Cassazione, Sezioni unite penali, 2 aprile 2010, n. 12822 Giudizio abbreviato di appello, rito camerale, se manca la lettura del dispositivo in udienza la sentenza è valida?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Premesso in fatto

I) Il giudizio di primo grado.

Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Alba, con sentenza 30 maggio 2005, ha condannato M. G., all’esito del giudizio abbreviato e previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di un anno di reclusione per il delitto di millantato credito tentato e continuato (capi A e C d’imputazione) ritenendo il tentativo anche per l’ipotesi di reato di cui al capo C originariamente contestata come reato consumato.

Con la medesima sentenza il primo giudice – che ha assolto M. dai reati di estorsione (capo B) perché il fatto non costituisce reato e minaccia continuata e aggravata (capo D) perché il fatto non sussiste – ha concesso all’imputato i doppi benefici di legge e l’ha condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile G.S. liquidandoli in Euro 15.000,00 oltre alle spese di costituzione e rappresentanza di parte civile.

In particolare il Tribunale ha accertato che l’imputato (che svolgeva l’attività di assicuratore) venuto a conoscenza delle difficoltà che G.S. incontrava per l’apertura di un circolo ricreativo in Comune di Mondovì si era dichiarato disposto, nel corso di un incontro svoltosi il 5 aprile 2002, ad aiutarlo per fargli ottenere l’autorizzazione affermando di conoscere il sindaco e il capo ufficio urbanistico i quali, dietro il pagamento di una somma di danaro (lire 5 milioni di vecchie lire), avrebbero eliminato gli ostacoli. La trattativa non si concludeva per il rifiuto di GURRISI.

Il successivo 1° settembre 2003 l’imputato prospettava nuovamente la possibilità di operare un intervento presso i medesimi pubblici ufficiali e, in questa occasione, l’agente chiedeva il versamento della somma di lire 15.000.000 di vecchie lire (così si esprimono i protagonisti malgrado sia stato da tempo introdotto l’Euro) ma anche in questo caso otteneva il rifiuto dell’interessato.

Il giudice di primo grado riteneva accertati i fatti in base alle dichiarazioni di G.e ai risultati delle registrazioni dei colloqui effettuate dal medesimo e dagli autori di un’inchiesta televisiva da lui informati.

II) La sentenza d’appello.

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 23 novembre 2007, ha, previa dichiarazione di inammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile, parzialmente riformato la sentenza di primo grado confermando l’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine ad entrambe le ipotesi delittuose ravvisate dal primo giudice ma diminuendo ad Euro 10.000,00 l’entità del danno liquidato a favore della parte civile.

La Corte di merito ha richiamato le argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado e ha fondato la decisione di conferma della condanna sul contenuto delle conversazioni registrate ritenute idonee a confermare la versione di G.e a smentire l’affermazione difensiva secondo cui la somma di euro 5.000,00 (che M. non contesta di avere richiesto), di cui al primo episodio, era destinata non a remunerare i pubblici ufficiali ma a pagare i professionisti che l’imputato intendeva segnalare a G.per superare gli ostacoli creati per ritardare o bloccare l’accoglimento della sua richiesta.

Anche per quanto riguarda il secondo episodio la sentenza impugnata ha ricostruito il fatto in termini analoghi a quello precedente; ha dato atto che M. non aveva mai garantito la certezza del risultato ma ha ritenuto irrilevante questa circostanza. Ha confermato che doveva ritenersi provato, come anche nel primo episodio, che l’imputato avesse chiesto anche la corresponsione di una somma a suo favore (che nel primo episodio era stata effettivamente corrisposta).

III) I motivi di ricorso.

Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso M. G. il quale ha dedotto i seguenti motivi di censura:

– la nullità della sentenza impugnata per mancata lettura in udienza del dispositivo della sentenza pronunziata ai sensi dell’art. 599 comma 4 cod. proc. pen. e per mancato deposito in cancelleria dello stesso dispositivo che, tra l’altro, indicava un termine superiore a quello ordinario per il deposito della sentenza di cui le parti venivano a conoscenza solo con la notificazione dell’avviso di deposito;

– la violazione dell’art. 346 cod. pen. in quanto gli elementi di prova acquisiti (ed in particolare il contenuto delle conversazioni registrate delle quali vengono nei motivi riportati alcuni stralci) non erano tali da consentire di ritenere realizzato il fatto tipico contestato anche perché, in questi colloqui, mai viene indicata la persona cui l’imputato si sarebbe rivolto per realizzare la sua mediazione per cui neppure sarebbe dimostrato che l’eventuale millantato credito avrebbe avuto come destinatario un funzionario pubblico. Inoltre la sentenza impugnata non indica quali vanterie l’imputato abbia posto in essere per confermare la possibilità di influenzare il pubblico ufficiale ed anzi il contenuto delle conversazioni registrate dimostra come lo stesso imputato mai cerchi di convincere G.della corruttibilità dei pubblici ufficiali; la vanteria deve precedere la promessa di corruzione perché possa ritenersi integrata la fattispecie tipica contestata mentre nel caso in esame è successo l’inverso;

– la manifesta illogicità della motivazione sull’esistenza degli elementi oggettivi idonei a fondare l’ipotesi di accusa formulata nei confronti dell’imputato; dal contenuto delle conversazioni, di cui vengono riportate alcune parti, non emergerebbe in alcun modo che le somme di danaro richieste fossero destinate a politici o amministratori; secondo il ricorrente i giudici di merito avrebbero completamente travisato il contenuto delle conversazioni in alcuni casi confondendo anche le voci dei dialoganti. Da queste conversazioni non risulterebbe in alcun modo che il ricorrente intendeva ricorrere a forme di corruzione ma soltanto interessarsi per superare i problemi che ritardavano l’apertura del locale eventualmente con il ricorso a professionisti più qualificati;

– la mancanza di motivazione sulla determinazione della pena inflitta e sul rigetto del motivo di appello sul punto;

– la violazione dell’art. 541 cod. proc. pen. per non avere, la sentenza impugnata, disposto la compensazione, totale o parziale, delle spese in favore della parte civile malgrado la dichiarazione di inammissibilità dell’appello da questa proposto e l’accoglimento parziale dell’appello dell’imputato in merito alla determinazione della provvisionale la cui misura è stata ridotta rispetto a quella stabilita dal primo giudice.

IV) I contrasti nella giurisprudenza di legittimità.

Il processo è stato assegnato alla sesta sezione penale di questa Corte che, con ordinanza 30 settembre 2009, ha rilevato l’esistenza di un contrasto interno nella giurisprudenza di legittimità sul tema proposto con il primo motivo di ricorso e ha conseguentemente rimesso il ricorso a queste sezioni unite.

La sesta sezione ha infatti rilevato che nella giurisprudenza di legittimità si sono formati tre orientamenti: secondo il primo di essi alla sentenza di appello, pronunziata in esito all’udienza in camera di consiglio celebrata ai sensi dell’art. 599 del codice di rito, si applica la disciplina prevista per la sentenza dibattimentale (pubblicazione mediante lettura del dispositivo in esito all’udienza). Secondo altro orientamento sarebbe invece applicabile la disciplina prevista dall’art. 127 cod. proc. pen. cui l’art. 599 del medesimo codice espressamente rinvia.

La maggior parte delle sentenze che si iscrivono a questi due diversi orientamenti ritengono però che dalla violazione delle norme ritenute applicabili non derivi alcuna conseguenza sulla validità della decisione per il principio di tassatività delle nullità non essendo, questa conseguenza, espressamente prevista. Alcune sentenze ritengono peraltro che la lettura, pur irritale, del dispositivo equivalga alla notificazione della sentenza e che sia dunque idonea a dar luogo all’inizio del decorso del termine per l’impugnazione.

Esistono poi altre decisioni che hanno ritenuto che la mancata lettura del dispositivo di appello nel giudizio abbreviato provochi la nullità della sentenza di appello ovvero l’abnormità della sentenza d’appello se il giudice neppure provveda al deposito del dispositivo della sentenza.

V) La ricostruzione del quadro normativo.

Il giudizio di primo grado. L’assetto normativo riguardante la lettura del dispositivo nel giudizio abbreviato non si caratterizza per chiarezza non avendo il legislatore (salvo per quanto riguarda il giudizio di legittimità) ritenuto di indicare espressamente le modalità di pubblicazione della sentenza; disciplina espressa che sarebbe stata necessaria in considerazione della circostanza che il giudizio abbreviato si caratterizza per la commistione di regole applicabili al giudizio dibattimentale e regole previste per i procedimenti in camera di consiglio.

Nonostante ciò è opinione delle sezioni unite che possa pervenirsi ad una ricostruzione di questo assetto in un quadro di coerenza del sistema.

Preliminare alla soluzione del problema posto nell’ordinanza di rimessione – se il dispositivo della sentenza di appello nel giudizio abbreviato debba essere letto in udienza – è l’esame dell’analogo problema nel giudizio abbreviato di primo grado. Infatti anche per il giudizio di primo grado non sono disciplinate espressamente, dal codice di rito, le modalità di pubblicazione della sentenza.

Una lettura coordinata degli artt. 441 e 442 cod. proc. pen. Consente però di pervenire ad una soluzione difficilmente controvertibile del problema. Mentre l’art. 441, per quanto riguarda lo svolgimento del giudizio abbreviato, rinvia espressamente alle disposizione previste per l’udienza preliminare (e quindi all’art. 418 comma 1 che ne prevede espressamente la celebrazione in camera di consiglio), l’art. 442, che disciplina la decisione, precisa che il giudice provvede a norma degli artt. 529 e seguenti.

Tra le norme richiamate vi sono dunque non solo l’art. 544 comma 1 cod. proc. pen. – che impone al presidente di redigere e sottoscrivere il dispositivo dopo la deliberazione – ma altresì l’art. 545 il cui primo comma prevede espressamente la pubblicazione della sentenza mediante lettura del dispositivo ed eventualmente (comma 2) della motivazione quando sia contestualmente redatta.

VI) Il giudizio di appello.

Meno agevole si presenta invece la soluzione per il giudizio abbreviato d’appello. L’art. 443 comma 4 del codice di rito dispone infatti che il giudizio di appello “si svolge con le forme previste dall’art. 599” e quest’ultima norma – che disciplina la celebrazione del giudizio di appello in talune ipotesi – dispone, a sua volta, che “la corte provvede in camera di consiglio con le forme previste dall’art. 127”.

L’espresso richiamo all’art. 127 rende maggiormente ardua la soluzione del problema prospettato perché, come è noto, questa norma non prevede la lettura del dispositivo immediatamente dopo la deliberazione della decisione. Anzi, a ben vedere, né l’art. 127 né il successivo art. 128 – che disciplina il deposito e la pubblicazione dei provvedimenti in camera di consiglio – neppure prevedono la redazione di un dispositivo separato rispetto all’ordinanza che è il provvedimento conclusivo dei procedimenti in camera di consiglio; è però vero che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corretta la redazione del dispositivo separato nel caso di provvedimenti cautelari e che ciò si verifica per i procedimenti in camera di consiglio celebrati dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il rinvio alla disciplina contenuta nell’art. 127 giustifica l’esistenza di un consistente orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto corretta questa opzione.

Si tratta, peraltro, di orientamento, già prevalente, che però negli ultimi anni non risulta essere stato più seguito (le ultime decisioni in questo senso risultano essere Cass., Sez. II, 12 dicembre 2003 n. 847, Teano, rv. 227803; 24 aprile 2003 n. 22786, Paone, rv. 225450; Sez. I, 21 ottobre 1997 n. 10162, Torsello, rv. 208739).

La più recente giurisprudenza di legittimità è infatti orientata nel senso di ritenere che, anche nel giudizio abbreviato di appello, il dispositivo debba essere letto in udienza dopo la deliberazione della sentenza (si vedano, tra le altre, Cass., sez. I, 22 gennaio 2009 n. 15551, Pagnozzi e altri, rv. 243728; sez. V, 9 luglio 2008 n. 39205, Di Pasquale e altri, rv. 241696; sez. VI, 17 maggio 2007 n. 19049, Rinaldi, non massimata).

Le sezioni unite condividono questo più recente orientamento. A fronte di un dato formale apparentemente contradditorio (perché da un lato l’art. 442 richiama gli artt. 529 e ss; dall’altro l’art. 599 richiama l’art. 127) non possono che essere valorizzate le ragioni formali e logiche che convincono della correttezza della tesi in questione.

Sotto il primo profilo è stato osservato che l’art. 599 del codice di rito richiama “le forme” previste dall’art. 127 e l’uso di questa locuzione è da ritenere riferita proprio alle modalità di celebrazione del procedimento ma non alla sua decisione la cui forma resta quella richiamata dall’art. 442 e la cui applicazione nel giudizio di appello è imposta dall’art. 598 cod. proc. pen. che rende applicabili al giudizio di appello le disposizioni relative al giudizio di primo grado. È infatti da ritenere che, anche nel giudizio di appello, permanga la distinzione tra svolgimento e decisione nel giudizio abbreviato delineata negli artt. 441 e 442 cod. proc. pen.; e dunque che il termine “forme” non possa che riferirsi al solo svolgimento.

Ma vi sono due argomentazioni di carattere logico che per le sezioni unite valgono ad eliminare ogni dubbio.

La prima riguarda la natura del giudizio abbreviato che ha applicazione generalissima e che, dopo le modifiche introdotte nel 1999, è divenuto addirittura obbligatorio se l’imputato lo richiede con limitati poteri di non ammetterlo solo nel caso di richiesta di integrazione probatoria non compatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito. Ciò richiede che vengano valorizzate tutte le caratteristiche che, in mancanza di espressa disciplina, tendono ad uniformare questo rito a quello dibattimentale. Tra queste caratteristiche la lettura del dispositivo in udienza è non solo del tutto compatibile con la specialità del rito abbreviato ma addirittura da ritenere obbligata perché espressione del principio di immediatezza che caratterizza il processo ordinario.

Si aggiunga che l’accoglimento della diversa tesi creerebbe un’inammissibile asimmetria nel sistema del giudizio abbreviato: in primo grado per le ragioni già indicate e nel giudizio di legittimità per l’espressa previsione dell’art. 611 del codice di rito il giudizio si conclude necessariamente con la lettura del dispositivo in udienza ma, per una non giustificabile anomalia, il giudizio di appello dovrebbe avere una diversa conclusione. Un sistema così congegnato sarebbe privo di razionale giustificazione e ciò conforta l’interpretazione indicata.

VII) Le conseguenze della mancata lettura del dispositivo.

Premessa.

Mentre sul problema della lettura del dispositivo in udienza la più recente giurisprudenza di legittimità aveva trovato una soluzione condivisa ciò non è avvenuto sul tema delle conseguenze che derivano dalla mancata lettura del medesimo dispositivo.

Su questo problema va intanto premesso che la mancata lettura del dispositivo in udienza non esaurisce il ventaglio delle soluzioni possibili perché due possono essere – una volta che il giudice di merito abbia erroneamente optato per il deposito in cancelleria – i percorsi ipotizzabili. Può aversi il caso del deposito di un dispositivo separato comunicato alle parti ovvero il caso del deposito dell’originale della sentenza per cui l’originale del dispositivo è quello in essa contenuto.

Questo secondo metodo di deposito è quello previsto, dall’art. 128 del codice di rito, per i procedimenti trattati in camera di consiglio; peraltro anche il sistema della separata pronunzia (e deposito) del dispositivo rispetto all’originale del provvedimento è stato ritenuto corretto, come si è già accennato, dalla giurisprudenza di legittimità nel caso di provvedimenti del tribunale per il riesame (v. Cass., sez. un., 25 marzo 1998 n. 11, Manno e altri, rv. 210609 e, più di recente, Cass., sez. V, 12 ottobre 2006 n. 38105, Trombin e altro, rv. 235760) ed è anzi la soluzione adottata per i procedimenti in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione argomentando dagli artt. 625 comma 2 e 626 cod. proc. pen. (cons. le ordinanze delle sezioni unite n. 15 del 12 maggio 1995, Sciancalepore, rv. 201028 e n. 14451 del 27 marzo 2003, Previti, rv. 223633).

A questo ultimo riguardo si sono formati tre orientamenti nella giurisprudenza di legittimità. Secondo il primo di essi, assolutamente prevalente, la mancata lettura del dispositivo non è causa di alcuna nullità e si risolve in una mera irregolarità priva di alcuna conseguenza. Secondo una più recente ma isolata decisione (Cass., sez. VI, 10 maggio 2007 n. 19049, Rinaldi e altri, non massimata) la mancata lettura del dispositivo produce l’abnormità della sentenza a meno che il dispositivo, pur non letto in udienza, venga immediatamente redatto e depositato in cancelleria (nel qual caso si verificherebbe una mera irregolarità). Secondo un terzo orientamento (di cui è espressione Cass., sez. IV, 28 gennaio 1993 n. 3219, Guccio e altro, rv. 198441) si verificherebbe il caso di nullità previsto dall’art. 546 u.c. cod. proc. pen. dovendo ritenersi mancante il dispositivo.

VIII) La tesi della nullità della sentenza.

Ritengono le Sezioni Unite che ai fini della soluzione della questione relativa alle conseguenze della mancata lettura del dispositivo all’esito del giudizio abbreviato di appello debba tenersi conto delle specifiche caratteristiche di tale rito camerale.

La procedura contemplata dall’art. 599 cod. proc. pen. si conforma, per espresso richiamo, al modulo dell’art. 127 del medesimo codice in cui la presenza delle parti è meramente eventuale (v. in particolare il comma 3 dell’art. 127). Ne consegue che il contenuto della decisione, espresso nel dispositivo, non comporta indefettibilmente una lettura di questo ai sensi dell’art. 445 comma 1 cod. proc. pen. dato che la pubblicazione mediante lettura implica la presenza, almeno immanente, delle parti, come avviene per la sentenza emessa all’esito del dibattimento.

Dunque mentre la mancanza di un dispositivo letto in udienza invalida la sentenza dibattimentale – perché la lettura del dispositivo è l’unica forma attraverso la quale può essere espressa la decisione in un contesto caratterizzato dai congiunti principi di oralità, immediatezza e pubblicità derivandone che non è consentito riportare nel documento-sentenza altro che il dispositivo,pubblicato nelle forme dell’art. 545 cod. proc. pen. – nel caso del rito camerale del giudizio abbreviato di appello, in cui difetta la pubblicità della udienza e la presenza delle parti è meramente eventuale, la formazione di un dispositivo che sia stato redatto non, come sarebbe doveroso, subito dopo la deliberazione ma al momento del deposito del documento-sentenza costituisce una mera irregolarità; la sanzione di nullità prevista dall’art. 546 comma 3 cod. proc. pen. implica infatti la mancanza o incompletezza del dispositivo che non ricorre nel caso di un dispositivo formalizzato, sia pure non immediatamente dopo la decisione camerale, al momento del deposito del provvedimento.

Si tratta peraltro di irregolarità che produce effetti giuridici perché la mancanza di lettura del dispositivo impedisce il decorso dei termini per l’impugnazione di cui al terzo comma dell’art. 545 cod. proc. pen.

Da ultimo va osservato che l’unica conseguenza dell’affermazione della tesi della nullità sarebbe quella di riportare il processo, fino a quel punto regolarmente celebrato, alla fase successiva alla discussione (art. 185 comma 1 cod. proc. pen.). I giudici d’appello dovrebbero riconvocare le parti per leggere il dispositivo con tutti i problemi che potrebbero derivare sulla possibilità di emettere una decisione di diverso contenuto o dall’impossibilità di formare il collegio nella medesima precedente composizione.

IX) La tesi dell’abnormità della sentenza.

Resta da valutare se la mancata lettura del dispositivo integri un’ipotesi di abnormità secondo la tesi sostenuta dalla già ricordata sentenza Rinaldi della sesta sezione di questa Corte. Ciò richiede un breve esame dei principi che disciplinano l’atto abnorme.

Le sezioni unite di questa Corte hanno in più occasioni ribadito (v. Cass., sez. un., 24 novembre 1999 n. 26, Magnani, rv. 215094 e 10 dicembre 1997 n. 17, rv. 209603) che si caratterizza per abnormità non soltanto il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale ma, altresì, quello che, pur essendo in astratto espressione di un legittimo potere, si esplichi, al di là di ogni ragionevole limite, al di fuori dei casi consentiti o delle ipotesi previste.

Si è aggiunto, in queste decisioni, che l’abnormità dell’atto può riguardare tanto il profilo strutturale (quando l’atto si pone al di fuori del sistema normativo) quanto il profilo funzionale (quando, pur non ponendosi al di fuori del sistema, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo).

E la più recente sentenza delle sezioni unite 20 dicembre 2007 n. 5307, Battistella, rv. 238239, ha ribadito questi principi considerando ancora che “l’assenza di criteri uniformi d’identificazione dei caratteri distintivi del provvedimento abnorme ha contribuito ad una progressiva estensione di tale categoria, rispetto alle tradizionali invalidità dell’atto, nell’intento dichiarato da parte della giurisprudenza di legittimità di rimuovere, con il rimedio del ricorso immediato per Cassazione, situazioni processuali extra ordinem, altrimenti non eliminabili (per la preclusione derivante dalla tassatività dei mezzi di impugnazione e delle nullità), che conseguono ad atti del giudice geneticamente o funzionalmente anomali, non inquadrabili nei tipici schemi normativi ovvero incompatibili con le linee fondanti del sistema”.

Alla luce dei principi indicati non può, il provvedimento impugnato, essere ritenuto abnorme.

Escluso che l’atto in esame provochi una stasi del processo non altrimenti superabile deve rilevarsi che la violazione processuale in esame non può ritenersi integrare un provvedimento avulso dall’intero ordinamento processuale posto che non fa altro che applicare, ad un procedimento che va trattato in camera di consiglio, la disciplina ordinariamente prevista, in tali procedimenti, per la decisione e la pubblicità della sentenza. Si tratta dunque di una soluzione che le sezioni unite ritengono non condivisibile ma che non è priva di plausibilità come del resto è dimostrato dall’esistenza di un consistente orientamento di legittimità che l’ha condiviso.

Né sono condivisibili le affermazioni contenute nella già ricordata sentenza Rinaldi della sesta sezione che ha individuato questo grave scostamento dal modello normativo nella violazione del principio di immediatezza della deliberazione della sentenza penale. Trattasi infatti di principio connaturato al dibattimento penale per il quale però la legge deroga per i procedimenti in camera di consiglio e che quindi non può essere ritenuto assoluto. Né può affermarsi che la deroga faccia venir meno la genuinità del contradditorio e la reale collegialità della decisione, come si ritiene nella decisione indicata, a meno di voler affermare che in tutti i procedimenti in camera di consiglio si verificano questi effetti perversi.

X) Le censure riguardanti la responsabilità dell’imputato.

I motivi secondo e terzo contenuti nel ricorso – che per la loro stretta connessione possono essere congiuntamente esaminati concernono sia la ricostruzione operata dalla corte di merito dei fatti oggetto dell’imputazione che la possibilità di ritenere che il fatto accertato dai giudici di merito possa astrattamente integrare il fatto tipico del delitto di millantato credito previsto dall’art. 346 cod. pen.

Com’è noto questa norma sanziona la condotta di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione (comma 1) ovvero come prezzo per comprare il favore del pubblico ufficiale o per remunerarlo (comma 2).

Trattasi di un delitto del privato contro la pubblica amministrazione il cui retto e imparziale funzionamento costituisce l’oggetto della tutela. Per integrare la fattispecie tipica, ed in particolare l’ipotesi – ravvisata nei casi di specie nella forma tentata – prevista dal secondo comma dell’art. 346 (che costituisce ipotesi autonoma di reato e non aggravante: v. Cass., sez. VI, 20 febbraio 2006 n. 22248, Ippaso e altri, rv. 234719) è irrilevante che l’iniziativa parta dalla persona cui è richiesto di corrispondere il danaro o l’utilità (cfr. Cass., sez. VI, 22 febbraio 2005 n. 11441, Sammartano, rv. 231042) e neppure è richiesto che l’agente indichi nominativamente i funzionari o impiegati che devono essere comprati o remunerati (v. Cass., sez. VI, 27 gennaio 2000 n. 2645, Agresti e altro, rv. 215651; 17 giugno 1999 n. 9425, Fatone, rv. 214125).

Alla luce di questi principi le censure che si riferiscono alla possibilità che le condotte accertate integrino il delitto contestato si rivelano manifestamente infondate. Anche a voler ritenere corretta la ricostruzione fattuale compiuta nel ricorso è infatti irrilevante che la vanteria sia stata successiva alla proposta di G.così come è irrilevante che non fossero stati indicati i pubblici funzionari da corrompere.

Le altre censure proposte dal ricorrente con i motivi in esame sono invece inammissibili perché con esse il ricorrente pretende di avvalorare una ricostruzione dei fatti, ed in particolare del contenuto delle conversazioni intercettate, difforme da quella compiuta dai giudici di merito. Ciò in particolare per quanto riguarda l’interpretazione delle conversazioni relative al secondo episodio in merito alle quali la sentenza impugnata ha fornito di adeguata risposta le censure proposte con l’appello sulla possibilità di far ridurre al massimo le “multe” per gli abusi accertati. E analoghe considerazioni possono farsi in merito alla asserita inesistenza di affermazioni dell’imputato sulla corruttibilità dei pubblici ufficiali.

Ma poiché il ricorrente non nega di aver richiesto somme di danaro a G.con il terzo motivo di ricorso tenta di accreditare la versione che le somme richieste non dovevano servire a remunerare i pubblici ufficiali ma i professionisti incaricati della predisposizione della pratica. Ma anche su questo aspetto la sentenza impugnata è incensurabile perché ha tratto il diverso convincimento dall’esame delle conversazioni trascritte dalle quali non emerge in alcun passo che le somme richieste fossero destinate a remunerare i professionisti mentre la Corte d’appello valorizza quella parte del colloquio in cui M. precisa di aver coinvolto altre persone (oltre al sindaco) e che non vuole “finire in galera per voi”.

Trattasi dunque di motivazione adeguata ed esente da alcuna illogicità che si sottrae conseguentemente al vaglio di legittimità.

XI) Determinazione della pena e liquidazione delle spese a favore della parte civile.

La censura riguardante la determinazione della pena è inammissibile.

Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art. 132 cod. pen., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere.

In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento. Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata, alla gravità della condotta e all’intensità del dolo.

Questa valutazione, essendo congruamente e logicamente motivata, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità con la conseguente inammissibilità del motivo.

Infondato è invece il motivo che si riferisce alla liquidazione delle spese in favore della parte civile; liquidazione che, secondo il ricorrente, non sarebbe dovuta in quanto l’appello relativo alle statuizioni civili era stato parzialmente accolto con la riduzione del danno liquidato da Euro 15.000,00 a Euro 10.000,00.

Mentre, nel caso di parziale accoglimento dell’appello, è precluso al giudice dell’impugnazione di condannare l’imputato al pagamento delle spese processuali nel caso di parziale accoglimento dell’appello ai fini civili, poiché l’imputato è da ritenere comunque soccombente, deve essere pronunziata condanna alle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio d’impugnazione salvo che il giudice non ritenga di compensarle per l’esistenza di giusti motivi (cfr. Cass., sez. V, 21 ottobre 2008 n. 46453, Colombo e altro, rv. 242611; sez. IV, 2 ottobre 2007 n. 44777, Sasso e altro, rv. 238660; sez. un., 30 aprile 1997 n. 6402, Dessimone, rv. 207946).

XII) Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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