Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda, proposta da A.G. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso fra le parti nel periodo 7 giugno 2006 – 31 ottobre 2006, contratto stipulato ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis.
2. La Corte territoriale riteneva, in particolare, la piena conformità della norma in questione alla normativa comunitaria;
escludeva inoltre la sussistenza di profili di illegittimità costituzionale della norma in esame.
3. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’ A. affidato a un unico motivo; Poste Italiane s.p.a. resiste con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione
4. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in relazione alla direttiva n. 1999/70/CE con riferimento alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro. Deduce l’erroneità della tesi, accolta nella sentenza impugnata, secondo cui la norma in questione non viola la cd. clausola di non regresso di cui all’accordo quadro, in quanto "una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non è in quanto tale vietata dall’Accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo". Ad avviso del ricorrente siffatta tesi sarebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Sottolinea che non vi sono, nel caso delle Poste, ragioni oggettive che possano giustificare la non applicazione della clausola stessa.
5. Il ricorso è infondato.
6. Giova premettere che la norma in esame (il D.Lgs. n. 368 del 2001, citato art. 2, comma 1 bis), recita testualmente: Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1 gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma. Il testo della suddetta disposizione non pone problemi interpretativi: esso prevede la possibilità, per le imprese concessionarie di servizi postali, di stipulare contratti a termine, con i limiti e nei periodi ivi previsti, a prescindere dal ricorrere delle condizioni di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e senza la necessità di indicare, in sede di stipulazione del contratto, le ragioni obiettive che giustifichino l’apposizione del termine. Per il resto la natura aggiuntiva della previsione in esame e la sua interpretazione sistematica nel contesto normativo nel quale si colloca, inducono a ritenere che la sua applicazione non esime il datore di lavoro dall’obbligo della forma scritta (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2) e da quello di consegnare copia dell’atto al lavoratore entro un certo termine (art. 1, comma 3) come pure dall’obbligo di rispettare le altre norme di cui al citato D.Lgs., come, in particolare, quella in materia di divieti (art. 3), in materia di proroga (art. 4), di scadenza del termine e di successione dei contratti (art. 5) e di principio di non discriminazione (art. 6).
7. L’interpretazione della norma in esame accolta da questa Corte di legittimità ha trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, la quale, premesso che tale norma costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, ha affermato che con essa il legislatore, in base ad una valutazione – operata una volta per tutte in via generale e astratta – delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine. Ad avviso della Corte costituzionale tale valutazione, preventiva e astratta, operata dal legislatore non è manifestamente irragionevole atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità de servizio). In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria previsti dalla direttiva CE da ultimo citata, l’Italia deve assicurare lo svolgimento del cd. servizio universale (il cui contenuto concreto è previsto dal citato D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 3); in particolare, a norma del comma 1, citato art. 3, il servizio universale assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale a prezzi accessibili a tutti gli utenti. Sulla base delle suddette considerazioni la Corte ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost. avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma.
8. Con la stessa sentenza la Corte costituzionale ha ritenuto la piena legittimità della norma in esame anche con riferimento all’assenza di violazione dei principi di cui agli artt. 101, 102 e 104 Cost., avendo osservato che la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula dei contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo) per cui il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale alfine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.
9. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente la disposizione in esame deve essere considerata pienamente conforme all’ordinamento comunitario. Come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata, infatti, essa trova il proprio fondamento e la propria giustificazione nella direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio.
10. Tale approccio ha trovato conferma anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (cfr. ordinanza in data 11 novembre 2010), chiamata a valutare la conformità all’ordinamento comunitario dell’art. 2, comma 1 bis, in esame.
11. Anche la Corte di giustizia, infatti, ha valorizzato, ai fini della propria statuizione, l’assunto che l’adozione dell’art. 2, comma 1 bis, era finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE (in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali), con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali e il miglioramento della qualità del servizio.
12. Tale disposizione perseguiva, pertanto, ad avviso della Corte, uno scopo distinto da quello consistente nella garanzia dell’attuazione, nell’ordinamento nazionale, dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001. Ciò trova conferma nel fatto che essa è stata introdotta nell’ordinamento dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266 (art. 1, comma 558) che, data la sua natura di legge finanziaria, non era finalizzata a garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dall’accordo quadro e, quindi, ad integrare le misure di recepimento dell’accordo quadro.
13. Sulla base di tale rilievo la Corte di giustizia ha affermato l’irrilevanza di ogni valutazione circa l’efficacia della tutela garantita dall’art. 2, comma 1 bis, rispetto a quella perseguita dall’accordo quadro con riferimento all’assunzione di lavoratori a tempo determinato; ed infatti, secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, richiamata nell’ordinanza de qua, (C-144/04 22 novembre 2005, Mangold; C-378/07 23 aprile 2009, Angelidaki; C- 519/08 24 aprile 2009 (ordin.) Koukou) una normativa nazionale non può essere considerata contraria alla clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (ai sensi della quale L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso) di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò che avviene in tutti quei casi (fra i quali è sicuramente quello in esame) in cui la reformatio in peius sia giustificata non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, distinto da detta applicazione.
14. Sulla base dei suddetti rilievi la Corte di giustizia ha affermato il principio secondo cui la citata clausola 8, punto 3 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato di cui alla Direttiva 1999/7O/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale quale quella prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, la quale consente a un’impresa, quale Poste Italiane, di concludere, rispettando determinate condizioni, un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato con un lavoratore senza dover indicare le ragioni obiettive che giustifichino il ricorso a un contratto concluso per una siffatta durata, dal momento che questa normativa non è collegata all’attuazione di detto accordo quadro.
15. Con riferimento, infine, al profilo, pure invocato dal giudice del rinvio, della sussistenza di una violazione dei principi della parità di trattamento e di non discriminazione, concernente i lavoratori a tempo determinato assunti da un’impresa postale con riferimento all’insussistenza dell’obbligo di indicare le ragioni oggettive del ricorso ad un primo o unico contratto a termine, la Corte di giustizia, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui, nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, il principio di non discriminazione è stato attuato dall’accordo quadro unicamente per quanto riguarda le disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato (C- 307/05 13 settembre 2007 Del Cerro Alonso), ha precisato che le eventuali disparità di trattamento tra determinate categorie di lavoratori a tempo determinato non sono soggette al principio di non discriminazione sancito dall’accordo quadro.
16. Valgono quindi, con riferimento al caso di specie, le conclusioni della Corte costituzionale prima ricordate in tema di insussistenza di una violazione del principio di uguaglianza.
17. La decisione impugnata ha correttamente applicato i suddetti principi, pienamente condivisi da questa Corte di legittimità, e pertanto il ricorso deve essere rigettato.
18. In applicazione del criterio della soccombenza il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 50 per esborsi, oltre Euro 3000 (tremila) per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 marzo 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012
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