Corte Costituzionale, Sentenza n. 233 del 2011, in materia di giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 32 del 27-7-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 297, comma
3, del codice di procedura penale promosso dalla Corte di cassazione
nel procedimento penale a carico di B.M. con ordinanza del 26
novembre 2010, iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2011 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima
serie speciale, dell’anno 2011.
Udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza depositata il 26 novembre 2010, la Corte di
cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 13, quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 297, comma 3, del
codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo
l’interpretazione datane dalle Sezioni unite della stessa Corte di
cassazione, qualificabile come «diritto vivente» – «impedisce la
retrodatazione della custodia cautelare in carcere nelle ipotesi in
cui per i fatti contestati nella prima ordinanza l’imputato sia stato
condannato con sentenza passata in giudicato, prima della adozione
della seconda misura».
Il Collegio rimettente riferisce, in punto di fatto, che
l’imputato ricorrente nel giudizio principale era stato raggiunto da
due ordinanze applicative della custodia cautelare, emesse dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano «in […]
solo apparentemente, in una prospettiva diacronica, distinti
procedimenti». La prima ordinanza – emessa il 18 maggio 2008 ed
eseguita il 20 maggio 2008 – atteneva a un delitto di detenzione e
spaccio, in concorso, di sostanza stupefacente, commesso nei giorni
30 settembre e 1° ottobre 2006: reato per il quale l’imputato era
stato condannato, a seguito di giudizio abbreviato, alla pena di sei
anni e otto mesi di reclusione con sentenza del 16 settembre 2008,
passata in giudicato in difetto di impugnazione. La seconda
ordinanza, del 24 settembre 2009 ed eseguita il 14 ottobre 2009, era
stata emessa nello stesso procedimento, proseguito nei confronti
degli imputati – alcuni dei quali concorrenti con l’interessato nel
reato che aveva dato luogo all’applicazione della prima misura – e
atteneva a ulteriori fatti di detenzione e spaccio di sostanze
stupefacenti, nonche’ alla partecipazione a una associazione
finalizzata al loro commercio: reati commessi nel corso dell’anno
2006 e fino al gennaio 2007.
In relazione alla custodia cautelare applicata con tale seconda
ordinanza, l’imputato aveva quindi presentato una istanza di
scarcerazione per decorrenza dei termini di durata massima di fase,
basata sul disposto dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. , in tema
di cosiddette contestazioni a catena: norma in forza della quale, «se
nei confronti di un imputato sono emesse piu’ ordinanze che
dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benche’
diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi
commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza, in
relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12,
comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per
eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui e’ stata
eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati
all’imputazione piu’ grave». Secondo la difesa, nell’ipotesi di
specie avrebbero dovuto ravvisarsi tutti i presupposti di
operativita’ della previsione normativa considerata, giacche’ i fatti
oggetto della seconda ordinanza cautelare erano stati commessi
anteriormente all’emissione del primo provvedimento restrittivo ed
erano, altresi’, legati da connessione qualificata al fatto con esso
contestato.
Contro il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari,
di rigetto dell’istanza, l’interessato aveva proposto appello, che
era stato a sua volta respinto dal Tribunale di Milano con ordinanza
del 6 maggio 2010, sul rilievo – reputato assorbente – della carenza
del presupposto di operativita’ dell’invocato meccanismo di
retrodatazione, costituito dalla coesistenza delle due misure. Il
Tribunale aveva fatto, in particolare, applicazione del principio
affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la
sentenza 24 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780, in forza del quale
la disciplina dettata dalla norma censurata non opera qualora – come
nel caso di specie – per i fatti oggetto della prima ordinanza
cautelare, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in
giudicato anteriormente all’emissione della seconda ordinanza.
Avverso la decisione l’imputato aveva proposto il ricorso per
cassazione di cui la Corte rimettente e’ investita, assumendo che
l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. , nella lettura datane dalle
Sezioni unite, violerebbe la ratio di garanzia sottesa alla
disposizione, legittimando l’arbitrio del pubblico ministero nel
ritardare la richiesta della successiva ordinanza cautelare e
determinando, cosi’, irragionevoli disparita’ di trattamento tra
imputati in eguale situazione.
Tutto cio’ Premesso, la Corte rimettente Osserva come il
principio affermato dalle Sezioni unite nella sentenza dianzi
richiamata costituisca «diritto vivente»: con la conseguenza che
l’ordinanza impugnata, che ad esso si e’ adeguata, dovrebbe essere
confermata.
Il giudice a quo dubita, tuttavia, sotto plurimi profili, della
legittimita’ costituzionale della norma censurata, quale risultante
alla luce della predetta interpretazione.
Essa contrasterebbe, anzitutto, con l’art. 3 Cost., generando
irragionevoli disparita’ di trattamento tra situazioni omologhe. Ne
sarebbe dimostrazione eloquente la vicenda oggetto del giudizio a
quo, in cui, nell’ambito di un unico procedimento originario, per il
primo reato contestato al ricorrente era intervenuto, a seguito di
giudizio abbreviato, il giudicato di condanna; mentre il procedimento
era proseguito sia nei confronti dei coimputati nel medesimo reato,
sia in rapporto a ulteriori reati, successivamente contestati al
ricorrente, sempre in concorso con altre persone. Con la irrazionale
conseguenza che i coimputati, i quali avevano proseguito il giudizio
ordinario, avevano maturato, grazie al meccanismo della
retrodatazione, il diritto alla scarcerazione per decorrenza dei
termini in rapporto ad ogni imputazione; mentre il ricorrente – che
aveva optato per il giudizio abbreviato, senza poi nemmeno impugnare
la sentenza di condanna – era rimasto detenuto per i reati contestati
successivamente. Cio’, pur trattandosi di fatti commessi
anteriormente alla prima ordinanza cautelare, avvinti da connessione
qualificata al reato con questa contestato e addirittura conoscibili
sulla base degli atti originariamente acquisiti (essendo stati
desunti – secondo le deduzioni difensive, non contestate
dall’ordinanza impugnata – da intercettazioni telefoniche cessate nel
gennaio 2007).
Risulterebbe leso, in secondo luogo, l’art. 13, quinto comma,
Cost., giacche’ l’inserimento, tra gli elementi ostativi alla
scarcerazione, di un evento, quale il passaggio in giudicato della
sentenza di condanna per il reato contestato con la prima ordinanza
cautelare, violerebbe la regola costituzionale – debitamente
valorizzata dalla giurisprudenza di questa Corte – in forza della
quale la durata massima della custodia cautelare deve essere
determinata dal legislatore, e non dipendere da iniziative, dolose o
colpose, del pubblico ministero, ovvero da circostanze accidentali
estranee alle esigenze di garanzia della liberta’ personale
dell’imputato nel corso del processo (quali la colpa del giudice
nella conoscenza degli atti processuali, l’eccessivo carico di lavoro
gravante sugli uffici, le loro disfunzioni o la loro efficienza).
L’avere stabilito che la formazione del giudicato in ordine al
primo reato in connessione qualificata fa venire meno la condizione
di operativita’ della retrodatazione, costituita dalla contestualita’
delle misure, rifletterebbe, d’altra parte, una concezione del
giudicato ormai superata dagli sviluppi della legislazione. Lungi dal
cristallizzare in modo definitivo la situazione processuale, anche
con riferimento alla pena inflitta, il giudicato sarebbe divenuto
ormai «permeabile», tanto da poter essere modificato e «ridotto» a
fronte di eventi successivi, quale, in particolare, il riconoscimento
della continuazione tra il reato gia’ giudicato e altro «sub iudice».
In questa prospettiva, la sopravvenienza del giudicato
relativamente al reato oggetto della prima ordinanza cautelare non
avrebbe alcun significato rilevante, tale da giustificare il
depotenziamento della ratio di garanzia sottesa alla disciplina della
retrodatazione, la cui applicazione non sopporterebbe limitazioni che
non si connettano a interessi di pari o superiore rango
costituzionale. Conclusione, questa, condivisa anche da alcune
pronunce della stessa Corte di cassazione, sia pure in rapporto alla
diversa fattispecie del giudicato intervenuto successivamente
all’emissione della seconda ordinanza cautelare.
La norma censurata violerebbe, da ultimo, la presunzione di non
colpevolezza, sancita dall’art. 27, secondo comma, cost. Attribuendo
al giudicato formatosi in relazione a uno solo dei reati in
connessione qualificata un effetto ostativo alla retrodatazione, si
correrebbe, infatti, il rischio di imputare l’esecuzione della pena,
in corso per il reato gia’ giudicato, ove questo sia meno grave –
stante la piu’ che probabile riduzione conseguente al riconoscimento
del nesso della continuazione – alla pena conseguente ai reati piu’
gravi oggetto della seconda ordinanza cautelare e ancora da
giudicare: sicche’, in pratica, l’imputato sconterebbe una pena per
reati relativamente ai quali non e’ ancora intervenuta una sentenza
definitiva.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione, prima sezione penale, dubita della
legittimita’ costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di
procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione
accolta dalle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione,
qualificabile come «diritto vivente» – «impedisce la retrodatazione
della custodia cautelare in carcere nelle ipotesi in cui per i fatti
contestati nella prima ordinanza l’imputato sia stato condannato con
sentenza passata in giudicato, prima della adozione della seconda
misura».
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata, intesa in tali
termini, violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione,
determinando una irragionevole disparita’ di trattamento di
situazioni eguali. In particolare, i coimputati dei medesimi reati si
vedrebbero negato o riconosciuto il diritto alla scarcerazione, a
seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui
fatti oggetto della prima ordinanza cautelare, col risultato, tra
l’altro, di penalizzare coloro che abbiano scelto riti alternativi e
omesso di impugnare la sentenza di condanna.
Sarebbe leso, altresi’, l’art. 13, quinto comma, Cost., giacche’
l’attribuzione al giudicato sui fatti contestati con la prima
ordinanza di un effetto ostativo alla retrodatazione violerebbe la
regola che vuole i termini massimi della custodia cautelare
predeterminati dal legislatore, e non dipendenti da iniziative,
dolose o colpose, del pubblico ministero, ovvero da circostanze
accidentali estranee alle esigenze di garanzia della liberta’
personale dell’imputato nel corso del processo.
La norma denunciata si porrebbe in contrasto, da ultimo, con la
presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27, secondo comma,
Cost.: presunzione che rischierebbe di essere elusa, ove risulti
prevedibile che la pena definitiva in corso di esecuzione – relativa
ai reati meno gravi contestati con la prima ordinanza cautelare –
dovra’ essere imputata, in forza del vincolo della continuazione con
i reati piu’ gravi ancora da giudicare, oggetto della seconda
ordinanza, alla pena conseguente al futuro giudicato di condanna per
questi ultimi.
2. – In riferimento agli artt. 3 e 13, quinto comma, Cost., la
questione e’ fondata, nei termini di seguito specificati.
3. – Il quesito di costituzionalita’ sottoposto all’esame della
Corte investe la disciplina delle cosiddette contestazioni a catena:
disciplina che – raccordandosi in modo diretto ai parametri
costituzionali ora evocati – trova la sua ratio fondante
nell’esigenza di evitare che prassi artificiose o colpevoli inerzie
dell’autorita’ giudiziaria possano incidere in senso negativo sulla
permanenza in vinculis dell’imputato, determinando uno spostamento in
avanti del dies a quo per il computo dei termini massimi di durata
delle misure cautelart.
Giova, al riguardo, ricordare come, nel vigore del codice di
procedura penale del 1930 – che ignorava, in origine, il fenomeno –
fosse stata la giurisprudenza di legittimita’ ad enucleare, in via
interpretativa, eccezioni al principio di autonoma decorrenza dei
termini in rapporto a ciascun titolo custodiale, finalizzate ad
arginare possibili fenomeni elusivi. Si era ritenuto, in particolare,
che nel caso in cui una persona risultasse colpita da una pluralita’
di provvedimenti cautelari, la colpevole inerzia dell’autorita’
giudiziaria nell’adottare i provvedimenti successivi al primo, e a
maggior ragione l’artificioso ritardo nelle nuove contestazioni, non
potessero dar luogo a un prolungamento della custodia: dovendo, in
tal caso, operare una regola di retrodatazione, in forza della quale
i termini di durata delle misure successive andavano computati dal
momento di esecuzione del primo provvedimento.
Detto orientamento giurisprudenziale trovava una eco normativa
dapprima nell’art. 2 della legge 28 luglio 1984, n. 398 (Nuove norme
relative alla diminuzione dei termini di carcerazione cautelare e
alla concessione della liberta’ provvisoria), che sostituiva l’art.
271 del codice di rito del 1930; indi nell’originario art. 297, comma
3, del codice vigente, sostanzialmente riproduttivo della
disposizione ora citata, e, infine, nell’art. 12 della legge 8 agosto
1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di
semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di
difesa), che ha sostituito, ampliandone la portata, detto art. 297,
comma 3.
La regolamentazione legislativa del fenomeno – pur partecipando
della medesima ratio – si e’ posta, peraltro, in una prospettiva
differenziata, quanto a meccaniche di intervento, rispetto
all’indirizzo giurisprudenziale dianzi ricordato. In luogo, cioe’, di
far perno sulla rimproverabilita’ all’autorita’ giudiziaria della
frammentazione temporale delle misure, il legislatore ha preferito
individuare talune relazioni tra i reati oggetto dei plurimi
provvedimenti cautelari, reputandole di per se’ giustificative della
retrodatazione dei termini. In particolare, il nuovo testo dell’art.
297, comma 3, cod. proc. pen. introdotto dalla legge n. 332 del 1995
rende applicabile detta disciplina – oltre che alle ordinanze
cautelari emesse «per uno stesso fatto», benche’ «diversamente
circostanziato o qualificato» – anche alle ordinanze emesse per
«fatti diversi», laddove si tratti di fatti commessi anteriormente
all’emissione della prima ordinanza e sempre che tra gli stessi
intercorra una connessione qualificata (concorso formale,
continuazione o connessione teleologica).
Alla luce di una lettura ormai consolidata, in presenza delle
condizioni ora ricordate la retrodatazione opera automaticamente:
senza, cioe’, che occorra accertare che i fatti oggetto del secondo
provvedimento cautelare fossero desumibili dagli atti acquisiti
dall’autorita’ giudiziaria al momento dell’emissione della prima
ordinanza e, tanto meno, che dagli atti emergessero elementi gia’
idonei a giustificare l’adozione della misura cautelare.
Si tratta di soluzione che questa Corte ha giudicato del tutto
ragionevole, in quanto sorretta dal preminente intento «di comprimere
entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure
cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto dall’art. 13,
ultimo comma, della Carta fondamentale». Obiettivo, questo, con il
quale non puo’ «ritenersi incoerente […] la scelta di individuare
alcune ipotesi che, piu’ di altre, presentano elementi di
correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una
valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare», secondo
una prospettiva volta ad «impedire che, nel corso delle indagini, le
contestazioni cautelari plurime per fatti connessi ammettano un
diverso trattamento sul piano della durata delle misure a seconda che
l’indagato riesca o meno a provare l’artificiosa diluizione nel tempo
delle singole ordinanze» (sentenza n. 89 del 1996; in senso conforme,
ordinanze n. 20 del 1999, n. 349 e n. 221 del 1996).
Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimita’ (si
veda, in particolare, la sentenza delle Sezioni unite della Corte di
cassazione 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957), tale disciplina
opera non soltanto quando le ordinanze cautelari siano emesse nello
stesso procedimento, ma anche quando – come nel caso oggetto del
giudizio a quo (a seguito della intervenuta separazione dei
procedimenti) – le misure vengano adottate nell’ambito di
procedimenti distinti. Cio’, a evitare che la separazione dei
procedimenti si traduca in un meccanismo elusivo: prospettiva nella
quale, peraltro, l’operativita’ della regola di computo dei termini
di cui si discute resta subordinata all’ulteriore condizione –
stabilita dal secondo periodo dello stesso art. 297, comma 3, cod.
proc. pen. – che i fatti oggetto del diverso procedimento e del
secondo titolo custodiale risultino desumibili dagli atti prima del
rinvio a giudizio per i fatti contestati con la prima ordinanza (in
caso contrario, infatti, lo svolgimento separato dei procedimenti
dovrebbe ritenersi imposto da ragioni oggettive).
Dopo la novellazione operata dalla legge n. 332 del 1995,
rimaneva, per converso, incerto il trattamento da riservare
all’ipotesi – non regolata dalla legge – in cui i plurimi
provvedimenti cautelari riguardassero reati non uniti da un rapporto
di connessione qualificata. A fronte della formazione di un indirizzo
giurisprudenziale contrario all’operativita’ della retrodatazione in
tale ipotesi – il quale, benche’ successivamente smentito dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda la gia’ citata
sentenza 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957), vincolava, nel caso
di specie, i giudici rimettenti quale principio di diritto enunciato
in sede di rinvio – questa Corte interveniva, dichiarando
costituzionalmente illegittimo l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. ,
«nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non
connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova
ordinanza erano gia’ desumibili dagli atti al momento della emissione
della precedente ordinanza» (sentenza n. 408 del 2005).
La Corte rilevava come, nell’evenienza ora indicata, nella quale
la diluizione temporale delle misure risulta concretamente
ascrivibile a scelte o a negligenze dell’autorita’ giudiziaria,
l’esclusione della retrodatazione dei termini di durata resti «del
tutto ingiustificata». In un contesto normativo attento a calibrare
l’intera disciplina dei termini di durata delle misure limitative
della liberta’ personale sulla falsariga dei valori della adeguatezza
e proporzionalita’, infatti, «nessuno spazio puo’ residuare in capo
agli organi titolari del potere cautelare di scegliere il momento a
partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali
in caso di pluralita’ di titoli e di fatti reato cui essi si
riferiscono. Se dunque il legislatore, in perfetta aderenza con i
valori di certezza e di durata minima della custodia cautelare (v.
art. 13, primo ed ultimo comma, Cost., nonche’ art. 5, comma 3,
Convenzione europea dei diritti dell’uomo), ha ritenuto di dover
stabilire […] meccanismi legali di retrodatazione automatica dei
termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i
diversi titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata,
a fortiori l’identico regime di garanzia dovra’ operare in tutti i
casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere
adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa
l’autorita’ giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per
l’adozione delle singole ordinanze». In simile evenienza, difatti, la
durata della custodia viene a dipendere «non da un fatto obiettivo
(rispettoso, dunque, del canone dell’uguaglianza e della
ragionevolezza), quale quello dell’acquisizione di elementi idonei e
sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una
imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere
cautelare».
4. – Cio’ Premesso, nell’odierno frangente viene in rilievo un
ulteriore profilo problematico del fenomeno: quello, cioe’, delle
interferenze tra la disciplina delle contestazioni a catena e il
giudicato di condanna formatosi in rapporto ai reati oggetto del
primo provvedimento cautelare.
Come si ricorda nell’ordinanza di rimessione, il tema ha formato
oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di
cassazione, la quale – dirimendo il pregresso contrasto di
giurisprudenza, nel senso dell’adesione all’indirizzo in precedenza
maggioritario – ha individuato nella formazione di detto giudicato,
se anteriore alla data di adozione della seconda ordinanza cautelare,
un elemento preclusivo implicito all’operativita’ della disciplina in
questione (sentenza 23 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780). Secondo
la citata decisione, infatti, la sentenza definitiva di condanna,
determinando la cessazione della prima vicenda cautelare (cui si
sostituisce l’espiazione della pena inflitta) ancora prima che si
innesti la seconda, esclude eo ipso la configurabilita’ di una
situazione di «coesistenza» tra plurime misure. Situazione, che deve
considerarsi, di contro, presupposta ai fini dell’applicabilita’
della regola stabilita dalla disposizione censurata, alla luce di un
complesso di argomenti, a cominciare da quello letterale: l’art. 297,
comma 3, cod. proc. pen. – rivolgendosi all’«imputato» e facendo
riferimento all’«imputazione» piu’ grave, quale parametro per la
commisurazione dei termini cautelari – mostra, infatti, di richiedere
l’attuale pendenza dei procedimenti e la contestualita’ temporale tra
le ordinanze concatenate.
Al principio ora ricordato si e’ conformata la successiva
giurisprudenza di legittimita’: il che consente di parlare di una
lettura, allo stato, consolidata della norma sottoposta a scrutinio.
5. – Questa Corte e’ chiamata quindi a verificare se l’indicata
preclusione all’operativita’ del regime della retrodatazione possa
ritenersi conforme ai parametri evocati dal giudice a quo.
Al riguardo, e’ opportuno ribadire e sottolineare come il nucleo
di disvalore del fenomeno delle contestazioni a catena risieda
nell’impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso dei
termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del
medesimo soggetto. Il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza
cautelare non vale, ovviamente, a prolungare i termini di durata
massima della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per
legge, ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen. – ma, in difetto di
adeguati correttivi, avrebbe l’effetto di espandere la restrizione
complessiva della liberta’ personale dell’imputato, tramite il cumulo
materiale – totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a
ciascun reato. Cio’, col risultato di porre l’interessato in
situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima
situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti
cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la
predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure,
imposta dall’art. 13, quinto comma, cost. Ed e’ questo l’effetto che
la disciplina dettata dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. , quale
integrata dalla citata sentenza di questa Corte n. 408 del 2005, mira
a prevenire: in termini rigidi e di protezione avanzata, quando tra i
reati contestati con i provvedimenti cautelari sequenziali sussista
un legame contenutistico di particolare spessore, quale quello
espresso dalla identita’ del fatto o dalla connessione qualificata;
ovvero subordinatamente alla concreta verifica della
rimproverabilita’ del ritardo all’autorita’ giudiziaria, in assenza
di quel legame.
Se cosi’ e’, non si puo’ peraltro ritenere che – in linea
generale – la «coesistenza» tra le misure cautelari rappresenti, sul
piano logico-giuridico, un presupposto necessario affinche’ si
producano le conseguenze lesive che il meccanismo della
retrodatazione tende a scongiurare. Il vulnus arrecato ai principi
costituzionali che presiedono alla disciplina della liberta’
personale dell’imputato e’, anzi, maggiore allorche’ la seconda
ordinanza cautelare intervenga dopo che la prima, per qualunque
ragione, ha cessato di produrre i suoi effetti. Il prolungamento
della restrizione della liberta’ personale risulta, infatti, massimo
allorche’ il secondo titolo – anziche’ sovrapporsi, per un periodo
piu’ o meno lungo, al primo, confluendo, cosi’, almeno in parte, in
un unico periodo custodiale – sia adottato quando il precedente ha
gia’ esaurito completamente le sue potenzialita’, con conseguente
cumulo integrale dei due periodi di privazione della liberta’
personale.
Altrettanto evidente e’ l’irrilevanza, sotto il profilo
considerato, dello iato temporale che eventualmente intercorra tra la
cessazione degli effetti della prima misura e l’applicazione della
seconda. Per quanto ampio, esso non elide la circostanza che a un
periodo di custodia cautelare – magari interamente patito per
scadenza del termine finale – se ne sommi successivamente un altro
che – alla luce della regola legale di retrodatazione – non sarebbe
dovuto affatto iniziare o, comunque, avrebbe avuto una durata
inferiore a quella consentita dai normali criteri di computo. Unica
conseguenza della mancanza di continuita’ tra le misure e’
l’assolutamente ovvia impossibilita’ di tenere conto del periodo nel
quale il soggetto e’ tornato in liberta’, nella verifica della
scadenza dei termini della custodia.
6. – La conclusione – per il profilo che qui interessa – non
muta, peraltro, neppure quando l’evento che determina la cessazione
della prima vicenda cautelare sia costituito dal passaggio in
giudicato della sentenza di condanna relativa al reato che l’ha
originata.
Per escludere la lesione costituzionale denunciata non e’,
infatti, sufficiente evocare la fondamentale regola in materia di
esecuzione penale stabilita dall’art. 657, comma 1, cod. proc. pen. ,
che impone di detrarre la custodia cautelare subita dalla pena
detentiva inflitta con la sentenza irrevocabile: meccanismo che,
trasformando il periodo di custodia gia’ sofferto in espiazione di
pena, impedirebbe, in tesi, di imputare – con operazione di segno
inverso – quello stesso periodo alla durata massima della custodia
cautelare applicata con una diversa ordinanza.
A prescindere da ogni altro rilievo, il ragionamento ora
ricordato non vale, di nuovo, a cancellare il fatto che, anche
nell’ipotesi considerata, l’adozione scaglionata nel tempo dei titoli
custodiali pone l’imputato in situazione oggettivamente deteriore,
rispetto a quella in cui si sarebbe trovato ove le ordinanze fossero
state emesse nel medesimo contesto temporale. In quest’ultimo caso,
infatti, il tempo massimo di durata si sarebbe consumato
parallelamente per entrambe le misure cautelari, confluendo in un
unico periodo di privazione della liberta’ personale. Non solo: ma,
dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il
reato contestato con la prima ordinanza, nel computo del termine
della custodia cautelare applicata con la seconda ordinanza si
sarebbe dovuto comunque tenere conto anche del periodo nel quale la
misura in questione si e’ sovrapposta all’esecuzione della pena
inflitta per il primo reato. Cio’, in forza dell’espressa previsione
dell’art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. , secondo la
quale «ai soli effetti del computo dei termini di durata massima, la
custodia cautelare si considera compatibile con lo stato detentivo
per esecuzione di pena». Questa previsione rende palese come, se la
custodia cautelare riguarda un reato diverso da quello oggetto della
condanna irrevocabile, il passaggio alla fase esecutiva – e, dunque,
anche l’ipotizzato fenomeno di trasformazione della custodia gia’
sofferta per il reato gia’ giudicato in espiazione di pena, a seguito
della regola di detrazione prevista dall’art. 657, comma 1, cod.
proc. pen. – non precluda l’operativita’ dell’art. 303 cod. proc.
pen. – e, quindi, la rilevanza del decorso dei termini da esso
previsti – per il reato ancora da giudicare.
Anche nell’evenienza considerata sussiste, dunque, l’esigenza di
prevenire possibili fenomeni di aggiramento dei termini massimi di
custodia. Tale situazione potrebbe prestarsi, in effetti, ad abusi
persino piu’ gravi: quale quello di attendere, prima dell’emissione
della seconda ordinanza relativa a fatti diversi, non soltanto
l’esaurimento della prima vicenda cautelare, ma anche l’intera
espiazione della pena inflitta per il reato cui questa si riferisce,
evitando cosi’ di rendere operante la regola di computo di cui al
citato art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen.
7. – Neppure, da ultimo, e’ possibile ritenere che, nell’ipotesi
di cui si discute, le esigenze di garanzia sottese alla disciplina
delle contestazioni a catena restino integralmente soddisfatte dal
principio del ne bis in idem, enunciato dall’art. 649 cod. proc. pen.
E’ ben vero che il divieto di un secondo giudizio per lo stesso
fatto sul quale e’ intervenuta una pronuncia irrevocabile – anche se
diversamente considerato per il titolo, il grado o le circostanze –
opera anche in rapporto alle iniziative cautelari: determinando,
percio’, una preclusione radicale all’emissione di ulteriori titoli
custodiali, che assorbe le finalita’ cui e’ preordinata la regola di
retrodatazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. Ma tale
assorbimento si produce esclusivamente in rapporto alle ordinanze
cautelari emesse in sequenza per uno «stesso fatto»: lasciando, per
converso, totalmente scoperta, sul piano della tutela, l’ipotesi –
estranea allo spettro di operativita’ dell’art. 649 cod. proc. pen. e
che viene specificamente in rilievo nel giudizio a quo – delle
ordinanze sequenziali relative a «fatti diversi».
8. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque
concludere che – in rapporto a tale ipotesi – la preclusione
all’applicazione del meccanismo di retrodatazione dei termini,
connessa alla formazione del giudicato sui fatti oggetto della prima
ordinanza cautelare in data anteriore a quella di adozione della
seconda ordinanza – evento sul quale incide, peraltro, un complesso
di fattori, anche casuali – viola l’art. 3 Cost., determinando, per
le ragioni dianzi evidenziate, ingiustificate disparita’ di
trattamento tra imputati che versano in situazioni eguali.
La medesima preclusione viola, altresi’, l’art. 13, quinto comma,
Cost., nella misura in cui apre la via alla possibile elusione dei
limiti massimi di durata della custodia cautelare prefigurati dal
legislatore.
9. – L’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (come integrato dalla
sentenza di questa Corte n. 408 del 2005) va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui – con riferimento
alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi –
non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso
stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la
prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata
in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
La censura formulata dal giudice a quo in riferimento all’art.
27, secondo comma, cost. resta assorbita.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 297, comma 3,
del codice di procedura penale, nella parte in cui – con riferimento
alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi –
non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso
stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la
prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata
in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.

Il Presidente: Quaranta

Il redattore: Frigo

Il cancelliere: Melatti

Depositato in cancelleria il 22 luglio 2011

Il direttore della cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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