Cassazione, sez. III, 24 febbraio 2011, n. 4493 Incidente in bicicletta il danno da riduzione della capacità lavorativa generica va risarcito come danno biologico?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1.- Tamponato, mentre era alla guida della propria bicicletta, dal motociclo condotto da A..A. ed assicurato presso la Sai s.p.a. (in seguito Fondiaria Sai s.p.a.), il ventenne F.R. agì giudizialmente per il risarcimento.

Con sentenza n. 11464 del 2000 il tribunale di Milano condannò solidalmente i convenuti al pagamento di L. 44.914.000, oltre agli accessori, a titolo di risarcimento del danno alla salute subito dall’attore, che aveva riportato lesioni alla gamba destra dalle quali erano residuati postumi permanenti determinati nel 10% sotto il profilo del danno biologico.

2.- La corte d’appello di Milano ha respinto il gravame del F. volto al riconoscimento al risarcimento del danno da lucro cessante da diminuzione della capacità lavorativa generica e specifica.

Ha ritenuto che "il danno da riduzione dell’incapacità lavorativa generica, costituendo una lesione di un’attitudine o di un modo di essere del soggetto, non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia in una menomazione dell’integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico (cfr., da ultimo, Cass., n. 15187/04)”.

Ed ha rigettato la censura con la quale l’appellante aveva sostenuto che la menomazione ad una gamba conseguente ad una frattura non poteva non incidere sulla sua futura occupazione, sui rilievi che l’esistenza di postumi permanenti (ipotrofia dell’arto inferiore destro e positività alla manovra del cassetto" in sede posteriore al ginocchio destro, comportante secondo il c.t.u. un’eventuale inabilità lavorativa generica del 12%) non comporta in se stessa il diritto al risarcimento da riduzione della capacità di guadagno e che l’attore non aveva neppure indicato quale tipo di occupazione stesse cercando.

3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione il F. in persona del procuratore speciale Stefano Trotta, affidandosi a sei motivi cui resiste con controricorso la Fondiaria Sai s.p.a.

Motivi della decisione

1.-La decisione è censurata:

a) col primo motivo, per violazione o falsa applicazione degli artt. 2059 c.c., 138 e 139 del d.lgs.vo n. 209 del 2005 (codice delle assicurazioni) per avere la corte d’appello inquadrato il danno da incapacità lavorativa generica nell’ambito del danno biologico, che dichiaratamente non concerne la capacità di produrre reddito, attenendo ad una lesione dell’integrità psicofisica che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato;

b) col secondo, per violazione o falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1223 e 1226 c.c., poiché, correlativamente, la riduzione della capacità lavorativa comporta solitamente anche una riduzione della retribuzione ed integra, dunque, un danno patrimoniale da determinarsi, anche equitativamente, secondo un giudizio prognostico sulle potenzialità ed attitudini del soggetto (nella specie, straniero soggiornante in Italia, privo di adeguata formazione scolastica e professionale, in cerca di occupazione che poteva prevedersi di carattere manuale, comportante sforzi fisici);

c) col terzo, per violazione o falsa applicazione dell’art. 137 del d. lgs.vo n. 209 del 2005, per non avere la corte territoriale applicato il criterio del triplo della pensione sociale – mutuato dall’art. 4, comma 3, della legge n. 39 del 19777 – ad un soggetto privo di reddito al momento della lesione, ma potenzialmente idoneo a produrlo;

d) col quarto, per vizi della motivazione, per non avere la corte territoriale, una volta inquadrato il danno in questione nel danno biologico, apoditticamente affermato che la riduzione della capacità lavorativa generica integri un danno biologico e per non avere, allora, comunque liquidato in misura maggiore il danno biologico, considerando il maggiore sforzo e la maggiore usura connessi alla futura attività lavorativa;

e) col quinto, per violazione o falsa applicazione degli artt. 2059, 2056, 1226 c.c., 138, comma 3. e 139, comma 3, d. lgs.vo n. 209 del 2005 per non essere stato elevato – onde non rendere concretamente irrisarcibile l’inabilità lavorativa generica stimata nel 12% dal c.t.u. – il grado percentuale di invalidità permanente posto a base del calcolo del danno biologico, ovvero incrementato il valore monetario del punto di invalidità;

f) col sesto ed ultimo motivo di ricorso (erroneamente indicato anch’esso come quinto a pag. 19 del ricorso), per violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., per essere stato rigettato anche il secondo motivo di appello (col quale la sentenza di primo grado era stata censurata per non avere il tribunale liquidato il danno da incapacità lavorativa specifica) sulla base del rilievo che l’appellante non aveva neppure indicato quale tipo di occupazione stesse cercando; tanto in dissonanza rispetto all’indirizzo di legittimità secondo il quale, accertata la riduzione di non modesta entità della capacità lavorativa del soggetto, la diminuzione della capacità di guadagno in proiezione futura può essere presunta. E tanto poteva, sulla base dei dati di comune esperienza, essere senz’altro fatto nel caso di specie.

3.- I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la connessione che li connota, sono infondati.

3.1.- È certamente corretto che, com’è stato reiteratamente chiarito da epoca ormai risalente (cfr., ex multis, Cass. 19.1.99, n. 475; Cass. 11.5.99, n. 4653, Cass. 12.7.2000, n. 9228, Cass. 10.8.2000, n. 10579, cui è allineata la giurisprudenza successiva), il danno biologico e quello che si riflette sul piano economico reddituale attengono a due distinte sfere di riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno e per il primo, prevalentemente, alla gravità della inabilità.

A tanto anzitutto consegue che la maggiore usura, fatica o difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa (definite come danno da lesione della "cenestesi lavorativa") che non incidano sul reddito della persona offesa neppure nel senso di perdita di una favorevole possibilità di incremento patrimoniale (cosiddetta perdita di chance), ma comportino soltanto un maggiore sforzo per compiere le stesse attività svolte prima del sinistro o quelle prevedibili per il futuro, in quanto non risolventisi in una diminuzione patrimoniale ma in una compromissione dell’essenza biologica dell’individuo, vanno invece liquidate come danno alla salute (ex multis. Cass., nn. 2311/07.

È del pari noto che la categoria concettuale della incapacità lavorativa generica, elaborata prima dell’individuazione di quella del danno alla salute al fine di evitare che il danneggiato privo di redditi di lavoro non conseguisse alcun risarcimento (diverso da quello connesso al danno morale), non può essere utilizzata – ammesso che ancora conservi un’utilità individuante – per riconoscere in modo sostanzialmente automatico un danno patrimoniale da lucro cessante come conseguenza delle lesioni (ex coeteris, Cass., n. 10074/10), che possono non essere suscettibili di incidere sulla concreta attitudine del soggetto leso a produrre un reddito sia nel caso che egli già svolga un determinato lavoro, sia nel caso che ancora non eserciti un’attività lavorativa; in tale secondo caso, la valutazione prognostica del giudice è tanto più agevole quanto maggiore è la gravità dei postumi, posto che un elevato grado di invalidità permanente è tendenzialmente idoneo ad incidere negativamente sulla capacità di guadagno del soggetto in relazione a pressoché ogni genere di lavoro.

Fermo dunque che gli effetti pregiudizievoli della lesione della salute del soggetto leso danno luogo ad un danno patrimoniale di lucro cessante in quanto ne eliminino o riducano la capacità di produrre reddito, s’è da tempo affermato che i postumi permanenti di piccola entità, non essendo idonei ad incidere sulla capacità di guadagno, non pregiudicano la capacità lavorativa e "rientrano" invece nel danno biologico come menomazione della salute psicofisica della persona (cfr., tra le altre, Cass. nn. 22639/98, 8066 e 13913 del 1993). Il che non significa che il danno biologico "assorba" anche la menomazione della generale attitudine al lavoro (Cass., n. 605 del 1998), giacché al danno alla salute resta pur sempre estranea la considerazione di esiti pregiudizievoli sotto il profilo dell’attitudine a produrre guadagni attraverso l’impiego di attività lavorativa; ma solo che, allorquando il grado di invalidità non consenta, per la sua entità o per il non attuale esercizio di attività lavorativa da riparte del soggetto leso, una valutazione prognostica e dunque l’apprezzamento del lucro cessante, va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica.

L’affermazione della corte d’appello che "il danno da riduzione dell’incapacità lavorativa generica, costituendo una lesione di un’attitudine o di un modo di essere del soggetto, non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia in una menomazione dell’integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico" è, dunque, così come esposta, erronea in diritto ma, in quanto suscettibile di essere letta come impropriamente sintetica espressione degli approdi sopra indicati, comporta solo l’esigenza di una correzione della motivazione nei sensi appena chiariti e non rivela, in se stessa, un errore di diritto con effetti rescindenti.

3.2.- Quanto al mancato aumento – nell’ottica sopraindicata – dell’entità del risarcimento del danno biologico, non sono indicati gli elementi dai quali dovrebbe potersi evincere che, nel determinarlo, il giudice di tali principi non abbia tenuto conto.

Mentre, per quanto concerne il mancato ricorso alle presunzioni in ordine all’incidenza dei postumi della frattura alla gamba su un lavoro di carattere manuale (con conseguente riconoscimento della risarcibilità del danno da diminuita capacità lavorativa specifica), va detto che la sentenza impugnata non s’è discostata dal principio secondo il quale il tipo di lavoro che avrebbe svolto il danneggiato (nella specie di circa 20 anni) deve essere quantomeno dal medesimo indicato, con contestuale allegazione delle circostanze che autorizzino l’inferenza induttiva (cfr., tra le altre, Cass., n. 20321/05).

La quale si assume in questa sede come impropriamente omessa senza la contestuale affermazione che le circostanze che avrebbero in ipotesi potuto autorizzarla fossero state puntualmente prospettate.

4.- Il ricorso è respinto. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, che liquida in Euro 2.700, di cui 2.500 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori dovuti per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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