, il ricorrente si limita a proporre una diversa lettura degli elementi indiziari che, a fronte di una doppia conforme sentenza di condanna, non possono essere presi in considerazione, anche perché non evidenziano, né isolatamente, né valutati nel loro insieme, un reale vizio di non tenuta della decisione.

Ciò deve dirsi sull’individuazione fotografica.

Il giudice di merito, infatti, può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali (quale, appunto, l’individuazione fotografica), utilizzabili in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, atteso che la valenza dimostrativa della prova sta non nell’atto in sé, bensì nella testimonianza che da conto dell’operazione ricognitiva (Sezione II, 13 maggio 2009, Perrone, non massimata). Tale deposizione la Corte di merito ha sottoposto ad attenta analisi, anzi ponendo in luce anche taluno degli elementi di criticità evidenziati dalla difesa (quale, in primo luogo, l’intervenuta visione dell’imputato prima dell’esame dibattimentale, che aveva portato a neutralizzare il significato della formale ricognizione dibattimentale).

Ciò deve ancora dirsi anche per la valorizzazione e valutazione della prova tecnica [le impronte papillari], ampiamente argomentata, attraverso il riferimento ai passaggi motivazionali della sentenza di primo grado ed una puntuale critica delle argomentazioni difensive sull’asserita neutralità degli argomenti indiziari.

Al fine di sostenere la sua argomentazione il ricorrente ha fatto riferimento ai principi espressi dalla sentenza Sezione I, 21 maggio 2008, Franzoni, rv. 240673, secondo la quale la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio legittima la condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote – pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili – ma prive di alcun riscontro nelle emergenze processuali.

Sul punto si osserva, in conformità all’orientamento ormai consolidato di questa Corte (v., oltre la suindicata sentenza Franzoni, anche Sezione IV, 12 novembre 2009, Durante, rv. 245879) che il "ragionevole dubbio" riguarda esclusivamente l’individuazione del livello probatorio o indiziario richiesto perché si possa legittimamente pervenire ad una sentenza di condanna in base ai fatti accertati dal giudice di merito.

Da questo principio certamente non deriva il superamento del principio del libero convincimento del giudice, che, proprio nel rispetto della regola "dell’oltre ogni ragionevole dubbio" trova piuttosto un limite che si esprime all’interno di regole legali di valutazione della prova e non s’identifica con un soggettivismo insindacabile che potrebbe sconfinare nell’arbitrio.

In altri termini, la condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, con la precisazione che il dubbio ragionevole non può fondarsi su un’ipotesi alternativa del tutto congetturale seppure plausibile.

Il compito della Corte di cassazione, quando viene dedotta la violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, è limitato a prendere atto di quanto accertato dal giudice di merito e a valutare se appaia logicamente motivato nella sentenza il raggiungimento dello standard probatorio sopra ricordato.

Non si può, invero, trascurare che la selezione e la valutazione delle prove spetta in via esclusiva al giudice del merito, anche perché non c’è nessuna prova che abbia un significato isolato, slegato o disancorato dal contesto in cui è inserita e solo il giudice di merito può apprezzarne la valenza attraverso la valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio; con la conseguenza che persiste per la Corte di cassazione, nonostante le modificazioni introdotte dalla legge n. 46 del 2006 all’art. 606 c.p.p., il divieto di accesso agli atti istruttori, quanto meno nel senso che la Corte di legittimità non potrebbe mai esaminare i singoli atti in modo separato ed atomistico, restando pur sempre il giudizio di cassazione un giudizio di sindacato sulla tenuta della motivazione, cui è preclusa la pure e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma deduzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (v. in questo senso, Sezione I, 11 maggio 2006, Ganci ed altro, rv. 234111).

Passando all’esame del caso oggetto del presente giudizio va rilevato che la valutazione dei giudici di merito che hanno attribuito un carattere di gravità agli elementi indiziari presi in considerazione non appare manifestamente illogica ed è conforme ai criteri dettati in materia di valutazione delle prove dall’art. 192 c.p.p..

Premessa l’impossibilità di dare alle impronte una esatta collocazione temporale sulla base di metodologie scientifiche, il giudicante ha proceduto, infatti, all’esame di ciascun indizio (tra cui le dichiarazioni dello stesso S. e quelle del coimputato, il riconoscimento operato dall’agente di P.G., le affermazioni dei consulenti, ivi compreso quello di parte, secondo le quali le impronte in questione potevano risalire al più a 72 ore prima del momento in cui si era proceduto alla refertazione, l’assenza di qualsiasi elemento a fondamento della ipotesi alternativa prospettata dall’imputato), identificando poi tutti i collegamenti logici possibili tra di essi e ne ha accertato quindi la gravità e la precisione, al fine di affermare che le impronte suddette, certamente riconducibili al Sula, furono lasciate proprio il 7 maggio 2008, quando venne rinvenuto l’ingente quantitativo di stupefacente sequestrato.

Si deve dunque concludere che il materiale probatorio è stato correttamente individuato e correttamente valutato dai giudici di merito, con la conseguente incensurabilità della decisione in questa sede.

Parimenti soddisfacente è l’apprezzamento delle dichiarazioni acquisite, anche quelle utili in ottica difensiva, laddove si assume il travisamento delle dichiarazioni rese dal teste della difesa S.A., che, secondo la tesi difensiva avrebbe consentito di suffragare le dichiarazioni rese dallo stesso imputato.

Quanto al denunciato vizio di motivazione, il ricorrente dimentica, anche in questo caso, i limiti del sindacato del giudice di legittimità.

In realtà le doglianze, in particolare quelle sull’apprezzamento valutativo delle dichiarazioni rese dal fratello dell’imputato, sono state già proposte al giudice di appello, a fronte della decisione sfavorevole in primo grado, e, a fronte di una spiegazione in proposito fornita dal giudicante di secondo grado [tra l’altro conforme a quella di primo grado], queste doglianze si risolvono in una censura sul merito dell’apprezzamento probatorio, tra l’altro formulata in modo comunque non specifico, difettando la specifica illustrazione finanche delle ragioni per cui quelle dichiarazioni, ove interpretate secondo l’esposizione del ricorso, dovrebbero portare ad un giudizio di non tenuta del complessivo giudizio di responsabilità, come detto convergentemente formalizzato sia in primo che in secondo grado.

Incensurabile è il giudizio sul diniego delle attenuanti generiche.

Va ricordato che la concessione o no delle circostanze attenuanti generiche risponde ad una facoltà discrezionale del giudice, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del decidente circa l’adeguamento della pena in concreto inflitta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una "benevola concessione" da parte del giudice, né l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento dell’esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (Sezione VI, 28 ottobre 2010, Straface). In questa prospettiva, mentre sono incensurabili gli argomenti posti a fondamento del diniego, corretta è, ai fini della riforma sul punto della decisione di primo grado, la non condivisione da parte del giudice di appello dell’erroneo apprezzamento sviluppato nella sentenza di primo grado, tale da riconoscere impropriamente alle attenuanti in questione un’efficacia "calmierante" della pena che non è configurabile nel codice di rito.

Negli stessi termini, incensurabile è la determinazione del giudicante di "applicare" la recidiva, valorizzando gli elementi di "pericolosità" che lo giustificavano e di cui si è detto supra.

Va accolto il motivo sull’aggravante di cui all’articolo 61, comma 11 bis, cod. pen..

Infatti, pur a fronte di un ricorso che, per il resto, sarebbe inammissibile, va annullata in parte qua la sentenza per un reato aggravato dalla circostanza della "clandestinità" prevista dall’articolo 61, numero 11 bis, c.p., a seguito dell’intervenuta declaratoria di incostituzionalità di tale aggravante (con la sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010): infatti, l’applicazione dell’aggravante (nella specie, con giudizio di equivalenza rispetto alle attenuanti generiche) ha spiegato incidenza nella determinazione della pena, onde la relativa dichiarazione di incostituzionalità fonda una sopravvenuta causa di nullità della decisione che investe la qualificazione della condotta criminosa e la definizione del trattamento sanzionatorio.

All’annullamento in parte qua della decisione, consegue la necessità di rideterminazione della pena. Operazione, questa, cui può procedere direttamente questa Corte, ex art. 619, c.p.p., giacché dalla motivazione della sentenza è rinvenibile il quantum dell’aumento di pena stabilito per la detta aggravante (un mese di reclusione ed Euro 1000,00 di multa).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aumento della pena per l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 bis c.p. ed elimina tale aumento di pena di mesi uno di reclusione ed Euro 1000,00 di multa. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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