Cassazione, Sez. VI 22, gennaio 2011, n.2251 Possibile la costituzione di parte civile nel processo a carico dell’ente?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1. – Il G.u.p. del Tribunale di Milano nell’ambito di un complesso procedimento in cui risultavano imputate numerose persone e società in ordine a reati di associazione per delinquere, corruzione, appropriazione indebita, oltre che per illeciti amministrativi ex d.lgs. 231 del 2001, ha applicato la sentenza di "patteggiamento" in epigrafe indicata nei confronti, tra l’altro, di (A) (mesi 9, giorni 15 di reclusione ed € 178,00 di multa, pena sospesa, con la condanna al pagamento delle spese e onorari in favore della parte civile costituita, Agenzia delle Entrate), (B) (mesi 9, giorni 15 di reclusione ed € 200,00 di multa, pena sospesa, con la condanna al pagamento delle spese e onorari in favore della parte civile costituita, Agenzia delle Entrate), (C) (anni 1 di reclusione, pena sospesa, con la condanna al pagamento delle spese e onorari in favore della parte civile costituita, Agenzia delle Entrate), (X) s.p.a. (sanzione pecuniaria di € 28.000,00, con la confisca della somma di € 92.744,63), (Y) s.r.l. (sanzione pecuniaria di € 42.000,00 e divieto di pubblicizzare beni o servizi per un anno, oltre la confisca della somma di € 325.000,00 e la condanna al pagamento delle spese e onorari in favore delle parti civili costituite, (U) s.p.a., (V) s.p.a. e (W) s.p.a.).

2. – Contro questa sentenza hanno presentato distinti ricorsi per cassazione (A) e (B), deducendo i medesimi motivi.

I ricorrenti, tramite il loro difensore di fiducia, hanno dedotto l’inosservanza degli arti. 444 e 129 c.p.p. perché il giudice avrebbe dovuto dichiarare, ai sensi dell’articolo da ultimo citato, l’estinzione del reato di appropriazione indebita contestato ai capi B) ed E), essendosi verificata la parziale prescrizione al momento della pronuncia della sentenza, intervenuta a distanza di quasi un anno dalla domanda di "patteggiamento" presentata dalle parti, con conseguente necessità di rideterminare la pena pattuita con riferimento al reato associativo più grave di cui al capo A).

In ogni caso, eccepiscono l’avvenuta prescrizione anche degli altri reati, cioè dell’associazione per delinquere e dei residui episodi di appropriazione indebita.

3. – Con il ricorso presentato nell’interesse di (C) viene, preliminarmente, impugnata anche l’ordinanza resa il 10.7.2008 con cui il giudice ha dichiarato inammissibili le richieste di applicazione della pena – per i reati contestati ai capi P1) e P3) – e di giudizio abbreviato – per il reato di appropriazione indebita di cui al capo P2) – avanzate dall’imputato, ritenendo incompatibili le due diverse istanze di definizione del procedimento.

In ogni caso, il ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p. – anche in relazione al reato di cui al capo P2) -, sostenendo che la richiesta di applicazione concordata della pena per tutti i reati sarebbe stata una scelta "obbligata" dal rigetto, illegittimo, dell’istanza di giudizio abbreviato.

Infine, con l’ultimo motivo censura la medesima sentenza per inosservanza dell’art. 129 c.p.p., limitatamente all’ipotesi dell’appropriazione indebita, rilevando l’insussistenza del reato.

4. – Ha proposto ricorso per cassazione anche la società (X), per mezzo del suo difensore di fiducia, deducendo l’erronea qualificazione giuridica del fatto. Dopo aver premesso che alla società è stato contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 comma 3 d.lgs. 231 del 2001 dipendente dal reato di corruzione commesso dall’amministratore delegato, (D), nei confronti di (E), dipendente dell’ufficio tecnico di (W), al fine di ottenere commesse industriali relative all’impianto di Wafa, in Libia, si assume che la sentenza ha erroneamente ritenuto che (E) rivestisse la qualifica di pubblico ufficiale, presupposto indefettibile per la configurabilità del reato di cui all’art. 321 c.p. – contestato all’amministratore delegato – e per poter ipotizzare lo stesso illecito amministrativo a carico della società. In realtà, secondo la ricorrente il presunto corrotto sarebbe un dipendente di una società per azioni, con capitale detenuto interamente da (U) s.p.a., svolgente attività d’impresa in regime di diritto privato, a cui non si applica né la legge quadro in materia di appalti pubblici, né la normativa in materia di appalti pubblici di pubbliche forniture, pertanto estranea a pubbliche funzioni. Si rileva come la commessa relativa alla fornitura di tubi per la costruzione di un impianto presso il sito di Wafa è consistita nell’esercizio di una comune attività imprenditoriale, regolata interamente da strumenti di diritto privato. D’altra parte, anche prendendo in esame la collocazione e i poteri di (E) nell’ambito della (W) deve comunque escludersi la qualifica di pubblico ufficiale, non avendo alcuno dei poteri autoritativi sintomatici di tale qualifica, né poteri deliberativi.

Infine, si esclude che possa ritenersi la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo a (E), in quanto non è rinvenibile alcuna finalità diretta al conseguimento di interessi pubblici.

5. – Con il ricorso proposto dalla società (Y), tramite il difensore di fiducia, si lamenta l’errore contenuto nel dispositivo della sentenza impugnata là dove indica la somma da confiscare in € 325.000,00 ricomprendendovi anche la sanzione pecuniaria di € 42.000,00, già indicata nello stesso dispositivo. In questo modo non sarebbe stato correttamente ratificato l’accordo delle parti.

Con un secondo motivo la società ricorrente chiede l’annullamento della sentenza nella parte in cui ha pronunciato la condanna alle spese e onorari in favore delle parti civili costituite. Si assume, infatti, che nel processo nei confronti degli enti di cui al d.lgs. 231/2001 non è prevista la possibilità di costituzione di parte civile.

6. – Nella sua requisitoria scritta il procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi di (A), di (B) e di (C), nonché quello presentato nell’interesse della società (X).

Per quanto riguarda il ricorso della (Y), il procuratore generale ha ritenuto infondato il motivo con cui la società censura la sentenza per avere ritenuto ammissibile la costituzione delle parti civili, mentre ha chiesto che sia accolta l’istanza di correzione del dispositivo della sentenza in relazione alla somma oggetto di confisca.

7. – I difensori di (A), (B) e (C) hanno presentato memorie difensive con cui hanno replicato alla requisitoria scritta del procuratore generale; lo stesso hanno fatto i difensori delle due società.

Nell’interesse delle parti civili costituite, (U) s.p.a. e (V) s.p.a., è stata depositata un’articolata memoria difensiva per sostenere l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti di cui al d.lgs. 231/2001, proponendo in via subordinata, qualora si dovesse ritenere che il sistema del d.lgs. 231/2001 non consenta la costituzione di parte civile, questione di costituzionalità degli artt. 74 c.p.p. e 185 c.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

Per l’Agenzia delle Entrate, anch’essa costituitasi parte civile nei confronti di (A), (B) e (C), l’avvocatura generale dello Stato ha chiesto l’inammissibilità dei ricorso da questi presentati.

Infine, il difensore di (A) e (B) ha depositato una sentenza del Tribunale di Milano che, nei confronti di altri imputati, ha ritenuto prescritti gli stessi reati contestati ai due sopra menzionati.

Motivi della decisione

8.- I ricorsi presentati nell’interesse di (A) e (B) sono inammissibili.

8.1. – I motivi dedotti, comuni ad entrambi i ricorrenti, riguardano la mancata dichiarazione di prescrizione dei reati.

Sotto un primo profilo si lamenta che il G.u.p. non abbia rilevato l’estinzione parziale per prescrizione del reato di appropriazione indebita intervenuta dopo l’accordo tra le parti e prima della sentenza di patteggiamento, con riferimento ad alcune condotte.

Preliminarmente, deve confermarsi il più recente orientamento della Cassazione, che esclude che con il "patteggiamento" l’imputato rinunci alla prescrizione, con conseguente impossibilità di farla valere quando sia maturata prima della sentenza ex art. 444 c.p.p. La rinuncia alla prescrizione presuppone, ai sensi dell’art. 157 c.p.p., così come novellato dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti, sicché la domanda di patteggiamento non può considerarsi una implicita rinuncia alla prescrizione, anche perché lo stesso art. 444 comma 2 c.p.p. prevede l’ipotesi che il giudice prosciolga per una delle cause previste dall’art. 129 c.p.p., in cui rientra anche il caso dell’estinzione del reato per prescrizione. Il limite temporale per rilevare tale causa di estinzione del reato – così come una delle altre ipotesi di proscioglimento previste dall’art. 129 c.p.p. – è costituito dalla verifica cui è tenuto il giudice ai sensi dell’art. 444 comma 2 c.p.p.

Tuttavia, occorre considerare che il giudice del patteggiamento riscontra l’eventuale esistenza di una delle cause di non punibilità attraverso una ricognizione allo stato degli atti, che può condurre a una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. soltanto se le risultanze disponibili rendano palese l’obiettiva esistenza di una di queste cause, indipendentemente dalla valutazione compiuta dalle parti e senza la necessità di alcun approfondimento probatorio e di ulteriori acquisizioni (in questi termini, Sez. un., 25 novembre 1998, n. 3, Messina). Per quanto riguarda la prescrizione, il giudice è tenuto a dichiararla quando accerta l’avvenuto decorso del termine stabilito per il reato enunciato nel capo di imputazione, ma il controllo che deve operare non deve implicare alcun tipo di accertamento, dovendo la prescrizione risultare dagli atti.

Nel caso in esame, invece, per rilevare la prescrizione parziale, così come dedotta dai ricorrenti, il giudice avrebbe dovuto procedere ad accertamenti di fatto non compatibili con il rito speciale di cui all’art. 444 c.p.p.

Così, riguardo alla posizione di (A) deve rilevarsi che le date dei bonifici costituenti le condotte appropriative, cui fanno riferimento i ricorrenti per sostenere la intervenuta prescrizione parziale, non sono nemmeno menzionate nel capo di imputazione, né indicate nella sentenza; in ordine alla posizione di (B), per il quale si assume l’intervenuta prescrizione anche del reato associativo, l’accertamento della estinzione dei reati viene dedotta nello stesso ricorso attraverso una serie di dati di fatto e di valutazioni circa il tipo di concorso nei reati il cui accertamento si rivela del tutto incompatibile con il rito prescelto.

8.2. – Con un distinto motivo i ricorrenti, inoltre, rilevano che, successivamente alla pronuncia della sentenza, si sarebbe verificata la prescrizione anche dei residui reati, per cui chiedono che questa Corte ne dichiari l’estinzione.

A questo proposito si rileva che una volta richiesta ed ottenuta pronuncia ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non può essere sollevata, con apposito ricorso per cassazione, la questione della prescrizione, se maturata successivamente, in quanto il procedimento speciale consensuale è stato già concluso con l’accordo delle parti e con la ratifica di esso da parte del giudice, sicché sarebbe contraddittorio considerarlo in piedi ai fini della prescrizione (Sez. III, 17.4.1998, n. 1241, Manovella; Sez. III, 25 giugno 1997, n. 2535, Esposito). In questo caso, infatti, risulta superato il limite entro cui il giudice è tenuto a verificare la sussistenza delle cause di non punibilità indicate dall’art. 129 c.p.p.

Peraltro, i ricorrenti hanno dedotto solo l’intervenuta prescrizione dei reati, senza avanzare alcuna ulteriore doglianza relativa alla decisione, sicché deve ritenersi che si tratti di un ricorso apparente, inidoneo a instaurare il rapporto di impugnazione (Sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542, Cavalera). Anche sotto quest’altro profilo il ricorso deve considerarsi inammissibile.

9. – Il ricorso proposto nell’interesse di (C) è inammissibile.

9.1. – L’imputato nel suo ricorso lamenta l’illegittimità dell’ordinanza del 10 luglio 2008, con cui il G.u.p. del Tribunale di Milano aveva ritenuto inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato per il reato di appropriazione indebita, contestuale all’istanza di patteggiamento presentata, nella medesima udienza preliminare, in ordine agli altri reati oggetto di contestazione. Secondo il ricorrente il giudice ha erroneamente ritenuto l’incompatibilità delle distinte richieste e, a sostegno della sua tesi, cita un precedente di questa Corte, che ha ritenuto ammissibile la richiesta di rito abbreviato in relazione ad alcuni dei reati contestati nel caso in cui l’imputato richieda, per gli altri reati, l’applicazione della pena concordata (Sez. V, 24 ottobre 2000, n. 4511, Torello).

Deve, effettivamente, riconoscersi che vi è compatibilità tra richieste distinte di riti speciali quando non viene eluso il fine di deflazione processuale di tali giudizi, a differenza di quanto accade nel caso in cui l’imputato si limiti a presentare una domanda di giudizio abbreviato solo per alcuni reati, in cui la mancata definizione del processo, nella sua interezza, rende ingiustificato l’effetto premiale derivante dallo speciale rito voluto dal legislatore, al fine di deflazionare il ricorso alla fase dibattimentale per ciascun processo e non per ciascun reato, come è esplicitamente previsto dall’art. 438 c.p.p., là dove parla di richiesta di definizione nell’udienza preliminare del processo riguardante il singolo imputato (così, Sez. II, 27 marzo 2008, n. 20575, Di Paola; Sez. IV, 5 luglio 2006, n. 30096, Arcari; Sez. I, 19 novembre 1999, n. 380, Favara).

Tuttavia, in questa sede si deve prescindere dalla legittimità della decisione adottata dal G.u.p. del Tribunale di Milano, in quanto occorre considerare che le censure rivolte alla citata ordinanza sono contenute nel ricorso avverso la sentenza di patteggiamento che ha ratificato l’accordo delle parti, avente ad oggetto anche il reato di appropriazione indebita: in sostanza, dopo il provvedimento del 10 luglio 2008 (C) ha modificato la sua strategia difensiva, estendendo la richiesta di "patteggiamento" al reato di cui all’art. 646 c.p., sicché oggi non può dolersi di una scelta processuale che egli stesso ha consapevolmente compiuto.

Né può sostenere che si sia trattato di una "scelta obbligata", conseguente all’ordinanza del 2008. E’ vero che l’imputato non avrebbe potuto limitare la definizione anticipata della sua responsabilità lasciando fuori dalla richiesta di patteggiamento il reato di appropriazione indebita, perché la richiesta stessa sarebbe stata dichiarata inammissibile proprio in ragione della mancata definizione integrale del processo a suo carico (Sez. II, 8 luglio 2010, n. 28696, P.G. in proc. Azzolina; Sez. I, 12 novembre 2006, n. 6703, P,G. in proc. Ignacchiti); tuttavia, avrebbe potuto impugnare l’ordinanza del 28 luglio 2008 per abnormità chiedendone l’annullamento. Tale impugnazione sarebbe stata possibile, in considerazione del fatto che si trattava di una richiesta di giudizio abbreviato "incondizionato", rispetto alla quale il giudice non aveva il potere di rigetto (Sez. I, 7 ottobre 2004, n. 43451, Riccardi; Sez. I, 2 aprile 2004, n. 22287, Petrucci; Sez. I, 2 luglio 2001, n. 30276, Sangani), e che il provvedimento di diniego causava una stasi processuale dell’udienza preliminare, stasi che nella specie è stata rimossa proprio dalla determinazione dell’imputato di modificare l’oggetto delle sue richieste processuali, proponendo per tutti i reati domanda di applicazione concordata di pena.

9.2. – Con l’altro motivo proposto il ricorrente lamenta il mancato proscioglimento in sede di patteggiamento in ordine al reato di cui all’art. 646 c.p., deducendo però non il vizio di motivazione, ma l’erronea applicazione dell’art. 129 c.p.p.

Al riguardo si osserva che nel caso in esame non sussiste alcuna ipotesi di violazione di legge, non potendosi ritenere che il giudice avesse l’obbligo di emettere una sentenza di proscioglimento, così come assume il ricorrente. Ad escludere la denunciata violazione dell’art. 129 c.p.p. è sufficiente la constatazione che il giudice ha motivato, seppure in maniera succinta, la mancanza dei presupposti per la pronuncia di proscioglimento.

Anche a voler ritenere che il ricorrente abbia, in realtà, voluto censurare la motivazione della sentenza, si dovrebbe concludere ugualmente per l’insussistenza del vizio, dal momento che il giudice ha dato atto dell’avvenuta verifica richiesta dalla legge, escludendo che ricorrano le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (Sez. un., 27 settembre 1995, n. 10372, Serafino).

10. – Il ricorso presentato nell’interesse della società (X) s.p.a. è inammissibile.

Il problema posto dalla società ricorrente riguarda i limiti entro cui l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo delle parti e recepita dal giudice del patteggiamento, possa essere fatta valere davanti alla Cassazione, impugnando la relativa sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

Su questo tema la Cassazione ha proposto filoni interpretativi non sempre omogenei, ricercando un punto di equilibrio tale da conciliare le esigenze derivanti dal rito negoziale con la previsione del controllo affidato alla giurisdizione. Infine, è prevalso l’indirizzo volto a riconoscere che la qualificazione giuridica del fatto costituisce materia tendenzialmente sottratta alla disponibilità delle parti, sicché l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606 lett. b) c.p.p. (Sez. un., 19 gennaio 2000, n. 5, P.G. in proc. Neri; Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781, Diop).

Tuttavia, in tali casi il controllo che deve effettuare il giudice di legittimità circa la corretta qualificazione giuridica ha un ambito necessariamente limitato, riferibile alla imputazione e alla motivazione della sentenza impugnata.

Nella specie, da quanto contenuto nella contestazione e da quanto riportato nella sentenza appare corretta la valutazione compiuta dal giudice di merito, emergendo la descrizione di fatti rientranti in una serie di condotte corruttive poste in essere nell’interesse della società ricorrente da parte del suo amministratore, (D), e nei confronti di soggetti – non solo del dipendente della (W) – appartenenti a società e imprese "partecipanti alle gare", quindi coinvolte in un pubblico servizio, rispetto ai quali deve quanto meno riconoscersi la qualifica di incaricato di pubblico servizio, anche in considerazione del fatto che il capo di imputazione menziona espressamente l’aggravante di cui all’art. 319-bis c.p., da intendere riferita alla stipulazione di contratti nei quali sia interessata la pubblica amministrazione. Peraltro, la qualifica di incaricato di pubblico servizio non determina alcuna ricaduta negativa sull’accordo oggetto del patteggiamento, in quanto l’art. 25 d.lgs. 231 dei 2001, ai commi 3 e 4, prevede la medesima sanzione pecuniaria in relazione al reato di corruzione commesso nei confronti di un pubblico ufficiale ovvero di un incaricato di pubblico servizio.

La circostanza che i soggetti cui si riferisce l’imputazione fossero società per azioni non appare sufficiente, allo stato degli atti, per escludere ogni connotazione pubblicistica all’attività da questi svolta, tenuto conto che la giurisprudenza della Cassazione ritiene che la qualità di incaricato di pubblico servizio va accertata, da parte del giudice di merito, esclusivamente sulla base della disciplina dell’attività oggettivamente considerata ed indipendentemente dal fatto che il suo esercizio sia affidato allo Stato o ad altri soggetti pubblici ovvero a privati.

Il limitato spazio che residua al giudice per accertare la qualifica giuridica del fatto in sede di patteggiamento porta a ritenere giustificata la decisione adottata dal G.u.p. del Tribunale di Milano.

11. – Il ricorso presentato nell’interesse della società (Y) è fondato.

11.1. – Il rilevato contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza circa l’importo della confisca può essere eliminato con la procedura della correzione degli errori materiali.

Dalla sentenza risulta che l’accordo delle parti prevedeva il pagamento della sanzione pecuniaria di € 42.000,00, nonché la messa a disposizione del prezzo e del profitto del reato in vista della confisca per € 283.000,00 (di cui € 190.000,00 relativi alla tangente contestata ed € 93.000,00 pari a circa il 2% della somma dell’appalto in contestazione), per un importo complessivo di € 325.000,00; nel dispositivo il giudice, nel ratificare l’accordo, ha riportato correttamente l’ammontare della sanzione pecuniaria, ma a titolo di confisca ha indicato, erroneamente, l’importo complessivo di € 325.000,00, che già comprendeva la sanzione pecuniaria.

Si è trattato di un mero errore materiale, che deve essere corretto sostituendo l’importo relativo alla confisca nella misura originariamente indicata nell’accordo, pari cioè a complessivi € 283.000,00.

11.2. – Va accolto anche il motivo con cui si censura la sentenza per aver condannato, ai sensi dell’art. 444 comma 2 seconda parte c.p.p., la società ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili costituite, (U) s.p.a., (V) s.p.a. e (W) s.p.a., deducendo la violazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. sul presupposto che la costituzione delle parti civili non è ammessa nel processo a carico degli enti.

La questione sull’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo in cui si accerta la responsabilità amministrativa della persona giuridica ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 deve essere esaminata in termini generali, non condividendosi le argomentazioni utilizzate dal procuratore generale, secondo cui la costituzione della parte civile (riv231) sarebbe ammissibile solo nel rito speciale del patteggiamento. Non si comprende, infatti, per quali ragioni la possibilità di costituirsi come parte civile sarebbe preclusa nel procedimento ordinario, ma ammessa unicamente nel procedimento speciale del c.d. patteggiamento, sulla base di un argomento formale costituito dal richiamo contenuto nell’art. 63 d.lgs. cit. al titolo II del libro VI del codice di procedura penale. Una simile differenziazione di disciplina non trova alcuna ragionevole giustificazione.

11.2.1. – Il problema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti ha dato luogo a interpretazioni contrastanti sia nella dottrina, che nella giurisprudenza di merito.

In alcuni casi l’esclusione della parte civile è stata giustificata con riferimento alla natura formalmente amministrativa della responsabilità prevista nel d.lgs. n. 231/2001, mentre quanti propendono per la natura sostanzialmente penale di questo tipo di responsabilità da reato sono favorevoli a riconoscere tale possibilità in capo alla parte civile. In altri termini, il dibattito sulla questione in oggetto ha finito per investire il tema della natura della responsabilità degli enti, tema quanto mai incerto, su cui la giurisprudenza, almeno quella di legittimità, non si è ancora pronunciata in termini definitivi, mentre la dottrina si è divisa, proponendo una molteplicità di interpretazioni, che vanno dal riconoscimento della natura di vera e propria responsabilità penale, alla negazione di essa, per affermare che si tratti di una responsabilità amministrativa, fino a ritenere che ci si trovi dinanzi ad una sorta di tertium genus di responsabilità, diversa dalle tradizionali categorie della responsabilità penale e amministrativa, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale, in cui vengono coniugati elementi del sistema penale e amministrativo, nel tentativo di "contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia".

Sebbene questa Corte si sia pronunciata, per incidens, sulla natura della responsabilità, ritenendo che si tratti di un tertium genus (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Brill Rover s.r.l. ed altro), tuttavia deve ritenersi, condividendo quanto sostenuto da autorevole dottrina, che lo specifico problema relativo alla ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti non dipenda, in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura della responsabilità prevista nel d.lgs. 231/2001. La soluzione, infatti, può essere svincolata dal tema relativo alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che rischia di diventare una questione meramente nominalistica, per essere affrontata attraverso l’esame positivo dei contenuti della speciale normativa che disciplina il processo nei confronti degli enti, vagliandone la compatibilità con l’istituto codicistico della costituzione di parte civile.

In questo approccio ermeneutico il punto di partenza non può che essere la constatazione che nel d.lgs. 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione, nel d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla persona offesa) porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell’ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all’udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.

Peraltro, accanto alla materiale "assenza" di riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs. 231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di escludere questo soggetto dal processo. Da un lato, vi è l’art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente la limita all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili; dall’altro lato, appare particolarmente significativa la regolamentazione del sequestro conservativo, di cui all’art. 54. L’omologo istituto codicistico di cui all’art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della "pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario", sia delle "obbligazioni civili derivanti dal reato", in quest’ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro; invece, il citato art. 54 d.lgs. 231/2001 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario), sequestro che può essere richiesto unicamente dal pubblico ministero. Anche qui il legislatore ha compiuto una scelta consapevole, escludendo la funzione di garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della parte civile.

11.2.2. – Già queste osservazioni, che fanno leva sull’interpretazione letterale delle norme che disciplinano il processo a carico degli enti, evidenziano la scelta, compiuta dal legislatore del 2001, favorevole ad escludere la parte civile e dimostrano come il tentativo di proporre un’interpretazione che porti ad applicare, in via estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione della parte civile si presenti di difficile attuazione, soprattutto perché manca una vera e propria "lacuna normativa" da colmare. L’ampliamento della competenza del giudice penale ad occuparsi anche dell’azione civile avrebbe dovuto avvenire attraverso una esplicita previsione di legge e a questo proposito si è rilevato, da parte di attenta dottrina, che l’art. 111 Cost., così come modificato, pretende il rispetto del principio di stretta legalità quale "criterio direttivo di tutta la disciplina del processo penale", sicché non sarebbe ammissibile ricorrere ad una interpretazione analogica degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.

Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina ritiene che sia possibile applicare direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di cui all’art. 34 d.lgs. 231/2001, sul presupposto della piena compatibilità dell’istituto della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti.

Invero, il tentativo di applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due disposizioni menzionate non tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l’ente viene chiamato a rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio. Il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità dell’ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato. In altri termini, all’accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell’interesse ovvero del vantaggio derivato all’ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, in presenza cioè di criteri di collegamento teleologico dell’azione del primo all’interesse o al vantaggio dell’altro, che risponde autonomamente dell’illecito "amministrativo". Ne deriva che tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone.

Di conseguenza, se l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al "reato" in senso tecnico. L’ostacolo maggiore all’applicazione diretta dell’art. 185 c.p. nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/2001 – non importa se attraverso una interpretazione estensiva o analogica – è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi della norma citata, che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest’ultima che non può coprire anche l’illecito dell’ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo, anche l’art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell’art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti dall’art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato.

In sostanza, l’impossibilità di procedere all’applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell’illecito amministrativo.

11.2.3. – Queste stesse obiezioni valgono anche nei confronti della tesi sostenuta nella articolata e approfondita memoria presentata nell’interesse di (U) s.p.a. ed (V) s.p.a. che, riprendendo argomentazioni proposte da un’autorevole dottrina, ritiene ammissibile la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti, assumendo che la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs. 231/2001 è, comunque, fonte di responsabilità civile ai sensi dell’art. 2043 c.c., sicuramente azionabile in sede civile e poiché costituisce principio generale che anche in sede penale vi sia la possibilità di azionare tali pretese in base agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., una volta che la competenza del giudice penale è stata estesa all’illecito dell’ente non vi sarebbero ragioni per introdurre una diversa disciplina in materia, soprattutto considerando che l’ente risponde per fatto proprio e in misura del tutto autonoma rispetto alla condotta della persona fisica. Il ricorso all’art. 185 c.p. viene giustificato sia per la sostanziale natura civilistica della norma, che ne consente l’applicazione anche analogica, sia per l’inscindibile collegamento della responsabilità dell’ente con l’illecito penale, situazione questa che legittima l’ingresso nel processo a carico dell’ente delle disposizioni in materia di costituzione della parte civile.

Invero, tanto l’inquadramento dell’illecito dell’ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043 c.c., quanto il riconoscimento che quella dell’ente sia una responsabilità per fatto proprio, non paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo debba trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte civile, in mancanza di dati normativi positivi che autorizzino una tale conclusione.

Sotto un primo profilo, si osserva come la gestione dell’azione civile nel processo penale, lungi dall’essere un principio generale dell’ordinamento, si presenti in realtà sotto specie di una deroga al principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale, affermato nel codice del 1988 (in particolare dall’art. 75 c.p.p., espressione del c.d. favor separationis), tanto che le disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale dell’azione civile sono da considerare di natura quasi eccezionale. Sicché deve convenirsi con chi, in assenza di ogni esplicito riferimento ad azioni diverse da quella penale e in mancanza di una qualunque base normativa al riguardo, esclude che nel processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un’azione civile nei confronti dell’ente: per ritenere che il giudice competente a conoscere l’illecito dell’ente sia anche competente a conoscere i danni derivanti da esso sarebbe stata necessaria una previsione espressa.

Inoltre, la scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato.

Non convince la tesi, sostenuta nella memoria depositata dal difensore dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a., secondo cui "il danno prodotto dall’illecito amministrativo è pur sempre cagionato dal medesimo fatto che è reato per la persona fisica e illecito per l’ente", sicché si tratterebbe di un "fatto di entrambi" i soggetti con la conseguenza che anche l’ente "risponde dei danni causati dal suo contributo concorsuale al reato".

In questo modo si finisce per sostenere che l’esercizio dell’azione civile nel processo disciplinato dal d.lgs. 231/2001 riguardi il danno derivante dal reato, attribuendolo indifferentemente alla persona fisica e all’ente e negando, contraddittoriamente, che quella dell’ente sia una responsabilità per fatto proprio, che trova la sua ragione nella commissione di un illecito complesso, in cui il reato è solo uno degli elementi.

Invece, va ribadita l’autonomia dell’illecito addebitato all’ente, dovendo distinguersi la sua responsabilità da quella della persona fisica e riconoscendo che l’eventuale danno cagionato dal reato non coincide con quello derivante dall’illecito amministrativo di cui risponde l’ente.

In realtà, deve convenirsi con quella dottrina che, molto acutamente, ha evidenziato come "i danni riferibili al reato sembrano esaurire l’orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa risarcitoria", escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente dall’illecito dell’ente. E’ stato posto in risalto come non possano essere considerati danni prodotti dall’illecito amministrativo quelle ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei creditori e dei dipendenti dell’ente per effetto dell’applicazione delle sanzioni a seguito dell’accertata responsabilità dell’ente, in quanto l’eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua causa diretta nell’illecito amministrativo; peraltro, anche i danni subiti dai soci e dai terzi incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva contenuta nell’art. 11 lett. v) della legge delega n. 300/2000, a cui non è stata data attuazione, non erano quelli derivanti direttamente dall’illecito amministrativo, ma costituivano anch’essi ricadute negative derivanti dall’applicazione delle sanzioni, pecuniarie o interdittive.

Se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora "l’ostinato silenzio" del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitone assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ente.

In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che un danno possa derivare direttamente dall’illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già illustrate, ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex d.lgs. 231/2001.

11.2.4. – Un altro argomento utilizzato nella memoria difensiva dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a. a sostegno dell’ammissibilità della costituzione della parte civile nel processo degli enti fa leva sulle disposizioni del d.lgs. 231/2001, che pongono le premesse per il soddisfacimento delle pretese risarcitone e restitutorie della persona offesa, sottolineando come la ratio del decreto sia quella di tutelare l’interesse dei danneggiati dal fatto illecito, al pari dell’interesse alla punizione dell’ente. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17, che consentono all’ente di ottenere l’esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonché all’art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di profitto che può essere restituita al danneggiato.

A questo proposto si osserva, preliminarmente, che dalla formulazione inequivocabile delle disposizioni menzionate si ricava che il danno cui si riferiscono è quello derivante dal reato e non quello determinato dall’illecito amministrativo commesso dall’ente, sicché le argomentazioni possono essere rovesciate e sostenere che il legislatore, ancora una volta, ha escluso la configurabilità di conseguenze dannose derivante dall’illecito amministrativo, limitandosi a prevedere "sconti" di sanzioni collegate esclusivamente a forme di "reintegrazione" di danni da reato.

In ogni caso, è stato notato come il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. "ravvedimento operoso" è circostanza del tutto neutra rispetto al problema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile, come è dimostrato dalla disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni, in cui è prevista la possibilità di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e nello stesso tempo è esclusa l’ammissibilità dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale (art. 10).

11.2.5. – In conclusione deve ritenersi che nel processo a carico dell’ente, così come disciplinato nel d.lgs. 231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile.

Questa deroga rispetto a quanto previsto nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., così come ritiene il difensore delle società (U) s.p.a. e (V) s.p.a. nella richiesta subordinata della sua memoria.

La "disparità" di trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da adeguata giustificazione in considerazione dell’illecito oggetto dell’accertamento nel processo a carico dell’ente che, prescindendo dalla definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui, come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali dell’illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la costituzione della parte civile.

Anche il dedotto contrasto con l’art. 24 Cost. appare manifestamente infondato. Innanzitutto deve escludersi che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus processus; inoltre, nel processo ex d.lgs. 231/2001 la posizione del danneggiato è comunque garantita, in quanto oltre a poter tutelare immediatamente i propri interessi davanti al giudice civile, può citare l’ente come responsabile civile ai sensi dell’art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale dell’autore del reato, commesso nell’interesse nella persona giuridica, e lo può fare – normalmente – nello stesso processo in cui si accerti la responsabilità dell’ente.

Invero, un’analoga questione si è posta in passato, seppure in un contesto diverso. La Corte costituzione con la sentenza n. 60 del 1996, modificando una sua precedente giurisprudenza (sentenze n. 106 del 1977 e n. 78 del 1989), ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 270 cod. pen. mil. pace che, nei processi di competenza del giudice militare, escludeva la proponibilità dell’azione civile per le restituzioni e il risarcimento dei danni.

Tuttavia, in quella decisione il giudice delle leggi ha ritenuto irragionevole l’esclusione della parte civile dal processo, valutando come non giustificabili le differenze di disciplina tra i due modelli processuali, il cui oggetto di accertamento era comunque costituito, in entrambi i casi, da reati, sicché non vi era ragione perché il giudice militare non potesse conoscere anch’egli degli interessi civili nascenti da questi. Inoltre, l’illegittimità costituzionale dell’art. 270 cod. pen. mil. pace è stata affermata perché rendeva impossibile l’inizio immediato dell’azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno: infatti, tale norma, al secondo comma, prevedeva la sospensione obbligatoria del giudizio civile fino all’esito di quello penale militare, realizzando in questo caso l’ingiustificata disparità di trattamento raffrontata con la corrispondente disciplina del processo penale ordinario.

Nel caso in esame, invece, la situazione è profondamente diversa, in quanto la deroga in ordine alla posizione della parte civile nel processo a carico degli enti trova ampia giustificazione con riferimento alla diversa regiudicanda oggetto di accertamento, cioè l’illecito amministrativo, rispetto all’oggetto del procedimento ordinario; inoltre, nella specie trova piena applicazione l’art. 75 c.p.p., che consente l’esercizio immediato dell’azione civile nella sede propria, senza alcuna sospensione sino all’esito del giudizio penale.

12. – Da quanto precede consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, limitatamente alla condanna della (Y) s.p.a. alla rifusione delle spese in favore di (U) s.p.a, (V) s.p.a. e (W) s.p.a., erroneamente ammesse a costituirsi come parti civili nel processo nei confronti della stessa società; sempre in accoglimento del ricorso della (Y) s.p.a. deve disporsi la rettifica della sentenza, così come indicato nel dispositivo; all’inammissibilità degli altri ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a versare una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in € 1.500,00, in considerazione delle questioni trattate.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condanna della (Y) s.p.a. alla rifusione delle spese in favore delle parti civili;

rettifica altresì la sentenza impugnata nel senso che ove in dispositivo si legge "confisca della somma di euro 325.00,00" deve invece leggersi "confisca della somma di euro 283.000,00".

Dichiara inammissibili gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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