Cassazione, sez. I, 27 aprile 2011, n. 9388 La cessione del credito IVA è revocabile in sede fallimentare?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1. Il Curatore del Fallimento della Omississ.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Trani nel maggio 1997, convenne in giudizio la Caripuglia s.p.a., con la quale la società fallita intratteneva rapporti di conto corrente, per sentir revocare ex art.67 c. 1 n.2 legge fallimentare la cessione, intervenuta in data 8 giugno 1995, in favore della convenuta di un credito IVA di lire 204.445.307, in quanto avente finalità esclusivamente solutorie. Banca Intesa s.p.a., che aveva nel frattempo incorporato la società convenuta, costituendosi dedusse che la cessione era stata concordata a garanzia di un affidamento contestuale richiestole dalla correntista, la quale, già usufruendo sul suo conto, acceso nell’ottobre 1994, di un affidamento per lire 40.000.000, aveva chiesto ed ottenuto nel luglio 1995 un ulteriore fido di lire 200.000.000 sotto forma di anticipazione in lire/valuta; rilevò inoltre che la cessione del credito IVA era operazione frequente nella prassi bancaria, sì che doveva escludersi il carattere anomalo di tale operazione.

2. Con sentenza del 1 ottobre 2003, il Tribunale di Trani dichiarava l’inefficacia della cessione a norma dell’art.67 c. 1 n.2 L.Fall. e condannava Banca Intesa a corrispondere alla Curatela la somma di Euro 105.587,19 oltre interessi e spese.

3. Proponeva appello Banca Intesa, chiedendo l’integrale riforma della sentenza impugnata. La Corte di appello di Bari, con sentenza depositata il 4 maggio 2005, rigettava il gravame. Rilevava in primo luogo la Corte che nella scrittura di cessione le parti, dopo aver indicato che il credito IVA vantato dalla Omissis ammontava a lire 284.173.000, avevano precisato che la banca era creditrice di maggior somma verso la società correntista, che la cessione doveva intendersi irrevocabile e fatta pro solvendo a garanzia del soddisfacimento dei crediti della banca, e che quest’ultima avrebbe trattenuto la somma riscossa per il soddisfacimento di quanto dovutole, come poi concretamente avvenuto dopo l’incasso della somma nel luglio 1996. Aggiungeva la Corte che le inequivoche dichiarazioni contenute nell’atto di cessione circa la preesistenza di una esposizione della società cedente trovavano anche conferma nella documentazione in atti, dalla quale risultava come già nel periodo gennaio-marzo 1995 il conto corrente ordinario della Omissis presentasse una esposizione notevole (tanto che, da un lato, l’affidamento di lire 40 milioni era stato prima ridotto e poi revocato, dall’altro vari assegni emessi dalla correntista non erano stati pagati ma trasmessi al Notaio, e dinanzi a questo pagati), ed altrettanto poteva presumersi (tenendo presenti le precisazioni espresse dalle parti nella scrittura di cessione) circa il c/c anticipi, nonostante la significativa omessa produzione in giudizio della relativa documentazione da parte della banca. Quanto poi all’affidamento per lire 200.000.000 che sarebbe stato concesso alla Omissis nel luglio 1995, da un lato tale negozio non era sufficientemente provato dalle registrazioni sul libro fidi, dall’altro sarebbe comunque successivo alla sottoscrizione del contratto di cessione e quindi all’accordo in ordine alla destinazione della somma che sarebbe stata riscossa, e come tale non farebbe venir meno né la causa tipica del negozio di cessione né il suo collegamento funzionale con lo scopo finale, dichiarato dalle parti, di riduzione del debito, concretamente poi realizzato. Confermata pertanto la natura solutoria della cessione, e la sua non sussumibilità tra i mezzi normali di pagamento, la Corte ribadiva infine la insussistenza di prove circa la ignoranza dello stato di insolvenza da parte della banca, evidenziando come piuttosto sussistessero molteplici elementi di prova della effettiva conoscenza.

4. Avverso tale sentenza, notificata il 22 giugno 2005, Intesa Gestione Crediti s.p.a., quale mandataria di Banca Intesa s.p.a., ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato in data 30 settembre 2005, formulando tre motivi. Resiste il Fallimento della Omissis con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di (imprecisate) norme di diritto, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Lamenta che la Corte di merito sarebbe erroneamente giunta alla conclusione che la cessione di credito del 8.6.1995 avesse natura solutoria. Ribadisce che invece la funzione attribuita dalle parti al negozio fosse quella di garantire un affidamento contestuale. Sostiene in particolare che la precisazione, contenuta nelle premesse della scrittura di cessione del credito IVA, secondo la quale essa cessionaria era creditrice della cedente per somma maggiore del credito oggetto di cessione, non andava interpretata nel senso indicato dalla Corte di merito: attesa la notevole sproporzione tra l’esposizione del conto corrente della cedente alla data della cessione (lire 86.025.661), e comunque tra l’esposizione massima raggiunta dallo stesso nel periodo (lire 129.615.236), e l’ammontare del credito IVA ceduto (lire 284.173.000), sarebbe evidente che non vi era alcun collegamento tra le esposizioni maturate sul conto corrente e la cessione, e che invece quella precisazione dovrebbe interpretarsi nel senso che la Caripuglia era creditrice della società cedente dell’ulteriore fido di lire 200.000.000 concesso. Contesta poi alcuni passaggi della motivazione della sentenza di appello, sostenendo l’irrilevanza della clausola pro solvendo (della quale tuttavia la sentenza non ha trattato) ai fini della natura solutoria della cessione, la erroneità della affermazione secondo la quale gli affidamenti vennero revocati il 28.2.1995 (che deriverebbe da una erronea lettura della copia in atti del libro fidi e sarebbe smentita anche da una lettera raccomandata di revoca datata 13.9.96, inammissibilmente prodotta in questo giudizio di legittimità), la sussistenza della prova della concessione dell’affidamento per lire 200.000.000, che peraltro sarebbe stata deliberata il 19.4.1995 e resa operativa il 5.7.1995.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di (imprecisate) norme di diritto nonché omessa e insufficiente motivazione, in relazione alla affermazione secondo la quale la cessione di credito IVA costituisce un mezzo anormale di pagamento: sostiene che nella prassi commerciale e bancaria tale operazione è ormai divenuta usuale, tanto più che il rimborso IVA costituisce oggetto di un diritto soggettivo perfetto, completamente disponibile.

2. Entrambi i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, che il collegio condivide, la cessione di credito effettuata in funzione solutoria, cioè per estinguere un debito pecuniario scaduto ed esigibile, si caratterizza come anomala rispetto al pagamento effettuato in danaro o con titoli di credito considerati equivalenti, in quanto il relativo processo satisfattorio non è usuale -a prescindere dalla maggiore o minore affidabilità della posizione creditoria trasferita – alla stregua delle ordinarie transazioni commerciali. Essa pertanto, ove non sia stata prevista come mezzo di estinzione contestuale al sorgere del debito così estinto, è soggetta a revocatoria fallimentare a norma dell’art.67 comma 1 n.2 legge fallimentare (cfr. ex multis Cass. n. 17683/2009; n. 26697/2006; n. 5917/2002), anche se pattuita contestualmente alla concessione di ulteriore credito ma in presenza di un debito del cedente nei confronti del cessionario (Cass. n.12556/2004). In linea con tale orientamento, la sentenza impugnata ha innanzitutto indagato il contenuto concreto del negozio di cessione intervenuto tra le parti, onde accertare quale fosse la funzione ad esso attribuita dalle stesse alla luce sia delle espressioni usate nella scrittura di cessione sia degli effetti che questa ebbe sull’esposizione debitoria della società cedente verso la cessionaria. Ed ha così verificato: a)che le espressioni usate nel documento (testualmente riprodotte in motivazione) evidenziavano chiaramente l’intento della cedente di conferire alla banca cessionaria una esplicita autorizzazione ad utilizzare la somma che avrebbe riscosso per abbattere il suo debito per capitale, interessi e spese, il cui importo complessivo veniva espressamente riconosciuto come maggiore di quello del credito ceduto; b)che fu proprio questo il percorso poi seguito dalla Caripuglia, la quale utilizzò la somma ricavata dopo la riscossione del credito per ridurre l’esposizione della cedente. A tali – già di per sé stessi conclusivi – argomenti ha aggiunto che d’altra parte la tesi della odierna ricorrente, secondo la quale non vi sarebbe stata una esposizione da ridurre ma solo un fido da utilizzare, oltre ad essere in contrasto con quanto espressamente dichiarato dalle parti, si mostrava anche smentita da una serie di circostanze documentate in atti.

Ciò posto, va osservato come le censure esposte nei due motivi di ricorso risultano rivolte, in massima parte, contro alcune delle considerazioni aggiuntive espresse nella motivazione della sentenza, e investono indirettamente la ratio principale dell’accertamento della natura solutoria della cessione – quella basata sul contenuto testuale della scrittura negoziale – nella sola misura in cui viene sollecitata una diversa interpretazione -non consentita in questa sede di legittimità – di tale scrittura, imperniata peraltro sull’erroneo principio di diritto secondo il quale la sola concessione di un affidamento al correntista generi un credito della banca. In tale contesto, stante la autonomia della ratio principale, la conformità dei principii da essa applicati al contenuto dispositivo dell’art.67 comma 1 n.2 l.fall. nonché la coerenza, sufficienza e non contraddittorietà della relativa motivazione, le contestazioni espresse dalla ricorrente non conducono comunque alla rilevazione di una inadeguatezza della decisione impugnata. Il rigetto dell’impugnazione, sotto i profili esaminati, ne deriva di necessità.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di (imprecisate) norme di diritto nonché omessa e insufficiente motivazione in relazione alla sua conoscenza, al momento della cessione, dello stato di insolvenza della Omissis. Ribadisce che gli affidamenti non vennero revocati il 28.2.1995 bensì il 13.9.1996 come da lettera raccomandata già richiamata (prodotta solo in questa sede), che i mancati pagamenti di assegni non costituiscono inequivoco indizio di insolvenza – non essendo infrequente che gli imprenditori emettano assegni senza curarsi che vi sia adeguata provvista, contando sulla possibilità di richiamare l’assegno onde evitare il protesto -, che la società poi fallita non risultava aver subito protesti; e che d’altra parte il bilancio al 31.12.1994 della Omissis presentava un utile di esercizio. Lamenta inoltre la ricorrente che la Corte d’appello non abbia provveduto su una sua istanza di autorizzazione alla produzione di documentazione comprovante la inesistenza nel periodo in esame di protesti a carico della società poi fallita, né su altra diretta all’emissione di ordine di esibizione nei confronti della Banca d’Italia di copia della posizione intestata alla Omissis presso la Centrale Rischi. Anche tale motivo si palesa infondato. La sentenza impugnata ha rettamente ritenuto che, a norma dell’art.67 comma 1 l. fall., gravava sulla odierna ricorrente l’onere di vincere la presunzione relativa stabilita da tale norma provando la propria non conoscenza dello stato di insolvenza al momento dell’atto in questione. Ed ha considerato inadempiuto tale onere, dando congrua risposta alle argomentazioni esposte in atto di appello dalla predetta, aggiungendo l’indicazione di alcune circostanze dalle quali si desumerebbe piuttosto la prova della conoscenza.

In effetti, ove – come è pacifico nel caso in esame – non sia offerta una prova diretta della inscientia alla data della cessione, era onere della Caripuglia dimostrare circostanze esterne concrete e specifiche, ad essa note, tali da far ritenere ad un soggetto dotato della competenza professionale propria di una banca che la Omississi trovasse a quella data (8 giugno 1995) in una situazione di normale esercizio di impresa. La ricorrente si è tuttavia limitata a contestare in modo non utile alcune delle valutazioni di merito esposte dalla Corte d’appello, assumendo che le circostanze indicate nella sentenza non proverebbero la sua scientia decoctionis (assunto come tale irrilevante per quanto detto); ed ha semplicemente insistito nell’addurre la sola circostanza positiva incentrata sull’utile esposto nel bilancio relativo all’esercizio 1994 della società poi fallita, senza dedurre specifiche censure in ordine alle puntuali considerazioni con le quali la sentenza impugnata ha congruamente motivato (con riguardo all’intera situazione economico-finanziaria della società, come risultante nel documento contabile) il suo giudizio di inidoneità di tale prova ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio gravante sulla Caripuglia. Quanto poi alle censure riguardanti il mancato accoglimento di alcune istanze istruttorie, esse si mostrano inammissibili per difetto del requisito dell’autosufficienza, non essendo precisato in ricorso né il luogo processuale in cui tali istanze sarebbero state formulate né il loro contenuto specifico.

4. In conclusione, il rigetto del ricorso si impone, con la conseguente condanna della società ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese di questo giudizio di cassazione, spese che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese di questo giudizio di cassazione, spese che liquida in Euro 3.000,00 per onorari e Euro 200,00 per spese, oltre spese generali e oneri accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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